Il Campo di Manduria si è ripopolata di persone richiedenti asilo. Come una sorta di purgatorio burocratico del quale Giulio ci racconta, con le parole e le sue immagini (QUI tutte le altre sue belle foto) perchè ci sia traccia di quello che accade in Italia in questo tempo di solidarietà mancata e disumanità.
di Giulio F.
“Manduria (TA) 5 maggio 2011
Il Campo di Manduria da ieri è di nuovo a lavoro. Circa 750 persone, uomini, donne e bambini, di origine principalmente subsahariana ed arrivate nei giorni scorsi a Lampedusa sono state “accolte” nel campo. Da quel che risulta, avranno tutt* sicuramente l’asilo politico, e saranno nel campo al massimo fino a lunedì. Infatti, vengono man mano trasferiti da Manduria nei vari Cara pugliesi, principalmente nel foggiano e nel barese.
Oggi pomeriggio sono arrivato al campo verso le 17 e 30. I luoghi sono gli stessi, ma l’aria che si respira rispetto all’ “emergenza tunisina” è totalmente diversa. Pochissima polizia, la presenza del campo è quasi impercettibile, se non fosse che dall’ultima volta è stata montata una recinzione in più. Sotto gli ulivi alcune tracce dei vecchi falò del deserto sotto gli ulivi, e qualche maglione di troppo abbandonato qua e là.
Incontro qualche amico italiano di associazioni umanitarie conosciuto nei giorni scorsi. La situazione è molto distesa, tanto che sono stati accompagnati dalle forze di polizia a controllare le condizioni del campo. Ma, da fuori, i migranti si vedono solo dalle reti, alcuni giocano a pallone. Poi, dopo un mese e mezzo, riesco ad entrare nel campo. Non ci vuole molto, in realtà: prendo una busta di abiti per bambini lasciata lì da un’associazione locale ed entro. Nessuno mi ferma. Lascio la busta al personale umanitario e giro tranquillamente nell’ “anticampo”. Sono praticamente tutti lì. Niente foto, purtroppo, ma parlo con alcune persone: ci sono nigeriani, ghanesi, maliani, etiopi, somali, algerini, qualche bengalese: praticamente tutti lavoravano in Libia e sono stati costretti alla fuga dalla guerra. Ci sono donne in vestiti coloratissimi e qualche bambino che gioca. Nessuna tensione.
Finisco per parlare con un ragazzo nigeriano, sulla trentina. E’ arrivato al campo con la moglie al nono mese di gravidanza. Viveva nella Libia orientale, dove ha lavorato per 4 anni con la Telecom locale. Parla un inglese perfetto con un marcato accento americano, canta hip-hop, mi dice. Dopo un po’ si sblocca e mi racconta che una notte dormiva abbracciato con sua moglie quando sentì le bombe di Gheddafi esplodere intorno alla sua casa. Non c’era tempo per fare il passaporto e sono partiti col barcone per l’Italia.
Gli chiedo cosa ne pensa della guerra: è una cosa stupida, mi dice, che poteva essere risolta pacificamente i primi giorni. Ma per lui non è una rivoluzione: i libici hanno la pancia troppo piena per ribellarsi al governo, non lavorano ed hanno comunque un ricco mensile. E’ un gioco di potere tra la famiglia Gheddafi e le tribù dell’est, mi dice. Lo saluto e gli faccio i migliori auguri per il futuro, per lui, la moglie e il figlio. Non si sposterà molto dalla Puglia, ci salutiamo nella speranza di reincontrarci.
Me ne vado, per non sfidare troppo la fortuna. Il campo, in pratica, s’è trasformato in una sorta di pre-Cara: dove arrivano i richiedenti asilo per essere poi spostati in strutture più piccole, in base alle necessità. Probabilmente la situazione resterà immutata finché ci saranno succosi appalti (senza bando) da spartirsi. Vedremo.”
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