Alcuni compagni e alcune compagne si sono recate a San Piero a Grado per stabilire un primo contatto con i ragazzi attualmente reclusi in un ex edificio dell’università. Vogliamo pertanto raccontarvi come è stato iniziare a conoscersi anche se per ora attraverso una recinzione di filo spinato che ancora non siamo riusciti ad abbattere.
Oggi (ieri per chi legge ndr) è una bellissima giornata, di quelle primaverili in cui è piacevole prendere la bici per una passeggiata all’aria aperta.
Partiamo in quattro, da Pisa, con due bici e un tandem, alla volta di San Piero a Grado, c’è il sole e un po’ di vento che ci accompagna.
Abbandonata la strada che va verso il mare, evitando i camion e i suv che ci suonano, imbocchiamo una strada sempre più piccola, polverosa, che taglia in due i campi pisani, per chilometri.
Di abitazioni non ce ne sono quasi, ce le siamo lasciate alle spalle da un po’, solo ogni tanto si incontra un cascinale, nella campagna. In tutto facciamo quasi 10 km.
Dopo mezz’ora circa arriviamo all’edificio dell’Università che è stato adibito a Centro di accoglienza profughi.
La prima impressione è che, nonostante il posto sembri abbastanza accogliente, è comunque parecchio isolato rispetto alla città di Pisa e che sarà difficile per i migranti spostarsi senza una bici.
Scendiamo e cerchiamo di entrare nel Centro, ma la Municipale ci dice che non abbiamo il permesso, per entrare dobbiamo chiederlo al Prefetto e che se vogliamo possiamo restare, ma fuori dal cancello.
Ci spostiamo di due metri, mentre una di noi fa notare che è piuttosto ridicolo questo spostamento; fuori dalle reti e dal filo spinato quelli che ci vengono incontro dall’altra parte sono una decina di volti incuriositi.
Il primo ragazzo che ci parla è Tamer (chissà se lo stiamo scrivendo bene) che ha una ventina di anni ed è musicista, spiega che sa suonare una serie di strumenti musicali e ci chiede anche se gli possiamo portare un quaderno, per comporre (rap, cosa ascolti di rap?) e una chitarra, perchè a stare nel centro tutto il giorno ci si annoia. Ci scambiamo un sacco di domande, loro in un francese molto migliore del nostro, ci facciamo raccontare del viaggio e loro ci chiedono in che parte dell’Italia siamo e quanto distano i confini e le altre grandi città italiane. Disegnamo una mappa su un foglio indicando la Francia, Pisa e Lampedusa.
Al sentir pronunciare Lampedusa, parte un coro di Noooo!!!
Non vogliono neppure sentirla nominare, quell’isola.
Ci raccontano che lì non se la sono passata molto bene: dopo un lungo viaggio costato molto (circa mille euro a persona) stipatissimi su una barca molto piccola, in cui erano tutti uomini -circa trecento- tranne due donne, riuscire a sbarcare è stato lungo e difficile, sull’isola, dove hanno trascorso quindici giorni, hanno camminato parecchio e poi sono giunti alla montagna, dove hanno dormito su teli di plastica all’aperto, in terra, il cibo era pessimo, vecchio, hanno dovuto camminare tanto (infatti uno di loro aveva male ad un piede per lo sforzo e stava aspettando l’ambulanza che lo sarebbe venuto a prendere nel pomeriggio), pochi sono riusciti a farsi una doccia, soltanto grazie all’ospitalità dei lampedusani, perché non erano statepredisposte.
Il viaggio da Lampedusa a Pisa è durato 4 giorni e ci sembra troppo tempo; quando chiediamo ci spiegano che sarebbe stato molto meno se la nave su cui erano non fosse stata continuamente rimpallata per cambiare direzione: mentre salivano a Nord sono stati respinti verso il Lazio, ci sembra di capire perchè c’erano navi della marina militare che impedivano il passaggio, quindi hanno fatto una prima tappa ad Ostia, ma Roma non è stata ospitale e solo alcuni scelti arbitrariamente si sono potuti fermare, gli altri sono stati mandati via e sono sbarcati mercoledì scorso a Livorno.
Tutti i ragazzi sono migranti per lavoro, molti hanno contatti in Francia, dove si vogliono spostare anche perché sanno parlare già la lingua e infatti ci chiedono più volte quanto tempo si impiega per arrivare al confine, da che città si passa e se si può andare solo in macchina o anche in treno.
Tarek invece dice che lui rimarrebbe anche in Italia, ci chiede quanto sia difficile trovare lavoro a Pisa e scherza chiedendo se lo vogliamo sposare, perché ha voglia di iniziare una nuova vita.
Maer ci chiede se siamo mai stat* in Tunisia e ci dice di andarci, ma tra un paio di anni.
Chiediamo come sta chi è rimast* e dove sono le donne e i bambini (sono solo ragazzi sia in questo centro, sia nell’altro centro di Pisa). Ci dicono che la situazione al momento è molto incerta e che chi riesce parte, perché è difficilissimo lavorare. Sono soprattutto gli uomini a partire, le donne rimangono in Tunisia, se va tutto bene chi è sposata arriverà in un secondo momento.
Uno di noi si fuma una sigaretta iniseme a loro, mentre dice che secondo noi dovrebbero essere tutt* liber* e che non ci dovrebbero essere quelle reti. I ragazzi sono d’accordo: spiegano che il cibo è buono e il posto è bello, ma anche che sperano che l’attesa del permesso duri poco perché sembra di stare in galera.
Parliamo ancora tanto, ci chiedono di noi, di Pisa, di quanto sia grande la comunità tunisina in Italia.
Ci chiedono più volte se possiamo portare un dizionario, un libro di grammatica, perché vorrebbero poterci parlare, imparare un po’ di italiano ed esprimersi, c’è così tanto da dire, da narrare.
Prima di andare via domandiamo se serve qualcosa, sigarette, cibo: ci chiedono di procurare loro un mazzo di carte (“Così poi si gioca a poker insieme”) e il cous cous, che ci vogliono cucinare, mettendo in piedi uno scambio culinario italo-arabo.
Ci rimettiamo sulle bici al tramonto: i ragazzi ci salutano e ci scrivono su un foglio, in arabo, “Welcome” con i nostri nomi e ci salutano con un “A domani. Ciao!”.
Calambrone, dove i sentimenti più reazionari si sono espressi fino ad oggi sfociando nel danneggiamento della struttura che avrebbe potuto ospitare alcuni di questi ragazzi, è a uno sputo di distanza, ma ci sembra possibile tenerlo distante, conoscendoci, ascoltandoci e riappropriandoci del significato della solidarietà.
Ed è sembrato ancora più distante quando un passante incuriosito si è fermato a scambiare due parole con i ragazzi, gesto sicuramente facilitato dalla nostra presenza li.
Se queste esperienze possono rappresentare un primo passo per abbattere i confini mentali, ce ne sono da fare altrettante per abbattere anche quelli fisici.
A domani!
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