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Dialoghi intorno all’affidamento condiviso: la mediazione familiare

Tante persone si interessano a questi temi e la cosa curiosa è che molte tendono a parlarne per partito preso, attribuendo significati, opinioni a seconda dell’immagine, se negativa o positiva, che vogliono dare della proposta di legge che ragiona di affido condiviso. A me piace farmi una corretta idea – nel merito – delle cose e dato che non sono abituata a vedere demoni dietro le proposte né mi interessa fare un processo alle intenzioni della gente dunque mi interessa capire. A partire da informazioni dirette. L’ho fatto assieme a voi, condividendo ogni settimana una intervista di approfondimento di ogni singolo punto trattato dalla proposta che arriva da chi l’affido condiviso in Italia l’ha immaginato, progettato ed eccoci allora all’ottavo appuntamento con Marino Maglietta, il quale ha elaborato e proposto le norme e le modifiche alla attuale legge dell’affido condiviso (54/2006). QUI il suo primo intervento introduttivo. QUI ci racconta qual è stata l’origine della riforma. QUI ci siamo occupati di collocazione e frequentazione del bambino. QUI ci siamo occupati del mantenimento dei figli. QUI circa l’assegnazione della casa e i cambiamenti di residenza. QUI circa la violenza intrafamiliare. QUI Su l’alienazione parentale. Tra sette giorni l’ultimo appuntamento.  Buona lettura!

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Nella sua proposta di legge lei prevede all’articolo 8 l’obbligo di rivolgersi ad un mediatore familiare “In tutti i casi di disaccordo nella fase di elaborazione di un affidamento condiviso (…), prima di adire il giudice e fatti salvi i casi di assoluta urgenza o di grave imminente pregiudizio per i minori“. Dunque alcune domande: Cos’è e cosa fa concretamente un mediatore familiare; qual è il suo orientamento e che tipo di soluzioni indicherà ai coniugi in fase di separazione; se esiste la mediazione familiare come istituto pubblico; quanto costa mediamente la mediazione privata; chi può essere mediatore familiare, che competenze e titolo di studio e che tipo di formazione riceve. E mettendo più a fuoco gli aspetti che qui maggiormente interessano, uno degli argomenti di opposizione all’uso della mediazione familiare nei casi di separazione e affido è quello relativo al fatto che si tenderebbe a confondere conflittualità e violenza. La mediazione familiare può, nella sua previsione, essere usata in casi di violenza sulle donne e sui minori? Chi determina e stabilisce il confine tra conflittualità, litigiosità sanabile e violenza?

Al momento in Italia il mediatore familiare è figura senza un profilo professionale definito per legge. Questo vuol dire che in linea di principio chiunque potrebbe porre una targa di mediatore fuori della propria porta e “mediare”. Teoricamente. In pratica, però, esistono regole interne alle associazioni di mediatori (di natura privata), ispirate dal “Forum Europeo per la formazione dei mediatori familiari”, che definiscono gli accessi. Tipicamente occorre frequentare un corso di 240 ore almeno, delle quali 40 di tirocinio. Naturalmente la qualità, ovvero la bravura, del mediatore dipende dal talento personale, oltre che dalla formazione, come in ogni attività. Non ci sono limiti rigidi agli accessi (dipende anche dalla associazione alla quale ci si rivolge), ma di regola la professione interessa psicologi, giuristi, operatori nelle scienze sociali e della comunicazione. Anche le istituzioni (Università, Regioni ecc.) organizzano corsi di formazione, con regole variabili. La mediazione presso enti pubblici come le ASL è gratuita; presso i centri privati a pagamento, con costi variabili, ma sempre contenuti, neppure comparabili con il costo di una lite. Normalmente si assume che un percorso di mediazione richieda una dozzina di incontri, scaglionati nell’arco di qualche mese, al costo di un centinaio di euro ciascuno, complessivi. Esistono varie tecniche di mediazione, ma lo scopo è sempre lo stesso: riattivare la comunicazione all’interno della coppia, agevolare la formazione di accordi, senza intervenire all’interno di essi: ovvero non “indica soluzioni”. Prerequisito perché una coppia sia mediabile è che ci sia analogo “potere contrattuale”, nel senso che non esistano condizioni di vantaggio o di soggezione dell’uno rispetto all’altro, come la violenza o il ricatto economico. Ci sono, tuttavia, delle eccezioni, come la previsione della legge 154/2001 (Finocchiaro, Misura cautelare dell’allontanamento dalla casa familiare). che il violentatore e la violentata siano inviati in mediazione: “Il giudice può disporre, altresì, ove occorra l’intervento dei servizi sociali del territorio o di un centro di mediazione familiare” (art. 342 bis c.c.). Ma quella non l’ho scritta io. Per quanto mi riguarda non se ne parla proprio. Quanto alla confusione tra litigiosità e violenza, o meglio quanto al problema di monitorare attentamente le situazioni a rischio e di dare credito alle violenze denunciate invece che attendere che scorra il sangue, è un problema grave, molto grave, che riguarda l’applicazione, la capacità delle istituzioni di far rispettare le leggi; non chi le scrive.

Approfondiamo. Alcune associazioni che si occupano di violenza sulle donne temono che l’obbligo d’uso della mediazione familiare tenda a banalizzare la violenza, a non riconoscerla quando è tale e a forzare una conciliazione tra le parti che esporrebbe a pericoli donne e bambini, in nome della bigenitorialità. Può spiegarmi, per favore, perché la scelta dell’obbligo, invece che l’uso facoltativo, e se lei ha tenuto conto di questi legittimi timori? Può quell’obbligo venire meno se gli ex coniugi preferiscono fare da se’ ? Ovvero: il mediatore è una risorsa possibile o è una imposizione che se non utilizzata comporta l’addebito di sanzioni? Ed è previsto che, per esempio, ove vi sia il sospetto di una violenza, il mediatore familiare agisca in senso interdisciplinare di concerto ad altre figure e ad altri riferimenti istituzionali?

Mi basta ripetere che non esiste alcun obbligo di effettuare il percorso, ma solo di andare ad informarsi sulle potenzialità della mediazione presso un centro accreditato, prima di presentarsi davanti al giudice. Aggiungo, come ho già accennato, che in presenza di violenze agite da un partner contro l’altro la coppia secondo le indicazioni da me fornite non è mediabile. Purtroppo ho appena detto che c’è chi dice di sì, ma non chiedetene conto a me!  Chiarisco, invece, che ove il mediatore, a percorso iniziato, apprendesse che ci sono stati episodi di violenza dovrebbe rinunciare al mandato, ma non potrebbe segnalare il caso alle istituzioni, essendo la mediazione momento svincolato completamente dall’ambito giudiziario ed essendo il mediatore obbligato alla segretezza. Tale separazione assoluta comporta anche che l’impossibilità che il giudice commini sanzioni non solo al partner che avesse fatto fallire il percorso, ma nemmeno a chi si fosse rifiutato di iniziarlo. Insomma: non esiste nessuna comunicazione tra il mediatore e il giudice. In caso di insuccesso di redige un verbale in cui è scritto che “La coppia si è presentata. La mediazione non ha avuto successo”. Tutto qui. Se invece riesce, il verbale degli accordi viene portato dal giudice per essere omologato, previo controllo di regolarità e con l’assistenza di un avvocato.    Aggiungo solo per estrema chiarezza che il diritto alla bigenitorialità, riconosciuto ai figli come loro e indisponibile, certamente costituisce una spinta, un incentivo, affinché si cerchi di accordarsi, ma sempre quando sussistono le condizioni per un affidamento ad entrambi i genitori: il che esclude tutta una serie di situazioni negative e di pericoli. E non mi si dica “sì, però i giudici partono dall’idea del doppio affidamento e non si chiedono a chi lo danno”. Questo riguarda la sciatteria del sistema applicativo, non chi pensa le regole.

Ci sono ragioni per le quali un genitore, l’uno o l’altra, potrebbe non avere “convenienza” ad andare in mediazione?

E’ chiarissimo e inequivocabile dalla formulazione della domanda che si sta facendo riferimento a un tornaconto individuale, nell’ipotesi ammessa e non concessa che un genitore voglia scegliere il proprio tornaconto come criterio guida. Questo taglia fuori la risposta più ovvia e banale con cui se la caverebbe un fariseo dei nostri tempi nascondendosi dietro le frasi fatte e i giudizi di moda: “Al primo posto non c’è che l’interesse del minore, che in mediazione può essere meglio realizzato, valutando più attentamente  e con l’aiuto di un terzo ciò che a lui giova. Questa è l’unica convenienza per qualsiasi genitore”. Ma questo vorrebbe dire eludere il senso della domanda, che vuol sapere se a mio parere egoisticamente ragionando la mediazione familiare per qualcuno può essere meno conveniente che rimettersi al magistrato.  La risposta allora si diversifica. Per un genitore che si dovrebbe presentare da un giudice che non rispetta le regole del condiviso, e che abbia ragione di ritenere che lo indicherebbe come collocatario, gli assegnerebbe la casa anche se non sua e gli destinerebbe un assegno per il mantenimento del figlio solo perché collocatario, anche se magari è più ricco dell’altro, penso che possa esistere la tentazione di evitare la mediazione, dalla quale potrebbe uscire con qualcosa di meno. Resta il fatto che questo, comunque, sarebbe un ragionamento nel breve termine. Sviluppando, invece, un ragionamento differente, meno miope, quel genitore potrebbe pensare: “Se costruisco una soluzione concordata è molto probabile che non ci debba tornare sopra, che mi metta al riparo da successive vertenze, con relative spese, che possa godermi quanto ottenuto senza eccessive tensioni. Quindi, in definitiva, mi conviene.”

Visto che lei mi diceva che aveva proposto il ricorso alla mediazione familiare fin dall’inizio, venti anni fa, ed stata sistematicamente espunta dai suoi testi, esistono evidentemente delle resistenze ad essa. Da che parte vengono e come si spiegano?

La mediazione familiare è stata avversata principalmente da una parte dell’avvocatura. Anche in questo caso si propone il problema dell’onestà intellettuale, questa volta non mia, ma del modo di porsi di quella componente dell’avvocatura stessa. Quando nel 2005 in Commissione Lavoro un parlamentare avvocato annunciò parere contrario (poi seguito da tutta la commissione) perché, in sostanza, la mediazione familiare disturbava l’attività professionale degli avvocati, ammetto di esserci rimasto male. Ora invece apprezzo la sincerità e la schiettezza di quell’intervento; ora che mi tocca leggere le tartufesche, o addirittura menzognere, motivazioni di altri soggetti. Ora che, perfino a livello ufficiale, si sostiene da alcuni che la mediazione così come proposta dal mio progetto non va bene: perché al cittadino non si può chiedere di sostenere “anche” questa spesa (meglio una sana ed economica causa); oppure perché impedisce al cittadino il libero accesso alla giustizia (infatti al momento ci si presenta direttamente dal giudice, non ci sono adempimenti preliminari); ovvero perché la mediazione “obbligatoria” (secondo loro si vorrebbe tale ) non funziona; o perché il giudice farà pagare il fallimento della mediazione sul genitore che ne è responsabile sulla base della relazione che riceve dal mediatore; o anche perché anticipandola rispetto alla fase contenziosa si impedisce al giudice di effettuare il tentativo di conciliazione. Dovrei ancora spiegare e rispondere? Lasciamo che i morti seppelliscano i morti. 

Si, ma cosa ne pensa, e come si risolverà questo conflitto?

In tutte le professioni capita di dover aggiustare il tiro e modificare in qualche misura il modo in cui si era impostato il proprio lavoro. Si pensi a una certa categoria di medici nel momento in cui si scopre un farmaco che spazza via le malattie che trattavano. E’ evidente che dovranno adottarlo e che dovranno rimodellare la propria attività privilegiando altre patologie in precedenza per loro secondarie. Ma certamente non potranno astenersi dal somministrare gli antibiotici all’ammalato che ne ha bisogno sbandierando gli effetti secondari che, per quanto seri, saranno sempre meno gravi della patologia. Purtroppo nel diritto di famiglia alcuni hanno fatto esattamente così. Ribadire ogni 3 secondi che il bambino non va “sballottato” e che non è “un pacco postale” significa sorvolare sul fatto che la sua stabilità logistica è certamente meno importante della sua stabilità affettiva. Non sono argomenti per negare convincentemente l’adozione di regole che sono state scritte a favore dei figli, non contro di loro. Un errore in buonafede o disonestà intellettuale? E’ irrilevante. E come si sostengono tesi del genere per non realizzare l’affidamento condiviso, così si adottano pretesti per ostacolare la mediazione, che ne è il necessario strumento, sotto molti aspetti. E’ innegabile che se una controversia viene risolta dal mediatore ci sarà una lite di meno. Ma è altrettanto vero che all’avvocato resta comunque uno spazio non piccolo: sarà lui a verificare l’accordo, ad es., e ad accompagnare la coppia per l’omologa. Secondo alcuni modelli di mediazione, sarà addirittura lui necessariamente a curare gli aspetti patrimoniali. Per tacere del fatto che la principale associazione di mediatori familiari tiene aperta agli avvocati la porta della formazione alla mediazione. Sto scrivendo una proposta di legge sul profilo professionale del mediatore familiare che lo prevede esplicitamente. Quindi in Italia, come già adesso in Argentina, l’avvocato non perderà il lavoro; potrà continuare ad occuparsi di separazioni, ma dovrà solo operare in modo diverso.

Trattando la questione della violenza intrafamiliare lei ha distinto ben due fenomeni diversificati: la violenza precedente le fasi di separazione, quella documentata e continuata, e poi una modalità litigiosa, fatta di dispetti, ripicche e discussioni, che maturano dopo la separazione quando gli ex coniugi non riescono, da adulti e da persone civili, a concordare delle regole utili per l’affido, il mantenimento, l’assegnazione della casa. La mediazione familiare può prevenire quel tipo di rancore? Può essere un utile riferimento per “mediare” e trovare soluzioni prima di rivolgersi ad un tribunale?

La differenza tra le due fattispecie è totale. Nel primo caso indicato a mio parere la coppia non deve neppure presentarsi al mediatore e comunque il mediatore dovrebbe astenersi dal seguirla. Il secondo caso, invece, è esattamente quello più indicato per il successo della mediazione. Naturalmente questo non si ottiene sempre, il che dipende da molti fattori: la mediocre abilità del mediatore, l’avere scelto una tecnica di intervento  non appropriata, l’essersi presentata la coppia troppo tardi, a lite già invelenita, ad animi esacerbati dalle reciproche offese, da una scarsa fiducia nell’intervento intesa come pre-giudizio; e soprattutto per effetto di una cornice giuridica scoraggiante, altamente discriminatoria, la più lontana dai principi della mediazione, che si fonda sull’equilibrio tra le parti e le pari opportunità, quanto meno di partenza, come premessa indispensabile perché abbia senso mediare.

Esistono dei Paesi in cui la mediazione familiare ha attecchito e funziona? Può darci delle cifre o dei dati su questo?

Occorrerebbe un volume per rispondere a questa domanda, pure graditissima. Una buona idea della nostra arretratezza (e a maggior ragione dell’ arretratezza culturale e mentale degli avversari della mediazione familiare) può essere fornita dal saggio di M. M. Casals, (Docente di Diritto Civile, presso l’Observatory of European and Comparative Private Law dell’Università di Girona, Spagna) pubblicato sull’ Electronic Journal of Comparative Law, vol. 9.2, July 2005 ( http://www.ejcl.org/),  E’ un contributo decisamente datato ma, appunto per questo, altamente significativo, visto che da allora noi non abbiamo fatto nulla, mentre il resto del mondo ha camminato, e velocemente. Mi limito a rammentare che la Ministra francese per la famiglia, M.me Bertinotti, ha già annunciato che la legge quadro sulla famiglia che verrà presentata nel prossimo gennaio, affida alla mediazione familiare, resa obbligatoria, il compito della prevenzione e del contenimento della maggior parte dei conflitti (relazione in Senato del 17 settembre 2013).

Secondo lei perché in Italia non c’è grande entusiasmo per questa particolare competenza? Eppure i tribunali scoppiano di cause che si trascinano per anni e anni. Sedare le risse legali prima che nascano non dovrebbe essere un interesse di tutti? 

Vorrei anzitutto chiarire bene il diverso senso delle due vie di soluzione delle controversie, mediativa e giudiziale.

La mediazione familiare, che per essere davvero efficace deve precedere la fase contenziosa, si caratterizza per essere informale, rapida, compositiva e a favore di ciò che è giusto ed equo secondo la valutazione delle parti stesse;

Il processo, invece, rappresenta la soluzione formale, tradizionale, affidata ai tempi lunghissimi della giustizia e rimessa neppure, in pratica, alla legge, ma al punto di vista di un terzo, il magistrato.

I due sistemi sono ontologicamente destinati ad essere competitivi. Solo che, per assicurare l’effettività della concorrenza, è indispensabile che sulla mediazione e le sue potenzialità esista quanto meno l’obbligo dell’informazione, visto che la giurisdizione è dotata intrinsecamente di imperatività. E ovunque siano stati adottati modelli come quello che propongo si è visto che diminuisce il ricorso ai giudici, dando respiro ai tribunali, e si realizza un soddisfacimento più rapido, se non immediato, degli interessi delle parti. Inoltre diffondere l’informazione contribuisce rilevantemente a diffondere tra i cittadini l’esperienza pratica del principio di autocomposizione  e di autoresponsabilità. D’altra parte, anche in caso di insuccesso la mediazione consente ai litiganti di essere più consapevoli dei propri diritti e di avere una visione più realistica e meno aggressiva dei punti di disaccordo. Un risultato tutt’altro disprezzabile, che intanto comporta l’apertura di un dialogo e di impensati canali comunicativi prima dell’instaurarsi del giudizio. Per tutti questi motivi il sistema legale dovrebbe essere altamente favorevole alla mediazione. I cittadini, di sicuro. Ma forse è proprio l’abbattimento del contenzioso, indicato nella domanda come pregio, il motivo principale delle resistenze. Preferisco fermarmi qui.

Premetto che qualunque sistema che riesca a prevenire procedimenti legali per me è più che auspicabile; mi preme però sapere, nel caso in cui il mediatore familiare è colui che concretamente aiuta a far trovare un accordo tra le parti se quel mediatore poi ne è anche garante e a chi può rivolgersi l’ex coniuge nel caso in cui non è mantenuto. Voglio dire: il mediatore familiare, nella sua idea, è un po’ come un medico di famiglia da chiamare per sanare civilmente ogni disaccordo o il suo ruolo si esaurisce alla fase pre-separazione?

L’intervento più è precoce e più è efficace, quindi è auspicabile che il mediatore agisca prima che si vada dall’avvocato. Concluso l’accordo, tuttavia, non sparisce, ma resta a disposizione per ogni successivo problema. Questo è previsto  esplicitamente nella mia proposta. Quanto alle garanzie in un certo senso le dà, ovvero ci si può rivolgere ufficiosamente al mediatore per qualsiasi dubbio interpretativo. Non ha, ovviamente, i poteri di un giudice, ma di regola il suo parere è convincente.

 Per concludere, qual è lo stato dell’arte della mediazione in Italia, quale la diffusione dei centri?

Purtroppo non esistono statistiche ufficiali, né dati recenti sui centri. Posso citare tuttavia cifre di per sé già molto significative. Il numero complessivo attuale dei mediatori iscritti ufficialmente – ovvero in regola con il versamento delle quote – e praticanti per Aimef e Simef si aggira intorno a mille unità (750 più circa 200). Un’altra importante associazione di mediatori è l’Aims, per la quale non è noto il numero degli iscritti perché non tutti sono mediatori familiari, ma si distribuiscono tra varie attività. A queste cifre vanno aggiunti i mediatori non strutturati – ovvero non aderenti ad alcuna associazione anche se formatisi nel tempo presso di esse – il cui numero non è noto, proprio perché non registrati e comunque in buona parte non più operativi. Per quanto riguarda i centri le notizie risalgono al 2005, quando alla Camera si sostenne che non si poteva “imporre” la mediazione familiare perché non c’erano abbastanza centri. Venne allora curato da Crescere Insieme un censimento non rigoroso ma approssimato certamente per difetto e non per eccesso, e risultò che i centri pubblici e gratuiti erano già allora 250 circa e quelli privati più di mille. Insomma, abbastanza, direi, per soddisfare ogni richiesta.

[Pubblicato anche su Abbatto i Muri]

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