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Dialoghi intorno all’affidamento condiviso: la Alienazione Parentale

Settimo appuntamento con Marino Maglietta, il quale ha elaborato e proposto le norme e le modifiche alla attuale legge dell’affido condiviso (54/2006). QUI il suo primo intervento introduttivo. QUI ci racconta qual è stata l’origine della riforma. QUI ci siamo occupati di collocazione e frequentazione del bambino. QUI ci siamo occupati del mantenimento dei figli. QUI circa l’assegnazione della casa e i cambiamenti di residenza. QUI circa la violenza intrafamiliare. Appuntamento fisso su questa materia con altre domande e risposte che toccheranno un altro aspetto della proposta a tra sette giorni. Buona lettura!

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L’incontro di oggi ha per tema l’alienazione genitoriale, dunque un soggetto psichiatrico. Ma lei, che competenze ha in questo campo? Si sente legittimato a rispondere a una intervista in questa materia, che non è affatto la sua?

Effettivamente, ripensando a quanto è stato criticato il mio ruolo nella stesura e nel varo dell’affidamento condiviso (del tipo “Quando le leggi le scrivono gli ingegneri …”), la domanda è ben posta; direi che è una premessa indispensabile. C’è ancora una quantità di persone convinte che di guerra possono parlare solo i generali. Io invece ritengo che ogni materia ha una pluralità di versanti e che molte persone possano avere diritto di parola se restano nel proprio. Penso che le strategie siano riservate ai generali, ma che in generale della guerra possa parlare anche chi rischia di prendersi delle bombe sulla testa, ovvero il contribuente che deve pagare gli F-35. Ciascuno per la propria parte. Tornando nel nostro ambito, si può replicare in vari modi. Si può far notare che la competenza non è necessariamente legata all’attestato, al pezzo di carta. Oppure, ancora meglio, si può chiedere: “Ma perché, di regola, le leggi chi le scrive?”. A me risulta che lo fanno i parlamentari, la maggior parte dei quali non è laureato in legge, ma in medicina, agraria, matematica e via dicendo (per non parlare dei tantissimi che sono solo “funzionari di partito”). E nessuno se ne scandalizza. Giustamente, dico io. Concludendo: non esprimerò certamente alcun personale apprezzamento di carattere tecnico in materia psicologica o psichiatrica, e mi limiterò alle ricadute sul piano giuridico.

Una sua ulteriore proposta, il ddl 957, presentato nella scorsa legislatura, voleva modificare la legge 54/2006 introducendo il concetto di Pas, una malattia giudicata inesistente, che si dice sia pensata per screditare il rifiuto del bambino in presenza di situazioni di violenza. Vorrei sapere: perché ha ritenuto di comprenderla tra le cause di esclusione dall’affido e qual è la sua opinione in proposito?

Ci sono effettivamente delle parole che risultano di per sé socialmente proibite, perché raramente chi ascolta ha voglia di fare la fatica di osservare il senso che viene dato loro e il contesto in cui sono usate. Purtroppo in alcuni al sentirne il suono si chiude l’intelletto e scatta l’ira furibonda. Non ascoltano oltre.  Ho scritto una trentina almeno di progetti di legge – 4 dei quali successivi al ddl 957/2008 – in uno soltanto ho usato il termine “Pas” e  solo per farmi ben capire, perché era (ed è) il modo con cui si designa una certa situazione, una certa fenomenologia. E ancora ci si attacca alla parola. Vogliamo invece guardare alla sostanza?  Bene. Una separazione induce tipicamente la maldicenza reciproca, che non si ferma davanti ai figli. Anzi. Ciascuno “deve” convincere soprattutto i figli che il dolore che sta dando loro è da attribuire all’altro, che separarsi è stato un passo necessario, obbligato, per difendere proprio loro da un essere malvagio. I figli a questo reagiscono in vario modo. I più grandi e smaliziati non se la bevono, conoscono bene i propri genitori e li hanno già correttamente valutati, nel bene e nel male. I più piccoli sono abbastanza protetti dal fatto che le teorie fanno poca presa su creature in formazione. Esiste purtroppo una fascia intermedia di particolare fragilità sulla quale la denigrazione può attecchire, con vari livelli di sofferenza aggiuntiva e di danni, arrivando fino al rifiuto totale di contatti con il genitore calunniato. Senza dare un nome a tutto questo, senza parlare di sindromi, né di disturbi, né di malattie, si deve intervenire o si deve stare a guardare e lasciar correre? Io ritengo che i bambini vadano protetti e che le istituzioni se ne debbano preoccupare. Poi, si potrà anche discutere come, ma certamente non si può chiudere gli occhi. A questo punto di regola mi viene detto: “Ma se invece il rifiuto del bambino dipende dal fatto che è stato abusato?” Insomma, io dico “quando il bambino ha la polmonite bisogna dargli gli antibiotici” e mi si replica “ma se invece il bambino sta male perché è finito sotto una macchina, o perché ha i pidocchi? Eh, a cosa servono i tuoi rimedi? Eh, mascalzone! ”. E’ ovvio che prima si deve fare una la diagnosi corretta e poi intervenire. Non ho mai pensato, detto o scritto nulla di diverso.

Le critiche che riguardano questa cosiddetta sindrome sono davvero tante. Si tratterebbe di non-malattia, scienza spazzatura, la sintomatologia viene giudicata dubbia e quel che è peggio è che la “cura” sarebbe prescritta tramite sentenza da un giudice invece che da un medico. La “cura” prevista viene chiamata “terapia della minaccia” e consisterebbe nel fatto di strappare via un bambino dal luogo in cui è cresciuto e dalle cure del genitore giudicato alienante per essere affidato all’altro genitore dopo un periodo di transizione in una casa famiglia. Come si può risolvere ciò che viene giudicato un problema con quella che per tante persone, me compresa, è una violenza istituzionale?

Intanto mi fa piacere che tra le critiche non sia stata citata la biografia di Gardner, le pubblicazioni a proprie spese, i suoi giudizi sulla pedofilia, il suicidio ecc. Argomenti principe delle contestazioni, utilizzati di continuo. Avrei risposto che scoprire che Heisemberg ha detto una quantità di sciocchezze (invento) sulla teoria dei gruppi non toglierebbe un capello alla validità del principio di indeterminazione. Avrei anche aggiunto una mia personale e pertinente “critica” al reale argomento in discussione, ovvero la “Pas”. Gardner ha scoperto l’acqua calda. Ha solo descritto qualcosa di assolutamente risaputo da secoli. Ma lasciamo perdere; le polemiche tra accademici non sono di mia competenza e francamente neppure di mio interesse. Quanto alle terapie, mi sento di dire, sotto il profilo giuridico e utilizzando il buonsenso, qualcosa di più. Una volta fatta la diagnosi, ovvero svolte le indagini, se risulta che un genitore ha usato violenza sul bambino o davanti al bambino, lo dovrò allontanare; o no? E se risulta che la violenza è psicologica e tuttora perdurante invece mi viene detto che non dovrei intervenire sul genitore maltrattante. Francamente faccio fatica a seguire questi ragionamenti.  Per tamponare un effetto si cerca anzitutto di eliminarne la causa. Mi sembra normale. Quindi, se un genitore utilizza male le sue facoltà di gestione del figlio e gli fa del male la prima cosa da fare è limitarne i poteri, gli spazi decisionali. Che poi lo si debba fare con misure severissime o solo limitandolo nell’esercizio della potestà si vedrà caso per caso.

Io ho la sensazione che domande come questa non nascano – ancora una volta – da difetti delle regole, ma dalla loro pessima applicazione. La violenza non la fa una legge che prevede il contenimento dei poteri di un genitore alienante, ma il fatto che il Tribunale per i minorenni a volte condanni genitori che alienanti non sono. Ma questi si chiamano errori giudiziari. La legge cosa c’entra? E voglio rammentare che giustamente i genitori ai quali sono stati tolti i figli non rivolgono le loro proteste contro il parlamento, ma contro i tribunali per i minorenni.

Si dice che vi sia un interesse preciso nel tentativo di accreditare la Pas nei luoghi istituzionali, a partire da circuiti che vorrebbero favorire gli uomini contro le donne, togliendo ai bambini l’unico baluardo difensivo e mettendoli in mano a padri pedofili. E’ d’accordo?

La domanda a mio parere intreccia il vero con il falso.  E’ stato segnalato e pubblicizzato in rete (cito e non faccio mia la tesi perché non ne ho elementi) che ci siano consulenti interessati a sostenere con molta frequenza l’esistenza di condizionamenti e “alienazioni” perché ciò esalta l’importanza del proprio ruolo, ne accresce peso e prestigio e incrementa i guadagni. Ma, ragionando sulla base del puro interesse e senza buonismo, non vedo cosa potrebbe guadagnarci il suddetto “cartello” a difendere consapevolmente e deliberatamente i padri pedofili. Correrebbero terribili rischi professionali oltre a dover superare – lo do per scontato – la propria naturale avversione per un crimine così abietto. Chi glielo fa fare? Ammesso che la gonfiatura dei casi ci sia, immagino che avvenga nelle situazioni dove sicuramente non c’è abuso, anche se il condizionamento del bambino non è certo.

Più di recente la psicologia è orientata a ragionare di alienazione parentale e non di sindrome, quasi intendendo il condizionamento del minore, il quale cresce in un clima rancoroso, d’odio rivolto nei confronti del genitore assente, non più una malattia ma una conseguenza a comportamenti che possono configurarsi come maltrattamenti e pregiudicare il suo corretto sviluppo. Se dunque è questo che si intende, perché citarla specificamente ancora tra le cause di decadimento dell’affido e non lasciare che sia compresa tra i vari maltrattamenti a minori? Mi spiego meglio: se è vero, come ha spiegato nella scorsa intervista, che una persona violenta debba perdere, lei diceva, la potestà, quando si stabilisce, immagino dopo un processo, che sia colpevole, perché quando si parla di alienazione parentale si usa una scorciatoia, non si dà modo a chi è accusata/o di difendersi, eventualmente subire una condanna, invece che essere giudicato inadeguato all’affidamento solo sulla base di una perizia psichiatrica?

Questa è una domanda che in parte non sarebbe da rivolgere a me e in parte ha già avuto risposta. Comunque qualcosa posso aggiungere. Chiamare diversamente il fenomeno è stato opportuno, viste le speculazioni sul termine “sindrome”. Ma perché il nome non lo danno i No-Pas, così non c’è più da discutere?  Però c’è un aspetto più importante, assolutamente valido. Se è una malattia è giusto che i rimedi li disponga il medico, e non il giudice. Se invece non lo è vale il viceversa. Ora, la mia opinione è che c’è sicuramente una componente di interesse giuridico, quindi sono d’accordo sulla riduzione dell’importanza che si dà alle Ctu. Per la verità ridimensionerei le Ctu anche per le situazioni tranquille. Non c’è genitore che ne esca “normale”: chi non soffre di narcisismo è troppo attaccato alla famiglia di origine, chi ne è libero soffre di mania di persecuzione …; lasciamo perdere. Ma ancora una volta, l’ennesima, stiamo parlando di disfunzioni applicative, non dovute alle norme. Invece sarebbe opportuno chiedermi perché non mi sono accontentato della sanzione prevista per i maltrattamenti. Il motivo è lo stesso per cui si è fatta una legge sullo stalking, invece che accontentarsi delle molestie. Non c’era, non c’è, sufficiente sensibilità nel sistema legale per i danni da manipolazione, da condizionamento, da programmazione dei figli. Tuttora, se non vedono scorrere il sangue non si muovono. E non sempre basta. Lo vediamo per il femminicidio. Penso che il mio pensiero sia abbastanza chiaro.

Cosa ne pensa, in generale, dell’uso della psichiatria per periziare i genitori e valutarne il grado di affidabilità? Ci spiega, per favore, se ne è a conoscenza, su che basi e con quali meccanismi le istituzioni prevedono un così alto tasso di invasività personale quando devono valutare con chi potrebbe stare meglio un figlio?

Ho appena detto che mi pare eccessivo il peso che viene dato alle Ctu. Aggiungo però che la domanda è incompatibile con l’affidamento condiviso. L’istituto abbandona il concetto di “genitore più idoneo”, non mette più in competizione i genitori per essere investito della qualifica di “prevalente”. Che la magistratura vada alla caccia del “collocatario” è un’aberrazione, una negazione palese e sfacciata dei principi della bigenitorialità, che prevede pari opportunità di accesso per i figli e pari impegno e pari sacrifici per i genitori. La ricerca del “migliore” è uno stimolo alla conflittualità, una diretta e precisa contraddizione nei confronti della riforma del 2006. Non posso rispondere delle degenerazioni del sistema.

Una delle critiche più feroci che viene fatta al concetto stesso di Alienazione Parentale è quella che non consentirebbe l’ascolto del minore. Ovvero: se si dà per scontato che il rifiuto da parte del bambino nei confronti di un genitore ha sempre origine in una patologia, non trova lei che si corre il rischio di minimizzare le sue richieste d’ascolto quand’egli intenderebbe invece denunciare una violenza?

Sull’ascolto mi sento di dire che dal punto di vista istituzionale è vero esattamente il contrario. L’attenzione data alle manipolazioni esalta l’attenzione per il minore, accende i riflettori su di lui, obbliga (chi lavora correttamente) a dargli la parola! Per la seconda parte, certo che se fosse vero sarebbe una critica corretta. Solo che non è assolutamente previsto dall’approccio giuridico. Di fronte al rifiuto di un genitore si deve indagare prioritariamente e con la massima attenzione se si è in presenza di un abuso. Se poi qualcuno fa il contrario e nega al minore l’ascolto, ne dovrebbe rispondere. Ecco perché anche sui giudici dovrebbe gravare la responsabilità civile. Aggiungo che il Senato francese ha da poco approvato che l’età dell’ascolto scenda a 5 anni.

Lei immagina altre soluzioni possibili per risolvere il problema dei conflitti e dell’uso che si fa dei bambini quando i genitori li mettono gli uni contro gli altri?

Sembra una domanda chiesta da me, ma non è così … La soluzione mi sembra scontata: se non ci fossero discriminazioni tra le posizioni di ciascun genitore, se avessero pari doveri e facoltà, se le differenze potessero derivare solo da dimostrata pericolosità o inadeguatezza (ovviamente ben difficile da provare quando inesistenti) non ci sarebbe neppure motivo di scannarsi perché non ci sarebbe nulla da vincere. Invece siamo ancora alla ricerca del “collocatario” … Sia chiaro: non sto affermando che il condiviso sia la “panacea di tutti i mali”; intendo che si avrebbe una riduzione molto significativa del fenomeno.

Ritiene che la bigenitorialità debba essere realizzata sempre e comunque, a tutti i costi, anche quando il minore, a prescindere dal fatto che vi siano abusi o condizionamenti, non ha alcuna voglia di frequentare uno dei genitori? Se il minore si rifiuta e non c’è alcuna valida ragione per ritenere che vi sia una influenza negativa da parte di nessuno, che tipo di soluzione, secondo il suo punto di vista, bisognerebbe usare?

A mio parere le possibili ragioni di rifiuto sono tre, non due, esattamente come dice la domanda: la reazione all’abuso, l’effetto di una manipolazione, la spontanea scelta in unica direzione. Le prime due situazioni le abbiamo già considerate ed è evidente per chi mi ha seguito che non penso affatto che “la bigenitorialità vada realizzata sempre e comunque”. Vediamo la terza. Un ragazzo, un adolescente, figlio di separati può effettivamente accadere che non abbia voglia di frequentare un genitore; ne sto seguendo due casi proprio in questo momento. Quali possono essere i motivi? Ad esempio si evita il genitore più severo, che dà le regole. Oppure si preferisce la casa più ricca, del gruppo familiare più abbiente, là dove il nonno ha la villa sulla Costa Azzurra. Ma ci sono anche altri motivi, che ometto per brevità. La Corte Suprema ha affrontato un caso di questo genere, di rifiuto immotivato, nel 1998 e ha deciso di dare partita vinta al ragazzo (13 anni) e legittimare il rifiuto. Ho contestato in toto questa decisione, che ritengo contraria all’umanità, al buonsenso e soprattutto, in questa sede, ai principi del diritto. La separazione tra i genitori non può interferire con gli obblighi dei figli verso i genitori, definiti dall’art. 315 bis del codice civile. La “scelta” tra un genitore e l’altro non è ammissibile. E se si decide che lo sia (pura ipotesi di scuola) allora bisogna concedere questo diritto a tutti i figli, non solo a chi ha i genitori separati. Per ragioni di costituzionalità. Vi immaginate la scena? Vi alzate una mattina e vostro figlio invita voi e vostro marito a fare una girata perché non ha voglia di vedervi. Oppure vi comunica che per lo stesso motivo andrà dalla nonna …  Giusto per completezza di informazione aggiungo che, per l’appunto, la “scelta” del 1998 fu di rifiuto del genitore non affidatario. Feci notare all’estensore della sentenza che, per coerenza giuridica, si dovrebbe concedere ai figli anche di rifiutare totalmente il genitore che il giudice ha scelto come affidatario o collocatario. Non descrivo la reazione.

Comunque vorrei leggere tra le righe della domanda. Il dubbio è se queste rivendicazioni di paternità non traducano il desiderio dell’adulto di vedere rispettato il proprio diritto, piuttosto che la preoccupazione per il danno del figlio. Per quanto mi riguarda, in pratica ha scarsa rilevanza. E’ piuttosto una questione di sostanza. Non mi chiedo se un incidentato è stato portato all’ospedale dall’automobilista di passaggio perché ha senso civico o solo per paura di essere denunciato per omissione di soccorso. Guardo se quella persona ha bisogno di cure e gliele fornisco immediatamente. Sicuramente esistono genitori che invocano la Pas perché scottati nell’orgoglio; ma come sta e come si comporta il loro figlio? E’ condizionato o no? Questo va guardato. Va bene tollerare le preferenze di un bambino fino a che si tratta di diversi dosaggi del rapporto con i genitori, del tutto naturali in condizioni non perturbate. In ogni famiglia è normale che ci sia più affiatamento e sintonia con un genitore che con un altro. Ma esistono anche bimbi che a 5 anni sputano in faccia al padre che li viene a prendere e che non gli ha fatto nulla di male: non penso che sia utile chiedersi perché il padre se ne lamenta. Quel bambino non sta bene: pensiamo a come aiutarlo.

Le Ctu, le perizie psichiatriche, la valutazione di adeguatezza al ruolo genitoriale, è rivolta a entrambi i genitori o si accanisce in particolar modo sulle madri? Può farmi un esempio di tipologie di sentenze in cui donne o uomini sono stati esclusi dall’affido come risultato di una Ctu? Ma poi, è proprio vero che basta una Ctu a indurre una sentenza di esclusione dall’affido o per arrivare a questo punto devono accadere altre cose? Può dirmi, per favore, quali, se ne è a conoscenza?

La violenza psicologica non ha genere e l’Alienazione Parentale non fa eccezione. Mi vengono in mente alcuni casi. Uno rappresenta il primo esempio nel diritto italiano: Tribunale di Alessandria, 1995. Il giudice decise di invertire l’affidamento del figlio di 5 anni. Dopo una notte di pianto il bimbo buttò le braccia al collo della madre fin lì rifiutata e il problema fu risolto. Citerei anche quello della madre siciliana alienata dal padre (Cass. 784/2012). Poi quello di Brescia (Cass. 7452/2012) che ha visto una condanna della madre pronunciata con estrema superficialità: niente ascolto del minore, valenza decisiva del pensiero di uno psicologo. Infine la recentissima storia di Myriam Napoli che racconta la sua vicenda in questi termini: “Il medico ha rilevato che l’innaturale ostilità del bambino nei miei confronti non può dipendere da me. Le cause sarebbero da cercare in contaminazioni esterne al rapporto madre-figlio”. E prosegue: “Il piccolo continuava a trattarmi con astio, nonostante io mi fossi sempre dimostrata affettuosa con lui. Così, dopo qualche mese, lo psichiatra, il quale ha riscontrato nel piccolo una modalità relazionale che molto assomiglia alla descrizione che Gardner fa della PAS, ha ritenuto inutile proseguire fintanto che il bambino vivrà nello stesso ambiente in cui ha vissuto in questi anni”. Il racconto va avanti. Incontrato il figlio per caso, “Vedendomi ha immediatamente girato le spalle ed è letteralmente scappato via. Come se fosse telecomandato”. E in un incontro programmato (i famosi percorsi di riavvicinamento disposti senza togliere potere al genitore condizionante) si sente dire: “Non sei più mia madre, viva o morta non fa differenza per me. Stai facendo un processo contro di me”. E commenta “Non è il modo di parlare di un bambino di 9 anni.  Sono le parole di un adulto”. Ora, i No-Pas, visto che sostengono una sorta di automatismo “Se c’è rifiuto vuol dire che c’è stato abuso; è matematico”, che cosa direbbero a questa madre? La infamerebbero?

Naturalmente, non voglio generalizzare, ma la Ctu, quando c’è il dubbio di manipolazioni, è logico disporla; e sul genitore condizionante (una volta provato che lo è) si deve intervenire, se si vuole ottenere qualcosa. Questo non vuol dire che la Ctu sia la prima e unica cosa da fare, e sempre. Le situazioni possibili sono varie. Se il padre segnala una Pas e il figlio e la madre parlano di abuso per me è pacifico che si deve prioritariamente disporre indagini di polizia per accertare il maltrattamento. Se invece questo nessuno lo nomina, se la madre si limita a dire “è lui che non ci vuole andare, io lo spingo, ma non ne vuole sapere, non posso obbligarlo”, allora non vedo la polizia a cosa servirebbe. Necessariamente si deve studiare il bambino e le sue difficoltà e quindi la Ctu diventa determinante. D’altra parte, sento dire di continuo che il giudice non ha competenze psicologiche e non può prendere decisioni nella delicata materia degli affetti e delle relazioni familiari. Allora chi se ne deve occupare?  Aggiungo che comunque il provvedimento sanzionatorio del giudice è tutt’altro che immediato. Prima che si riconosca l’esistenza di un condizionamento che porta al rifiuto totale si passa attraverso lunghe fasi di crescenti difficoltà, salto di incontri, segnalazioni ai servizi e poi al giudice tutelare per finire con gli interventi delle volanti e le denunce…. Insomma, in tutto questo lungo percorso si potrebbe e dovrebbe rinsavire. I genitori non dovrebbero “costringere” lo Stato a intervenire, la lentezza del processo gliene dà tutto il tempo. Anche se è vero che l’inerzia delle istituzioni quando invocate incentiva la propensione al maltrattamento: tanto non succede nulla … Insomma, le responsabilità sono da condividere e questo dà anche uno spunto per i rimedi: lavoro sui genitori, ai quali certamente non può far piacere l’intromissione dello Stato, e intervento più tempestivo delle istituzioni quando chiamate.

Le confesso, con sincerità, ma è cosa nota a chiunque mi conosca, che la mia avversione per la Pas, così come contro qualunque altra forma di patologizzazione che ha a che fare con la psichiatria, passa per l’auspicio che si riesca a fare a meno di intrusioni normative e per nulla libertarie nella vita delle persone quando non sono in grado di decidere da sole, razionalmente, cosa fare e come gestire una separazione. Capisco che l’intrusione delle istituzioni è dovuta al fatto che se due adulti non sono in grado di agire responsabilmente e mettersi d’accordo interviene una entità altra che poi fa della tua vita quello che vuole. Avrebbe in mente lei un modello laico, privo di autoritarismi, in cui non si registrino simili irrigidimenti e non si debba concordare la condivisione degli affidi a colpi di perizie psichiatriche?

In buona parte la risposta è nella domanda. Aggiungo solo che le istituzioni non intervengono motu proprio se i due non sono in grado di mettersi d’accordo, ma se e solo se i due, non essendo in grado di mettersi d’accordo, ne invocano l’intervento. Vorrei anche rammentare che le perizie psichiatriche sono frequentemente richieste dalla difesa nei processi penali per attenuare la responsabilità di reati gravissimi. Dunque questa mescolanza, l’intrusione della psichiatria nel diritto, è chiesta dalle parti. Quanto ai rimedi, per lo meno tendenzialmente, non ho dubbi: la mediazione familiare, ricorrendo sistematicamente alla quale succederebbe da noi quello che accade nel Regno Unito: il giudice interviene raramente, solo in caso di estrema necessità. Ma lì la mediazione ha attecchito; qui è boicottata.

So che la alienazione genitoriale è citata all’estero in alcune proposte legislative o leggi, avversata allo stesso modo per lo più da alcuni gruppi di scienziati e donne che si occupano di violenza. In Italia svariate associazioni di donne hanno firmato un documento in cui escludono la possibilità che sia contenuta in una qualunque proposta di legge che riguardi il tema degli affidi. Vorrei sapere da lei se la sua nuova proposta affronta il problema tenendo conto dei timori espressi da chi si occupa di violenza sulle donne e sui minori.

La mia proposta la posso tranquillamente riportare, anche se sto ancora lavorando alla sua formulazione, che può essere migliorata, inserendo anche un freno all’abuso del ricorso ai servizi sociali e alle case-famiglia, togliendo i bambini ai genitori. Ma per il momento suona così: “La documentata e perdurante violenza intrafamiliare, sia fisica che psicologica, in particolare la violenza di genere, la violenza assistita dai figli, nonché la loro manipolazione mirata al rifiuto dell’altro genitore o al suo allontanamento, comporta l’esclusione dall’affidamento. Le denunce comprovatamente e consapevolmente false mosse al medesimo scopo comportano altresì l’esclusione dall’affidamento, ove non ricorrano gli estremi per una sanzione più grave. In ogni caso il giudice può per gravi motivi ordinare che la prole sia collocata presso una terza persona o, nell’impossibilità, in una comunità di tipo familiare.” Naturalmente sono consapevole del timore che si possa avere nel muovere denunce che potrebbero rivelarsi difficili da provare, ma anche provare la consapevolezza della falsità dei contenuti della segnalazione è tutt’altro che semplice. E poi il rischio di essere denunciati per calunnia sussiste sempre, per qualunque reato; a parte il fatto che in pratica già ora l’art. 155 bis afferma qualcosa di molto simile, ma in 7 anni non l’ho mai visto applicare. Voglio dire che mi sembra un’obiezione più di scuola che realistica. Se può rassicurare, visto che spesso si fa  riferimento ai paesi stranieri per trarne ispirazione, la Francia sull’alienazione genitoriale si è recentemente orientata per l’introduzione nel codice penale di una norma che sanziona gli “ostacoli all’esercizio dell’autorità genitoriale attraverso comportamenti ripetuti o altro genere di manipolazioni”. La pena è di un anno di reclusione più 15.000 € di multa. Per iniziativa dei radicali di sinistra.

—>>>L’argomento che trattiamo questa volta merita un ulteriore approfondimento e dunque seguirà una seconda puntata dell’intervista. 

[Pubblicato anche su Abbatto i Muri]

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