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Dialoghi intorno all’affidamento condiviso: l’assegnazione della casa familiare e i cambiamenti di residenza!

Quinto appuntamento con Marino Maglietta, il quale ha elaborato e proposto le norme e le modifiche alla attuale legge dell’affido condiviso (54/2006). QUI il suo primo intervento introduttivo. QUI ci racconta qual è stata l’origine della riforma. QUI ci siamo occupati di collocazione e frequentazione del bambino. QUI ci siamo occupati del mantenimento dei figli. Appuntamento fisso su questa materia con altre domande e risposte che toccheranno un altro aspetto della proposta a tra sette giorni. Buona lettura!

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A seguito di una separazione vengono assunte decisioni in merito all’assegnazione della casa familiare. Quali sono attualmente i criteri seguiti? E domani, ovvero quando, così come propone lei, si realizzerà il perfetto affido condiviso, l’immobile a chi sarà assegnato? 

Purtroppo ancora una volta bisogna distinguere tra ciò che dice la legge e ciò che si fa nei tribunali. Siccome la legge prevede, al primo comma dell’art. 155 c.c., che il figlio frequenti equilibratamente i due genitori, l’assegnazione della casa a persona diversa dal proprietario dovrebbe riguardare solo situazioni residuali: i trasferimenti, le attività lavorative che tengono il proprietario lontano da casa per lungo tempo; e simili. Questo perché se il figlio comunque passa nella casa familiare circa metà tempo non esiste più alcun motivo per sconvolgere un sistema che pone la proprietà al primo posto nella tutela dei diritti sulle cose. Rammentiamoci che questa eccezione è così sconvolgente per il comune sentire da essere tra le principali fonti di rancore e di liti, e da coinvolgere anche gli interi clan familiari, visto che molto spesso la casa viene acquistata con il concorso economico di più soggetti. Tornare alle regole generali, quindi costituirebbe anche un eccellente antidoto contro la conflittualità. Viceversa, si impone un solo domicilio, presso il non previsto “genitore collocatario”, al quale si assegna la casa familiare a prescindere dal titolo di proprietà. Tutto ciò assumendo a priori, in modo del tutto astratto e generico, che al figlio giovi restarci. E il “fanatismo” verso la conservazione dell’habitat è così marcato che al genitore che esce dalla casa familiare si proibisce di portarne via gli oggetti che gli appartengono, esclusi quelli di strettissimo uso personale.  Quanto alle proposte all’esame della Camera sul punto non ci sono effettive novità: quello che si vuole ottenere è solo ciò che sarebbe già previsto dalla legge in vigore, come ho appena spiegato.

Ma questo della litigiosità è solo un aspetto. Non sarebbe giusto tenere conto anche del reddito e soprattutto delle esigenze del minore?  Quali criteri propone lei nella sua proposta di legge?

Certamente dovrebbe essere decisivo ciò che conviene al minore. Infatti nelle nuove proposte ho scritto che di ciò si deve tenere conto “esclusivamente” e non “prioritariamente”, come dice la legge attuale, nell’assegnazione della casa, quando la frequentazione non è bilanciata. Resta il fatto che non è detto che gli convenga che la casa familiare resti il luogo di vita principale. Non sempre è così. Ci possono motivi legati alla salute, allo studio o ad altre attività che lo sconsigliano. Quindi occorre guardare caso per caso. Quanto al tenere conto delle risorse economiche dei singoli membri della coppia, in effetti c’è chi vorrebbe assegnare la casa al coniuge debole a prescindere dall’esistenza di figli, ma a me sembra che così facendo si smontano completamente le garanzie associate al titolo di proprietà, per cui nessuno potrà più sentirsi tranquillo dopo una compravendita, con più che probabile turbativa del mercato e notevoli sconvolgimenti di tutto il sistema economico.

Sono contrario.

Si dice che la sua proposta limiti l’autonomia affettiva delle donne giacché condicio sine qua non dell’assegnazione della casa sarebbe quella di non realizzare con alcuno una convivenza more uxorio. La proposta tra l’altro parla di “genitore” e in ogni caso chiedo: la vita affettiva e sentimentale di un genitore può essere ostaggio dell’affido cui è legata l’assegnazione dell’immobile? Innamorarsi ancora significherebbe perdere la casa e rimettere in discussione l’affido?

Mi verrebbe voglia di rispondere alla domanda con un’altra domanda: è mai possibile che un legame che sia davvero sentimentale possa concludersi perché uno dei due non ha più la disponibilità della casa che l’altro supponeva? Se per questo motivo si allontana doveva essere davvero innamorato … Ma naturalmente una risposta del genere è appropriata solo restando nel modello dell’affidamento esclusivo: i figli sono incollati all’affidatario/a, per cui se questo cambia casa i figli lo devono “seguire”, perdendo quella familiare. Tuttavia, rispettando il condiviso, il problema non esiste perché i figli stanno comunque nella casa familiare solo circa metà tempo, per cui questa resta al proprietario, madre o padre che sia, la/il quale ci vive con chi vuole. Se si rispettassero le regole già in vigore nessuno vivrebbe questa angoscia; ancora una volta è il modus operandi del sistema legale che mescola impropriamente e dannosamente sentimenti e interessi economici. Aggiungiamo che anche la Suprema Corte a suo tempo (Cass. 26574/2007) affermò intelligentemente che la “casa familiare” non è un insieme di muri, ma il luogo degli affetti familiari, soggettivamente inteso, per cui la sua assegnazione al non proprietario si giustifica solo se serve a conservare ai figli la continuità delle consuetudini familiari, cioè a dire resta “familiare” solo fino a che sopravvive “la famiglia” e non certo dopo che uno dei genitori ne esce, sostituito da tizio/a del tutto sconosciuto/a ai figli.

Se oggi l’immobile è indissolubilmente legato al minore e chi ottiene l’affido “prevalente” ottiene anche l’assegnazione della casa, quando quel genitore decide di trasferirsi cosa succede? 

Succede che l’intera tesi della fondamentale importanza dell’habitat vola in pezzi. La giurisprudenza se la rimangia con estrema disinvoltura, legittimando ad esempio, il trasferimento di due ragazzini di Empoli – neanche tanto piccoli – a Budapest (dove, tra l’altro, si parla una lingua che non è neppure indoeuropea) –  perché così ha deciso e fatto il genitore collocatario, oltre tutto senza l’autorizzazione di nessuno. E non è certo l’unico caso. Voglio dire che c’è molta ipocrisia in queste tesi su “l’interesse del minore”. Non avendo una definizione univoca, ognuno gli dà i contenuti che preferisce, in funzione della propria ideologia e così, in pratica, non offre al minore nessuna garanzia. Un po’ come la “libertà” durante la rivoluzione francese, di cui disse M.me Roland giustamente: “quanti crimini si commettono nel tuo nome”. Ecco perché nello scrivere le proposte cerco sempre di dare alle prescrizioni contenuti precisi e chiari.

E poi vorrei aggiungere che trovo ben singolare questo enorme numero di cambiamenti di residenza dopo una separazione. La famiglia viene formata molto più tardi rispetto al passato, spesso in età non più giovanissima e soprattutto quando ciascuno ha fatto della propria vita ciò che intendeva. Di conseguenza anche la scelta abitativa, intesa come città o almeno regione, e la sede dell’attività lavorativa sono già state determinate, generalmente. Allora come si spiega questo fuggi-fuggi, che crea tanti irrisolvibili problemi ai figli, spaccati tra le lontanissime residenze dei genitori?  A mio parere con il desiderio degli adulti di voltare completamente pagina, mettendo il massimo della distanza tra di sé e l’aborrito ex, in evidente conflitto di interesse con i propri figli. E il sistema legale cosa fa? Si schiera con l’adulto e gli permette di andarsene dove vuole con i figli appresso. Sono convinto, invece, che se chi vuole partire non avesse la certezza (se collocatario, altra infelice invenzione) di mettersi in valigia anche i figli, e fosse chiamato a partecipare ai disagi di una frequentazione a distanza, in molti casi troverebbe il modo di organizzarsi là dove era.

Va bene che la assegnazione della casa non sia legata all’affido, perché altrimenti si assisterebbe alla contesa del minore giusto per ottenerla, ma se l’immobile resta al proprietario, senza considerare il contributo economico, reale e di cura che la persona economicamente più debole ha realizzato negli anni di matrimonio, se la parte economicamente debole, dunque, più spesso la madre, che magari ha pensato alla famiglia e ai figli e non ha potuto così ottenere una autonomia economica, se lei è disoccupata e non avrà risorse e un luogo in cui portare i bambini, dovrà rinunciare all’affido condiviso? La sua proposta immagina di dare un valore al lavoro di cura e agli investimenti in famiglia che il soggetto non proprietario ha compiuto in quella casa?

Sono d’accordo sul fatto che si debba considerare come si è vissuto in precedenza, proprio perché l’assegnazione della casa familiare non deve essere collegata all’affidamento quella madre sarà in affidamento condiviso. La domanda, del resto, mescola impropriamente il mantenimento del coniuge con quello dei figli e con la loro sorte, che invece devono restare distinti; non a caso il codice civile disciplina con norme diverse le due situazioni e così fa la giurisprudenza. Se il padre ha risorse e la madre no e per giunta si è sacrificata prima della separazione nella cura della famiglia e della casa ci sarà un assegno al coniuge che gli permetterà di procurarsi un alloggio adeguato per sé e per i figli, quando li ha con sé e che terrà conto dei sacrifici fatti, come prevede la legge 898/1970. Ovvero la solidarietà resta, ma si evita di utilizzare per venire in aiuto dell’altro un bene che non rappresenta solo un valore, ma anche, molto spesso, un investimento affettivo di un intero clan familiare.  D’altra parte, se si andasse per la via suggerita dalla domanda, cosa si dovrebbe fare quando il disoccupato è il padre (ipotesi tutt’altro che peregrina) e la casa è della madre? Quanto al tener conto del lavoro di cura successivo alla separazione, già è inserito nella legge in vigore e ovviamente resta nelle nuove proposte di legge. Occorre, però, osservare che se si realizza un “vero” affidamento condiviso le cure fornite dalla madre dovrebbero compensarsi con quelle del padre.

La casa molto spesso non è di proprietà di uno dei due o di entrambi i coniugi. Sono i nonni che l‘acquistano perché il figlio o la figlia possano abitarvi con la futura famiglia e gliela concedono in uso gratuito  attraverso il cosiddetto comodato precario. Ciò vuol dire che non ricevono alcun compenso da questa rinuncia, ma che possono riavere l’immobile in qualsiasi momento, a semplice richiesta. Se il figlio (facendo questa ipotesi) si separa e se la casa viene assegnata alla nuora con i bambini è mai possibile che si pretenda che i nonni possano buttarla fuori di lì assieme ai figli?

Siamo ancora, mi sembra, nel sistema mentale, duro a morire, dell’affidamento esclusivo, del genitore convivente e del diritto di visita. Se facciamo uno sforzo per ipotizzare che la legge sia stata rispettata e l’affidamento sia stato davvero quello condiviso, il figlio, comodatario, resterà in quella casa, standoci con i nipoti dei proprietari per metà circa del tempo e il problema non si pone. Tuttavia può essere interessante illustrare le ragioni di equità (e giuridiche insieme) per le quali effettivamente oggi si fa uscire di casa l’assegnataria a discrezione dei nonni, anche se i figlioletti vivono prevalentemente con lei. Il motivo è che i nonni, soggetto terzo, hanno già fatto un grosso sacrificio privandosi a lungo della disponibilità e della rendita di quel bene. Tuttavia non se ne sono spogliati completamente: la loro volontà, anche nei confronti del proprio figlio, non è arrivata alla donazione, ma al comodato precario.  Il beneficiario non ha mai avuto, dunque, di quella casa la disponibilità completa, ma è sempre rimasto soggetto a una revoca in qualsiasi momento. Pertanto, nel caso descritto come fa a trasmettere ad altri diritti che lui stesso non ha mai posseduto, o meglio, più ampi di quelli che gli erano stati trasmessi?  Non sta in piedi.  Quei giudici che si sono pericolosamente arrischiati a farlo, in sostanza è come se avessero “ordinato” a dei Tizi di fare un regalo a Sempronia, a loro estranea. Non ne avevano il potere e giustamente  la Cassazione li ha bacchettati.

Concludo questa intervista raccomandando di non avere paura del vero affidamento condiviso: le pari opportunità che contiene prevedono  la parità si raggiunga mediamente alzando il livello di impegno degli uomini, non peggiorando la condizione della donna!

[Pubblicato anche su Abbatto i Muri]

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di Marino Maglietta: Uomini contro donne?

di Marino Maglietta: L’origine della Riforma

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