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Del pensiero unico femminista e del farsi la guerra tra donne (competenti vs veline?)

Sul sito del Festival di Filosofia di Modena/Carpi/Sassuolo potete vedere online il video di un intervento del 2010 di Michela Marzano. Ci sono molti altri interventi interessantissimi e mi spiace che non ci siano quelli degli anni precedenti in cui potevi sentire un bravo Zizek, una ottima Braidotti o altri pensatori e pensatrici di ogni nazione avvicendarsi per raccontare cose mai viste né sentite o lette (ma che per fortuna sono reperibili) tramite le nostre fonti stampa, la nostra inutile tv, i nostri media nazional/popolari che non trasferiscono un milligrammo di cultura e che sostanzialmente sono una fabbrica di imbecilli lobotomizzati.

Michela Marzano non mi dice nulla che mi sia fondamentale. Ma sono abituata a leggere o a vedere senza preconcetti ciò che critico. Apre piccatissima sul fatto di aver ricevuto una critica da parte di una donna che scrive ciò che pensa a proposito della sua partecipazione al festival. Si rileva che nel 2010 il festival ospita solo tre donne tra un tot uomini e che la Marzano con la sua presenza farebbe un po’ la figura della velina a corredo di uno spettacolo tutto al maschile.

Le volte che sono andata a sentire degli interventi al festival, di cui sicuramente chi lo conosce potrà dire un sacco di cose belle o brutte, non mi sono mai posta il problema di verificare che la quota rosa fosse rispettata. Mi premeva sentire cose interessanti e ne ho sentite tantissime che altrove non avrei sentito mai e ho trovato che anzi fosse rappresentata la questione di genere perché ogni anno trovavo ottimi interventi di uomini antisessisti e pensatrici e filosofe che raccontavano di teorie e azioni femministe. Ma questo è ciò che penso io.

Marzano riceve dunque una critica che non colgo giacché non mi pare sia stata invitata per annunciare gli ospiti o fare balletti prima degli spazi pubblicitari. Lei si lamenta comunque dei toni e per liquidarla tira fuori il solito concetto di appartenenza al branco o ad uno stesso genere per cui sarebbe fastidioso ricevere una critica da un’altra donna per via di quella storia del farsi guerra tra donne.

E’ brutto farsi una guerra tra donne, dicono spesso anche a noi, non fate la guerra tra donne, sostanzialmente se quella lì è una donna non osate opporre una critica e quando lo fate misurate i toni perché lei ti richiamerà all’ordine e alla fedeltà al tuo stesso genere. E poi ovviamente si nega il fatto che in realtà la critica è solo critica e che se di guerra si vuole parlare, scontro di potere, guerre relazionali, affettive, tra donne, bisogna anche un po’ smetterla di far passare l’idea che viviamo un idillio costante tra di noi. Le donne guerreggiano tra di loro esattamente come gli uomini con i propri simili e poi si guerreggia gli uni contro le altre eccetera.

Tutto quello che Marzano dice dopo è coerente con le tante cose scritte e dette ovunque. Ode alla Bindi compresa. Condisce l’antivelinismo con un po’ di filosofia, ci mette un po’ di storia sul concetto di natura legato al corpo delle donne, stabilisce che le veline sono tutte incompetenti in quanto tali e che il parlamento debba essere fatto da tecnici. E pure questo è un mantra ideologico che passa di bocca in bocca ed è quello che ci ha portato dall’essere una repubblica in cui qualunque cittadino e cittadina potevano accedere alla posizione di rappresentanti del popolo a prescindere dal livello di istruzione e dalla competenza, alla nazione attuale in cui abbiamo un governo di “tecnici”, con ben tre “tecniche” donne accolte con grande gioia da alcune, ed è tutto molto bello salvo il “piccolo” dettaglio che non sono stati eletti dal popolo e che le rappresentanti di sesso femminile, elogiate perché “competenti”, hanno in poco tempo messo in piedi provvedimenti terribili.

Voglio dire che pare proprio strano il fatto che un operaio o una venditrice ambulante, un commerciante o una insegnante, e nel progredire delle professioni anche una pornostar e una “velina”, bontà loro, ché è un pregiudizio anche il fatto che siccome svolgano quelle professioni non abbiano titoli di studio o competenze altre ma tant’è, non si capisce perché non possano fare i/le parlamentari e debbano delegare alla rappresentanza sempre e solo quello che ha due lauree, tre master, è ricco sfondato e non rappresenta altri che la propria categoria.

Lasciando stare il fatto che si trattava di una querelle (guerra tra donne perbene vs donne permale?) messa in piedi dalle donne di Futuro e Libertà, coadiuvate dalle colleghe del Pd ma pure da altre dell’allora Pdl, che si erano viste sfilare i posti in lista dalle donne preferite dall’ex premier. Lasciando stare il fatto che entrambe le culture, quella di derivazione del partito fascista e quella del partito comunista, dicono che la candidatura spetterebbe alla dirigente quadro, alla funzionaria di partito, a quella che si è fatta la gavetta di militanza, a chi, insomma, avrebbe maturato una competenza sul campo, un po’ come la Rauti, la Bindi o la Finocchiaro, la moglie del segretario regionale tal dei tali, tutta una cosa fatta tra noi in casa/partito/famiglia per capirci.

Ragion per cui quelle là, preparate per fare spettacolo, che vengono dallo stage aziendale non è possibile che possano sostituirsi alla donna che è cresciuta facendo politica e che ha perfino fatto tutti i corsi di aggiornamento e si è vissuta tutti gli appuntamenti dall’estetista/visagista facendosi depilare financo l’unghia del piede per essere televisivamente appetibile, non è proprio possibile, dunque, che una “velina” venuta dal nulla possa arrecare una simile offesa e avere uno spazio.

Lasciando stare il fatto che è tutta una ipocrisia (e non ho detto che il cavaliere abbia fatto bene) che i partiti di centro sinistra si ribellino alla candidatura che fa spettacolo giacché il velinismo impazza ed è nota la preferenza per i vip, tipo giornalista protofemminista, intellettuale anti-velina, o personalità pubblica similvelina che però il Pd riconosce nel ruolo dei Santoro o di qualunque magistrato popolare in tv.  Fa specie pensare che in piazza il 13 febbraio scorso ci fosse tanta gente dell’Idv brandendo “competenza” contro le “veline” quando quello stesso partito è frutto di un leaderismo costruito sulla popolarità televisiva. Ed è strano anche pensare che perfino nelle liste di sinistra oramai viene candidato l’operaio, il senegalese, la disoccupata, eccetera, come fossero portatori sani di un morbo sociale di cui però la sinistra si prende il merito di rendersi veicolo al fine di una maggiore e più democratica partecipazione.

E lasciando anche perdere il fatto che tutto ciò è alla base di quello che è nella sostanza Se Non Ora Quando, ché noi lo avevamo detto, dunque non sorprendetevi del fatto che oggi vuole trascinare tutta la truppa di accolite alle elezioni in favore dei leader dei loro partiti di riferimento, lasciando perdere tutto, dunque, si tratta comunque di un mantra ideologico abbastanza snob (e ho detto snob e non “moralista”) che giustifica la costruzione di una gerarchia per cui chi più possiede più diritti ha ponendo la Marzano stessa e quelle come lei il ruolo di parlamentare alla stessa stregua di un posto di lavoro per cui devi averci un curriculum preciso, una visibilità o popolarità garantite, in adesione ad una nuova logica di marketing aziendale. Nulla a che fare con le rivoluzioni e la gente che prende in mano le proprie sorti. Molto a che fare con il concetto di delega in chiave fun club – molto berlusconiano e da società dell’immagine in ogni caso – e poco o nulla con quello di autodeterminazione.

Ma, a parte questo, dicevo, il suo ragionamento è legato alla promozione della teoria della differenza. Ne parla molto, illustra i pro e i contro. Finisce che ovviamente la differenza vince sull’uguaglianza salvo poi dimostrare, con la sua reazione nei confronti della sua detrattrice, che non riesce ad accettare la differenza tra se e l’altra, evidentemente diversa, e la richiama all’ordine e alla fedeltà donnesca.

Se dunque la differenza di cui lei parla non è legata al concetto di “natura” allora di cosa parla? Perché se non lo è bisognerebbe spiegarlo a tutte le teoriche e praticanti della differenza, o alla maggior parte di esse, che intendono il mondo diviso per generi e non diviso per diversità caratteriali, di identità politica e di classe, di cultura, di mille altre cose che ci riguardano. Ed è giusto quella modalità [solodonne/on] che ha scatenato nel corso del tempo mille rivoluzioni facendo emergere più femminismi di quante non siano le espressioni della stessa cultura patriarcale.

Il femminismo postcoloniale, l’afroamericano, quello tedesco, il cyberfemminismo, la teoria queer, l’anarcofemminismo, il pornofemminismo, il femminismo proletario e via di questo passo per dire una cosa fondamentale ma anche assolutamente scontata fin dalla prima ora ovvero che le donne sono diverse tra loro e che hanno, abbiamo, licenza di critica senza che l’altra debba sentirsi offesa o debba richiamarci all’ordine.

Fermo restando che, e sono d’accordo con lei, per impedire una regressione del livello discorsivo che dalla violenza verbale porta a quella fisica (come quelle morigerate, anzi no, oggi in una rielaborazione semantica sono “competenti” e che usano il termine “troia” per distinguersi dall’altra donna di “facili costumi”) bisogna – e la cito – “rimettere la discussione sul livello argomentativo”. E la critica che lei ha ricevuto e letto introducendo il suo intervento mi sembrava argomentata. Può anche essere che io non la condivida affatto ma la parte volutamente offensiva toccava la sua sfera personale. Lecito che Marzano si offenda se qualcun@ in modo scorretto faccia riferimento al perché e al percome della sua carriera ma trovo ugualmente che tirare fuori il concetto del non farsi guerra tra donne sia sbagliato.

E detto questo, in toni che spero Marzano, che neppure so se mi legge, non troverà offensivi, provo a dire in modalità [fikasicula/on] perché in generale questo concetto, della differenza intendo, per me è una trappola.

Alcune cose le scrive qui CyberGrrlz che non avrà la statura professionale e il prestigio di una accademica però io la cito lo stesso:

qualcuna – scrive – ha commentato il post che critica gli obiettivi Snoq dicendo che le donne non dovrebbero litigare tra di loro perché là fuori ci sarebbe un nemico comune, l’uomo, che se la ride e ci fa male. Unirsi sulla base di un presunto nemico esterno, dunque del genere di appartenenza e non sugli obiettivi è una cosa che non mi/ci appartiene. E gli obiettivi di Snoq, quelli che hanno esplicitato, non somigliano ai nostri.

Continua poi definendo il fatto che unirsi in un patto di genere, come sotto un’unica bandiera, può determinare razzismo o sessismo. Chiarisce che evidentemente esistono donne che non riconosciamo come sorelle per le ragioni più varie, per le posizioni politiche non condivise, perché i loro bisogni di donne appartenenti ad una classe differente non saranno mai i nostri, perché in questa gerarchizzazione delle relazioni, delle rappresentanze, le donne che hanno meno sono invisibili e dovrebbero delegare ad altre, le accademiche o le ricche o le più “competenti” (competenti in femminismo?) le proprie rivendicazioni e le proprie lotte.

Nel corso degli ultimi mesi, forse più, in coincidenza con la discesa in campo di Snoq, è ritornata forte l’urgenza di rimettere le donne tutte al proprio posto e di collaudarne la fedeltà reciproca. Sono femministe della differenza? Non lo so. Alcune femministe della differenza, come la Muraro, si sono espresse negativamente in relazione alla manifestazione del 13 febbraio e ai loro appelli più o meno allo stesso modo in cui ci siamo espresse noi. Quindi c’è “differenza”, forse, perfino tra le stesse femministe della differenza (scusate il gioco di parole), giusto per dire che i corpi di donna non sono un obiettivo imperialista da annettersi vicendevolmente con stratagemmi più o meno performativi, i fili rosa, le palline rosa, le magliette rosa, slogan, colore, linguaggi comuni, in poche parole autarchia simil leghista con tutte le conseguenze che ne possano derivare.

Il femminismo è un punto di partenza. Non è un punto d’arrivo. E’ la determinazione di una collettività oppressa, subordinata e che intende andare verso l’uguaglianza. Scandirla in termini di riproposizione della differenza, e sto banalizzando – lo so, nell’accezione di una presunta superiorità simbolica, morale, nel senso che si, siamo diverse, è tanto bello essere diverse, da ciò deriva che sulla mia diversità realizzo la mia richiesta politica ma quella diversità, alla fine, si riduce alla biologia e Marzano può dire mille volte che non è così ma così invece è.

L’attribuzione di stereotipi, di nuovo forte in questi ultimi due anni, che derivano dall’elevazione della differenza a status di genere è frutto di una costruzione culturale che mi incastra ancora nel ruolo riproduttivo e di cura.

Quali sarebbero le differenze di cui si parla e soprattutto a che e a chi servono?

Di differenza parlano quelle che intendono le donne tutte come materne, empatiche, buone, mai aggressive o inclini alla violenza, “portatrici di vita”, angelicate e quasi medioevali, con caratteristiche “istintive” votate al ruolo di cura e dunque assolutamente intenzionate ad esigere un welfare che preveda la conciliazione tra famiglia/lavoro. Una conciliazione che per i padri non si prevede affatto o quasi mai.

E’ talmente strano intendere le donne come tante e varie e piene di caratteristiche differenti che se una donna commette un delitto, un crimine, una cattiveria, una oscenità, una crudeltà, si scomodano perfino termini quali “kapò” (le kapò erano le detenute che diventavano sorveglianti/aguzzine delle altre) che plausibilmente si riferiscono ad un tradimento di genere più che ad una stigmatizzazione diretta ad una persona che ferisce l’umanità tutta e che lasciano intendere che ciò che per una donna viene giudicato come fuori norma per l’uomo invece sarebbe quasi normale.

La valorizzazione (leggasi “esaltazione“) della differenza diventa normativa dei comportamenti delle donne. Di nuovo. Ti dico che sei fantastica, diversa, dunque migliore (e so che banalizzo ma il succo è questo) come antidoto a specchio della esaltazione della differenza che fanno certi uomini. E nella proposizione di stereotipi sessisti finisco per discriminare gli uomini. Noi migliori e loro peggiori.

Il punto è che la “differenza”, a parte dare a Snoq la possibilità di riproporre il suo patto trasversale tra donne di identità politica, obiettivi, appartenenza di classe talvolta opposti, ha motivato negli anni l’esclusione delle donne dal mercato del lavoro e dunque è stata funzionale a datori e datrici di lavoro che hanno ricacciato sempre più le donne a casa per via di quella valorizzatissima, pure troppo, differenza “biologica” che attiene al “partorire”. Conseguenza ne è che il femminicidio parrebbe essere un effetto collaterale della accresciuta dipendenza economica delle donne.

Convincerci che mestruazioni+riproduzione sia una gran figata è stata una cosa molto utile a chi tiene il pallottoliere della natalità, a chi vuole salvaguardare la riproduzione della specie escludendo un futuro multietnico, a chi vuole togliersi di torno le donne incinte e con figli, sull’esempio di ciò che sta accadendo alle dipendenti della Triumph, perché il nostro sogno di “donne” in fondo qual è? Il lavoro? Una istruzione accessibile a tutt*? Ma no: La famiglia e i figli e svolgere ruoli di cura, of course.

La “differenza” pone le donne anche in una sorta di area protetta per cui io dovrei pretendere dal mondo una sorta di “tutela” per la mia diversità, diventando strumentale/funzionale a logiche patriarcali che realizzano un potere sulla tutela che a me concedono e che allo stesso tempo riaffermano così un motivo di esclusione dai ruoli di cura e di paternità per gli uomini.

E non vale neppure il fatto, così come dice Marzano, che se non dichiari la “differenza” non può esserci riconoscimento della violenza di genere. Primo: perché detta così è come se si dicesse che o si fa sopravvivere questa costruzione culturale oppure – attente donne – che vi perdete quei due diritti (revisionismo vuole che si intendano quali privilegi) che avete conseguito. Secondo: perché la violenza di genere, quella realizzata sulle donne in quanto donne, resta per ora come espediente tutto da scardinare usato per imporre autoritasmi sociali, giuridici che negano la nostra autodeterminazione ed è espressione di quella stessa cultura patriarcale che si nutre di stereotipi, di valorizzazione della “differenza” biologica (la costante della “natura”)  e dunque di quegli stessi elementi che dovrebbero teoricamente portarmi qualche vantaggio. L’obbligo riproduttivo, di cura, di asservimento all’uomo, di negazione della propria sfera e del proprio autonomo desiderio e piacere sessuale.

Io non so a cosa sia dovuta tanta insistenza sulla teoria della differenza, perché viene costantemente imposta, perché io debba sentirmene colonizzata, perché non si riesca a fare emergere quanto sia pretestuosa, a volte, e funzionale a mistificazioni e quanto diventi determinante per la riproposizione di ruoli di potere gestiti da donne.

Quello che so è che per anni abbiamo subito in Italia l’egemonia culturale su pratiche e pensieri che per fortuna il web e la lettura di testi in altre lingue hanno messo in discussione. Nel senso che si è capito che il pensiero “unico” femminista in realtà è un pensare multiplo, vario, collettivo e quando le donne, tante donne, si confrontano e dicono con chiarezza le une alle altre che “toh, le cose che dici proprio non le condivido“, non è per nulla “farsi la guerra tra donne” ma è un partire da se’, esattamente come il femminismo ci ha insegnato, a tutte e tutti, perché se non parti da te e non capisci che la “differenza” tra me e te qualche volta è perfino più accentuata di quella che può esserci tra me e un uomo, allora non si chiama femminismo. Si chiama colonizzazione.

 

Posted in Comunicazione, Critica femminista, Pensatoio.


2 Responses

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  1. Paolo84 says

    Il punto per me è molto semplice: c’è una percentuale di donne lavoratrici che vengono costrette contro la loro volontà a lasciare il lavoro solo perchè hanno scelto di diventare madri, di diventare genitore (e come ogni genitore hanno bisogno di tempo per stare coi figli e occuparsi di loro) questo è gravissimo e se SNOQ riesce a mettere fine a queste cose (abolendo le dimissioni in bianco o istituendo congedi di paternità più lunghi accanto a quelli di maternità, congedi parentali che la coppia può gestirsi come vuole e che valgano anche per lavoratori e lavoratrici precarie e parasubordinati/e, asili nido a prezzi accessibili o gratis) direi che farebbe qualcosa di buono pur con tutte le critiche che si possono fare a SNOQ per altre cose.
    la maternità deve essere una scelta, non un destino obbligato, è un valore per chi la vuole e pure chi vuole un figlio non è detto che non voglia anche un lavoro. Le donne, come gli uomini, sono diverse l’una dall’altra e hanno idee diverse e ambizioni diverse. Che ogni donna come ogni uomo sia diversa dall’altra, i pare lampante