Skip to content


Il paternalismo della Corte dell’Unione Europea

Mentre in Italia i giudici procedono per assoluzioni di uomini violenti con le donne, mentre istituzioni varie, dal governo nazionale alle regioni e ai comuni, lasciano che le donne subiscano violenze senza fare nulla anzi sottraendo risorse agli unici punti di riferimento, i centri antiviolenza, utili a salvare la vita delle donne, mentre da noi, in Italia, c’è in discussione il diritto di famiglia, con leggi come il ddl 957 in discussione al parlamento che usa a pretesto i bambini per lasciare che uomini violenti, anche denunciati e in fase processuale, possano accedere alla vita delle loro ex mogli mettendo in serio pericolo le loro vite, dall’Onu arrivano le raccomandazioni al governo che parlano di obbligo di realizzazione di provvedimenti che parlino di violenza assistita, ovvero di tutela di tutti i familiari, figli inclusi, che subiscono la violenza che viene inflitta alla loro madre e dunque la subiscono di conseguenza, le raccomandazioni parlano dell’obbligo di tenere lontani gli uomini violenti dai nuclei familiari abusati.

Così altri provvedimenti arrivano dall’Europa per merito di altri stati che li hanno evidentemente sollecitati, che se fosse per l’Italia si tornerebbe a offrire tutele ai violenti e non alle donne violentate. Per esempio hanno deciso che una donna che subisce lo stalking può chiedere protezione a qualunque Stato dell’Unione e questa in effetti può essere una cosa buona. Cioè riuscire a cambiare anche Stato in assenza di tutele reali che consentano alle donne di restare vive e trovare un contesto favorevole.

Poi c’è – però – la Corte dell’Unione Europea che ha sancito che gli uomini violenti restano fuori casa anche se le donne sono disposte a riprenderseli. Capita spesso che le donne che subiscono violenza sviluppino una dipendenza a quella situazione. Vivono un periodo di transizione che normalmente passa attraverso riappacificazioni e nuovi ricoveri in ospedale con lividi e ferite, poi altre riappacificazioni, perché le donne che subiscono violenza sono incrinate, piegate soprattutto dal punto di vista psicologico.

Insicure, masochiste, convinte di poter gestire la situazione, potenti a volte del sentirsi forti in una situazione in cui è il violento a mostrare la debolezza, nell’atto di cedere all’impulso di picchiare, piegate da quella logica che toglie loro prospettive, che permea le loro vite di ragioni per cui non si dovrebbe mai scindere una “famiglia” e mille altri motivi che stanno alla base di un andirivieni che è causa di tanti drammi.

Non è semplice salvarsi dalla violenza e chi l’ha vissuta lo sa bene, perché un uomo violento ti convince anche che tu non vali niente, che meriti di essere picchiata, brutalizzata, ti toglie tutto quello che ti è caro, finanche le tue passioni, i bisogni, i progetti di futuro. Finisci per pensare che lui possa essere l’unico che ti ama davvero, l’unico che c’è nonostante tutto, l’unico che ti vorrà mai e resti piegata in una mortificazione che parte dalla bassa stima di te e che continua in un atteggiamento assolutorio nei confronti di tutto ciò che ti ferisce.

Accade spesso che le donne che denunciano poi ritirino la denuncia, o quelle che ottengono restrizioni poi accolgano i loro ex in casa, o comunque trasgrediscono a quelle regole minime della prudenza che ci servirebbero per restare vive. Perché la dipendenza è una cosa che va smaltita in vari periodi di transizione e perché l’abitudine a vivere una relazione violenta ti induce a vedere quell’uomo per il vago riflesso di una attenzione che può manifestarti. Non lo vedi mai realmente, nel bene e nel male. Ti abitui a non vederli mai realmente gli altri se non cresci anche tu e non realizzi che l’amore o come vuoi chiamarlo è cosa molto diversa dal cercare nell’altr@ il riflesso di se stessi.

L’altra persona è cosa diversa, altro da te, ed è quella diversità che spesso abbiamo difficoltà a riconoscere. Pur di nascondere la violenza subita si finisce per coltivare l’illusione dell’amore, agevolata da una cultura di san valentini e celebrazioni retoriche idiote, una illusione che non c’entra nulla con la persona che si ha accanto. Quella persona è solo un interprete che riconosciamo quando pronuncia frasi che corrispondono al progetto che abbiamo in mente. Così non vediamo chi sta dall’altra parte e viviamo in un rifugio che non è fatto di carne e ossa ma di menzogne.

Abituarsi a riconoscere l’altro, per ciò che è, significa voler guardare davvero cosa sta dall’altra parte. Significa stimarsi un po’ di più, disilludersi, restare vicini gli uni e gli altri senza il timore di scontrarsi con diversità, di confliggere, di rimettersi in discussione.  Ma questo attiene alle relazioni non morbose, quelle sane ed è tutt’altra faccenda che varrà la pena approfondire in un altro momento.

Quello che mi viene in mente quando penso alla decisione della Corte dell’Unione Europea è il fatto che una azione coercitiva non so quanto possa aiutare le donne. Nel senso che tutto il percorso che ho descritto è un percorso personale, intimo che se costretto da interferenze potrebbe indurre le donne a non denunciare per paura di non poter tornare indietro, di non poter concedersi debolezze. E non si può proteggere una donna da se stessa utilizzando lo stesso schema che userebbe chiunque vuole rinchiuderti in manicomio con la scusa che vuole impedirti che tu ti faccia male.

Crescere, guarire, vivere, sono cose che passano attraverso la responsabilità delle donne che subiscono violenza. Se non c’è assunzione di responsabilità e consapevolezza quella donna, costretta da un provvedimento a non poter tornare indietro, finirà per commettere errori, per agire nella clandestinità e dunque quel provvedimento mi sembra più una forma di deresponsabilizzazione da parte dei governi e dei giudici che in qualche modo ti dicono che se vuoi tornare indietro sono un po’ cazzi tuoi e lo Stato non ha più il dovere di fare nulla per te. Significa ributtare la croce sulle spalle delle donne che subiscono violenza, non tentare di capirne le ragioni e agire secondo uno schema banalmente repressivo che non sfiora minimamente le questioni culturali, sociali, economiche e psicologiche che coinvolgono le donne che subiscono violenza.

Dunque no, questo provvedimento non mi convince, non se è inflitto in questa forma o comunque bisogna ripensare a tutta la modalità di proposizione delle leggi che tutelano le donne. Ogni provvedimento dovrebbe rappresentare per le donne una opportunità e non una costrizione. Quando un giudice si permette di infliggere alla vittima di una violenza una costrizione quella vittima diventa un soggetto privo di autonomia, non più in grado di autodeterminarsi e l’autodeterminazione è alla base di tutto quello che ci riguarda e non possiamo mai perderla di vista.

Un provvedimento che parla di tutela delle vittime di violenza deve comunque essere laico perché le donne che subiscono violenza non possono e non devono essere considerate delle minorate mentali, delle pazze, delle persone da legare, rinchiuse in una stanza, per non consentire loro di fare quello che vogliono, incluso sbagliare. Un provvedimento di questo genere dunque mi sembra più andare nella direzione di una deriva autoritaria che con la scusa della tutela contro la violenza imprime un ulteriore diktat sulle donne, come se già non ce ne fossero a sufficienza.

Questo almeno è quello che viene in mente a me solo pensandoci un attimo. Posso sbagliarmi ma magari parliamone.

Posted in Pensatoio, Scritti critici.


3 Responses

Stay in touch with the conversation, subscribe to the RSS feed for comments on this post.

  1. maralibera says

    non credo sai che si voglia dire che bisogna passare attraverso la riappacificazione, anzi. però si dice che ogni costrizione porta alla clandestinità e se una donna deve viversi le debolezze in clandestinità finisce che muore in solitudine per mano di un violento e sarà sempre colpa sua. il post credo sottolinei quanto sia superficiale immaginare che un provvedimento autoritario e repressivo possa aiutare in questo modo. 🙂

  2. Salvo says

    Bella la cosa che possa essere qualunque Stato dell’Unione a prendersi cura, proteggere la persona perseguitata, maltrattata, violata. Non convince anche me il fatto che ci possa essere una deriva autoritaria, paternalistica nel dire quello che devono o non devono fare la donne… Ma anche io ho un pero’ : deduco dalle tue parole che allora sarebbe meglio che la donna faccia il percorso : riappacificazione-nuovi maltrattamenti , senza sapere in quali dei due stati ( l’amore o i continui maltrattamenti ) si assesti il rapporto di coppia ( anche se credo che l’amore sia molto difficile raggiungerlo in rapporti che si sono dimostrati morbosi ). Non credo che il provvedimento voglia usare lo schema dei manicomi ( rinchiuderti li’ perchè ti farai del male ); penso piuttosto che usi lo schema: chi ti ha fatto del male non ti si avvicini piu’, nemmeno a casa, anche se tu lo voglia ( chi garantisce che non ti ritorni a fare del male ? ), piu’ uno schema che obbliga l’estortore a starti distante dalla tua attività, e quindi a maggior ragione dall’entrare nel luogo ove c’è la tua attività . Non so’ se incida a non far fare le denunce …

  3. Rosi says

    Sono d’accordo…quello che ho letto è quello che avrei scritto io, quello che penso!Sono figlia di un uomo violento e di una madre che ha subito la violenza e non ha protetto le figlie dalla violenza.
    Adesso sono lontana da loro; vivo con un uomo che non picchia ma che non definerei come non violento…E’ il padre di mio figlio ma questo è un particolare.