Dal blog mamma-forever uno scritto dell’Associazione Donne Giuriste:
Risulta a chi da anni si occupa di violenza contro le donne e di maltrattamenti familiari alquanto paradossale che, proprio quando chi subisce da tempo angherie di vario genere riesce a trovare risorse, energie e strategie, anche giudiziarie, per uscire dal cerchio della violenza familiare, lo strumento normativo si presti ad essere ostacolo di questo processo.
Chi ha trovato a fatica una via di uscita da una situazione drammatica rischia di trovarsi ancora all’interno di dinamiche e meccanismi opprimenti. Si consideri che in tali situazioni è in gioco la libertà di chi subisce violenza di sottrarsi dal partner violento e persecutorio che utilizza i minori quale elemento di ulteriore controllo sulla vita della partner. Partner violento e persecutorio che utilizza i minori quale elemento di ulteriore controllo sulla vita dell’altro partner.
Del resto sappiamo che la violenza continua anche dopo la separazione e l’interruzione della convivenza.
In ricerche svolte presso i tribunali,“emerge il dato che i maltrattanti usano nelle separazioni il sistema giuridico come mezzo per continuare a maltrattare ed esercitare il controllo sull’ex partner e sui figli…”. Inutile dire quanto sia lontano un interesse reale per i bambini in comportamenti che perpetuano maltrattamenti, atti vessatori, violazione sistematica degli accordi.
“Nella pratica, esiste una forte linea di tendenza impegnata ad accusare le madri di voler sottrarre i figli ai padri nelle separazioni, con attacchi pesanti all’attivazione delle risorse protettive materne nei confronti dei figli vittime di violenza domestica e intrafamiliare.” Da questo punto di vista non è raro il caso in cui la madre passa da vittima ad “imputata””, con processi di autocolpevolizzazione, che rappresentano una nuova e più sottile forma di violenza.
L’ambiente domestico è un luogo privilegiato di dinamiche di violenza nei confronti delle donne e dei minori.
Come si è sottolineato “Troppo a lungo la famiglia è stata idealizzata e considerata un luogo elettivo di amore, protezione e solidarietà mentre, in realtà, la violenza commessa nei confronti dei suoi membri, in specie, quelli più deboli, è stata tollerata, legalizzata e, in certi casi, favorita.
… In effetti la coscienza sociale ha per molto tempo considerato queste manifestazioni di violenza come ‘questioni’ fra coniugi e, conseguentemente, le ha relegate nel ‘privato’, in tal modo non solo sono state legittimate ma riconosciute.”
Si parla comunemente di violenza familiare: in realtà gli attori principali della violenza sono in prevalenza uomini e le donne ne sono le prime, anche se non le sole, vittime destinatarie.
Donne insultate, umiliate, svalorizzate davanti ai figli, minacciate, controllate in ogni loro movimento, chiuse in casa, a cui è impedita la ricerca di un lavoro extradomestico, costrette, con la minaccia, il ricatto, la forza fisica, a rapporti sessuali, oggetto di veri e propri pestaggi, percosse con pugni, calci, schiaffi: è questo ciò che va sotto il nome di violenza domestica.
Nella tipologia della violenza domestica rientrano le più diverse forme di controllo e di dominio di un partner sull’altro: la deprivazione di tipo economico, la violenza verbale e psicologica, la violenza fisica, la violenza sessuale.
La violenza domestica, come è stato autorevolmente documentato, “non consiste in scoppi d’ira occasionali o incontrollati, provocati dalle frizioni della vita comune”: infatti le violenze continuano anche quando la relazione si è interrotta. Ricerche condotte in altri Paesi, non solo europei, ed anche in Italia ci dicono che le violenze proseguono, anzi sono più frequenti che tra le donne sposate. E ciò vale anche per la violenza finale, l’omicidio.
Anche le donne possono uccidere il partner, ma ciò avviene più di rado. Una differenza fondamentale è che gli uomini uccidono le mogli dopo aver compiuto per anni violenze su di loro, mentre le donne uccidono gli uomini dopo aver subito per anni violenze da loro.
La violenza domestica coinvolge sempre i figli. In alcuni casi li coinvolge direttamente, sempre li coinvolge indirettamente. Si parla in questi casi di violenza assistita.
I bambini esposti a violenza domestica provano paura, terrore, confusione, impotenza, rabbia, e vedono figure di attaccamento da un lato terrorizzate, impotenti e disperate, e dall’altro pericolose e minacciose…”.
Le piccole vittime di violenza assistita apprendono che l’uso della violenza è normale nelle relazioni affettive e che l’espressione di pensieri, sentimenti, emozioni, opinioni è pericolosa in quanto può scatenare violenza. Esse possono essere incoraggiate o costrette ad insultare, denigrare, controllare e spiare, picchiare la madre e i fratelli. Ma anche quando non c’è incoraggiamento o costrizione a mettere in atto tali comportamenti, nella violenza assistita è insita la corruzione del minore, derivante dal vivere in un ambiente dove comportamenti criminosi sono minimizzati, negati, presentati come leciti.”
Del resto anche la giurisprudenza nell’incrociare la violenza assistita, in sede di adozione di provvedimenti di allontanamento, ha sottolineato come “non solo gli abusi o maltrattamenti diretti, commessi cioè direttamente sul minore, ma anche quelli indiretti, perpretati sulla persona di stretti congiunti a lui cari.
Quali la visione da parte del minore di ripetute aggressioni fisiche alla madre da parte del padre, integrino un vero e proprio abuso o maltrattamento del minore, nel senso che le continue violenze inferte dal padre alla moglie sono comportamenti gravemente pregiudizievoli dei figli ed idonei a compromettere irreversibilmente l’armonica ed equilibrata crescita psico-fisica dei minori ed anzi a distruggerne la personalità.
Sottovalutare la violenza assistita, è un grave errore.
Dall’esperienza e dalla riflessione maturata nei centri antiviolenza è comunque venuto un concreto contributo che ha portato alla approvazione della legge 154/2001“Misure contro la violenza nelle relazioni familiari”.
Ciò ha consentito che i giudici civili abbiano iniziato a confrontarsi con il tema del maltrattamento in famiglia, che vi fosse uno strumento caratterizzato dalla immediatezza e dalla tempestività per aiutare ad uscire dal circolo delle violenze. Ciò ha consentito peraltro di far avanzare una nuova o diversa sensibilità verso il problema della violenza in famiglia e ha favorito anche un cambiamento culturale nell’approccio al problema della violenza diretta e indiretta.
Nonostante la sua limitata applicazione l’ordine di allontanamento costituisce uno strumento prezioso in una strategia efficace di uscita dalla violenza.
Non riteniamo si debba correre il rischio che il risultato, anche se parziale, di questo e altri strumenti venga vanificato.
La valutazione delle violenze intra-familiari nell’affidamento dei figli.
Si può senz’altro affermare che l’affido condiviso non è possibile né praticabile nei casi di violenza sui minori, di violenza assistita e di violenza sul genitore collocatario del minore.
Dalle ricerche condotte e dall’esperienza dei centri antiviolenza presenti su tutto il territorio nazionale emerge, come si è accennato, che le forme di violenza familiare subite dalle donne sono diverse. Il maltrattamento è caratterizzato dalla molteplicità e contestualità di più forme di violenza, complessivamente tese a costruire una situazione di dominio sulla donna.
Spesso, riferendosi a situazioni di violenza all’interno delle relazioni affettive, si utilizzano i termini come litigio, lite, conflitto; il linguaggio riflette una non sempre chiara discriminazione dei confini esistenti che ostacola il riconoscimento dei “segni” della violenza e porta a sottovalutare il maltrattamento e le sue conseguenze.
Mancanza di parità e reciprocità nei rapporti, assenza di rispetto, presenza di aggressioni fisiche, mancanza di riconoscimento dell’altro, esercizio di potere, svalorizzazione e dominio sull’altro sono gli elementi che connotano la violenza.
Esiste una contraddizione in termini: ove v’è violenza come e che cosa condividere ? Quale accordo, quale gestione congiunta ? Ove c’è violenza non c’è possibilità di mediazione. Ove c’è violenza non è percorribile e praticabile l’affidamento condiviso né l’esercizio congiunto della potestà.
Le esperienze sul campo ci dicono poi che l’essere costretti a gestire insieme i figli non permette l’uscita dalla violenza e la cessazione delle violenze, al contrario espone a continui ricatti e può vanificare il percorso di uscita dalla violenza. Nelle violenze che, come si è detto, i dati ci dicono continuare anche dopo la cessazione della convivenza, permane la svalorizzazione dell’altra figura genitoriale con una ripercussione di tutto ciò sui figli.
Dai risultati di alcuni studi di tipo qualitativo in Italia emerge che, quando le donne si oppongono ad un accesso indiscriminato ai figli da parte degli ex partner violenti e cercano di proteggere loro stesse e i bambini, vengono spesso punite dai servizi sociali e dal tribunale.
Ed anche che in Australia sono stati analizzati i fascicoli relativi a 100 casi di custodia conflittuale, selezionati tra quelli in cui non c’era apparentemente violenza dal partner. “L’analisi ha rivelato che nel 17% dei casi il padre usava deliberatamente i contatti con i figli per controllare e perseguitare l’ex moglie, e che nel 55% dei casi i contatti erano occasioni per infliggerle ulteriori violenze ( minacce di morte, aggressioni, stupro).”
Quel che si vuol sottolineare è che è facile che ex mariti e padri violenti continuino a dominare moglie e figli.
Non va neppure sottaciuto che in nome del c.d. principio della “bigenitorialità” si possa giungere a tesi paradossali.
In molti Paesi industrializzati negare o anche solo restringere i contatti tra padre e figli è considerato più grave che esporre bambino e donna al rischio di violenze e di morte. Gli uomini, i padri, passano così dallo status di oppressori a quello di vittime: discriminati nei tribunali, cacciati dalle loro case, separati dai loro figli, disperati.
E’ un discorso che non trova conferma nei dati disponibili che viene reiterato, rumorosamente e aggressivamente, dai movimenti per la condizione maschile o dei padri separati, e ripreso in maniera acritica e compiacente dalla stampa, per esempio nei titoli di articoli relativi ai casi di uomini che uccidono figli e mogli.
Certo, la sofferenza di questi uomini non va sottovalutata, visto che alcuni di loro si tolgono la vita dopo averla tolta ad altri. Ma l’errore sta nell’interpretarla come il prodotto del divorzio e della cosiddetta alienazione subita dagli uomini a causa delle procedure giudiziarie, ignorando l’aspetto della dominazione e del possesso, elementi costitutivi della loro violenza anche prima della separazione.
Le proposte per evitare le tragedie e le morti conseguenti a questa interpretazione, – il diritto di accesso ai bambini, l’affido congiunto – finiscono così per legittimare proprio quelle istanze di controllo e di possesso che stanno dietro alla violenza e che non vengono mai rimesse in discussione.
Naturalmente, la valutazione del giudice, cui la legge assegna una rilevante responsabilità, dovrà tenere conto dell’insieme degli elementi ricordati: la preferenza accordata dalla legge all’affidamento condiviso non può essere la regola.
Da “Associazione Donne Giuriste”
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