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Muraro (“Al limite la violenza”): volete discuterne con noi?

[https://www.facebook.com/intifadat.almar2a (The uprising of women in the Arab world – La rivolta delle donne nel mondo arabo)]

Nella nostra mailing list si sta discutendo di uno scritto di Luisa Muraro che copio sotto. Muraro e femminismo della differenza da cui noi siamo tanto lontane. Lo scritto, come osserva Jo’ in un suo testo pubblicato QUI, presenta delle novità che minano dalle fondamenta il pensiero della differenza. Muraro non usa il termine “autodifesa” o “forza necessaria”. Racconta percorsi autodeterminati di persone che non accettano tutele. Io lo rimando ad un concetto più volte espresso nel corso delle analisi che abbiamo fatto sulle donne e il linguaggio dei media.

In Italia la “resistenza”, concetto che preferisco, delle donne viene medicalizzata o demonizzata finanche dalle femministe le quali insistono relegandoci al ruolo di madri/mogli/addetteallacura buone, brave e angelicate, definitivamente medioevali. Qui da noi il mito della donna “martire” che fa dell’essere vittima uno status è difficile rimetterlo in discussione. Mentre altrove, come vediamo dalla foto in alto, l’immaginario della donna resistente assume appeal, da noi una donna che resiste, determina e si difende, viene vista come una minaccia, una persona da rieducare, come d’altronde qualunque altra componente sociale che conosciamo. Non si può declinare la lotta, penso alla #NoTav, se non in versione “obbediente” e “legale” dove il confine tra ciò che è legale e ciò che non lo è viene fissato da chi decide sulla pelle della gente che legale è ciò che conviene a poteri che reprimono e si palesano in piazza con le manganellate. E’ una discussione, questa, che attiene non solo alla questione delle lotte sociali ma soprattutto, per quel che mi riguarda, ad una presa d’atto del fatto che la rivendicazione resistente, in alternativa alla perenne richiesta di “tutela”, ribalta il quadro delle richieste e considera la “tutela” come espressione visibile di una cultura patriarcale che esercita potere di controllo/repressione/punizione e che reprime ogni forma di reazione autodeterminata.

Tra le altre cose, in mailing list, si discute a proposito di una resistenza (violenza) culturale in risposta alla “violenza” dei media e della cultura e Lorenzo scrive:

Abbiamo imparato che la violenza della cultura e dei media fa molto più male delle manganellate e dei femminicidi messi insieme, perché giustifica questi e fa accettare violenze ben peggiori, sistematiche e di lunga durata. Quindi: che sia una violenza culturale, quello sì (…).
Il nostro FBC, per esempio, è un esempio di quello che intendo con “violenza culturale”. Regole ferree per consentire liberamente quello che il “contratto sociale” impedisce, imbavaglia, imprigiona; ed è bene che il tutto esploda con rumore ed eccesso, perché tanto non farà manco una vittima. Ma contribuirà ad uccidere l’indifferenza.

Vi metteremo comunque a parte della discussione che si sta facendo e se volete partecipare, ovviamente, iscrivetevi alla nostra mailing list. Per qualunque altra cosa segnalazione o qualunque altra cosa voleste dirci potete scrivere sempre a fikasicula[at]grrlz.net o cercare FikaSicula su Skype (volendo…). Buona lettura!

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Luisa Muraro – Al limite, la violenza* – “via dogana”, 100, marzo 2012

* Era una Anticipazione di un saggio breve, Dio è violent…!, la cui pubblicazione era prevista per giugno (dunque adesso) a cura dell’editrice Nottetempo di Roma.

La predicazione antiviolenza non manca certo di argomenti morali ma le manca ormai un punto di leva per sollevare le giuste pretese e abbassare l’arroganza dei potenti. Anticamente il punto di leva era la parola divina; modernamente è stato l’ideale del progresso. Che oggi è morto, al pari e forse più di Dio. Oggi, a causa della competizione globale, esasperata dalla crisi in corso, l’idea che sia possibile stare meglio tutti non agisce più; prevale quella che il meglio sia per alcuni a spese di altri.

La costatazione che non siamo più animati dal sogno di stare tutti meglio, è un colpo mortale all’ideale dell’uguaglianza e alla politica dei diritti. E impone di riaprire il discorso sull’uso della forza. C’è una violenza nelle cose e fra i viventi che prelude a un ritorno della legge del più forte: dobbiamo pensarci.

Il discorso può aprirsi dicendo semplicemente che, in certi contesti, a certe condizioni, è opportuno non usare tutta la forza di cui si dispone. Bisogna però tenerla a disposizione, se non si vuole che altri se la prendano: alla propria forza non si rinuncia senza soccombere ad altre forze. Si tratterà dunque di dosarla senza perderla.

La predicazione antiviolenza vorrebbe farci credere che la misura giusta la fisserebbe il confine tra forza e violenza: no, lo sconfinamento tra l’una e l’altra spesso è inevitabile. La misura da cercare è nella coincidenza fra la giustezza e la giustizia dell’agire, coincidenza che va cercata non dico a tentoni, ma quasi. La giustezza (che è parente dell’efficacia) è soprattutto dei mezzi, la giustizia è soprattutto dei fini. La loro rispondenza, sempre da ri-cercare, si oppone al cinismo del fine che giustificherebbe i mezzi, ma anche alla paralisi di un agire tutto conforme alle regole stabilite. Ed è un nome della politica.

Dosare l’uso della forza di cui si dispone fa parte della strategia dell’agire politico non come un’opzione qualsiasi ma come un sapere necessario; lo insegna molto bene l’antico filosofo taoista Sun-Tzu nell’Arte della guerra. La giustizia, per il generale che comanda l’esercito, consiste nell’obbedire agli ordini dell’Imperatore, ma il generale sa che “ci sono ordini dell’Imperatore ai quali non si deve obbedire”: bisogna saperlo se vogliamo accorciare le distanze fra la cosa giusta da fare qui e ora, e la giustizia del nostro fare, riconoscibile anche domani e dopodomani.

In seconda battuta deve venire, logicamente, un’aperta discussione sull’idea di violenza giusta.
Il nostro sistematico non chiamare in causa Dio (che ha le sue buone ragioni), ce la rende forse una questione improponibile, perché la violenza giusta è per definizione violenza divina, ossia manifestazione di un essere per essenza giusto. Che non è certo l’essere umano. Tra i nomi divini c’è anche Sole di giustizia. Non esiste? Pazienza, ci faremo luce con le candele, ma le verità teoriche restano tali anche in assenza di fatti, e teniamole presenti.

Altrimenti, in base a quello che capita di fatto tra gli umani, si crede che la violenza sia in sé cattiva. E si prepara il terreno per sostenere che essa si giustifica unicamente se il suo uso viene regolato per legge. Si sorvola così sul fatto che il diritto usa la violenza come uno strumento per scopi che il diritto stesso dichiara tali, giusti: un circolo vizioso dal quale non si esce senza spezzano, dato che il diritto vigente rispecchia lo stato dei rapporti di forza e la violenza non gli è certo estranea. Cose già dette e risapute. Possiamo far finta d’ignorarle? Si tratta di pensare una violenza che non è strumento di nessuno, che il diritto non può fare sua giustificandola, e nessuno può farla sua, manifestazione di una giustizia che ci oltrepassa dalla quale, però, noi umani possiamo lasciarci usare, consapevoli del rischio inevitabile di cadere in errori ed eccessi. Dunque, violenza giusta non come categoria del diritto, al contrario, le cui condizioni storiche il diritto non può codificare, solo riconoscere a posteriori. Possono stabilirle, di volta in volta, soltanto le circostanze.

La forza, date certe circostanze, può giustamente ed efficacemente esercitarsi arrivando ai limiti della violenza e perfino oltrepassarli. Ma perché abbia senso discutere su questa tesi, giusta o sbagliata che sia, devo chiedermi se ho veramente la capacità di agire con tutta la forza potenzialmente mia, se ne dispongo effettivamente. Se non fosse così e se questo difetto di energia fosse diffuso, come temo, sarebbe ridicolo cercare un nuovo punto di leva, come voler saltare su un letto con le molle rotte. La predicazione antiviolenza, nella misura in cui esclude a priori l’idea di una violenza giusta, favorisce l’abdicazione ad agire, se necessario, con tutta la forza necessaria. E ciò si ripercuote sull’intelligenza delle persone: chi non usa la sua forza quando gli sarebbe utile e necessario, sembra stupido, ma chi vi ha rinunciato a priori, lo diventa realmente. Nessuno lo dice ma, secondo me, nell’appannarsi dell’intelligenza collettiva in questo nostro paese, non c’entra solo il consumismo e cose simili, ma anche la fine della sfida comunista che veicolava un’idea di violenza giusta, quella rivoluzionaria; poco importa qui il giudizio politico, sto parlando di dosaggi interiori.

Dicendo “tutta la forza necessaria”, intendo la duplice forza della consapevolezza (non il recriminare e lamentarsi ma vedere e rendersi conto fino in fondo) e del tirare le conseguenze pratiche e logiche, quelle che stanno nelle possibilità della persona che vede e si rende conto.

Era nelle possibilità delle forze di pace presenti nella ex Iugoslavia difendere i civili inermi che furono assassinati in massa a Srebrenica nel 1995. E invece che cosa hanno fatto i militari dell’Onu? Hanno aiutato a selezionare le vittime destinate al massacro: l’hanno fatto non per paura né per complicità ma per semplice stupidità, incapaci di percepire il mostro dell’odio che era davanti ai loro occhi.

Era nelle possibilità degli abitanti dell’Aquila impedire al capo del governo di fare della loro sventurata città la cornice massmediatica per la sua autopromozione. Sette volte il capo del governo è andato impunemente a fare passerella nella città distrutta dal terremoto. Se lo avessero mandato indietro a fischi e sassate, come si meritava, come si usava una volta, come chiedevano i loro morti, quelli uccisi dal crollo di edifici pubblici taroccati, nessuna polizia avrebbe osato picchiarli e arrestarli. E il loro centro storico, chissà, non sarebbe più il mucchio di macerie transennate che continua a essere.

I filosofi lamentano che confondiamo tra loro concetti diversi come potere, dominio, forza, violenza. D’accordo. Ma quando, per tutta risposta, si mettono a darci le loro accurate definizioni, vorrei dirgli: prima di ciò, dovreste indagare dove e come nasca la confusione. E chiedervi se per caso quella che appare una confusione non sia la manifestazione di qualcosa che fareste bene a guardare più da vicino. Rileggete quel capolavoro racchiuso in poche pagine che è L’Iliade poema della forza di Simone Weil. Sebbene forza e violenza siano fra loro ben diverse, separarle per definizione non fa che occultare un aspetto ineliminabile della realtà umana. Ci sono distanze e prossimità che non si stabiliscono verbalmente ma attivamente: la definizione giusta la troveremo alla luce di questo agire. Insomma, meno filosofia e più pratica.

Posted in Comunicazione, Critica femminista, Pensatoio, R-esistenze, Scritti critici.


One Response

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  1. Paolo84 says

    è interessante il discorso di Luisa Muraro, l’uso della violenza va maneggiato con molta cura..personalmente la violenza (e quando uso questo termine ho in mente qualcosa di molto più grave che bruciare qualche cassonetto o spaccare una vetrina o prendere a fischi e sputi e sassate il politico di turno) come mezzo di lotta politica mi pare controproducente (posso capirlo se devi lottare contro un regime totalitario tipo nazismo) e foriero di rischi.
    Che esista una violenza “giusta” non ho dubbi: è quella difensiva, che serve per bloccare altra e peggiore violenza, ma anche qua è un discorso complesso.
    Il problema semmai è che il potere sta deliberatamente allargando il campo di ciò che è considerato “violenza”: in Italia è “atto violento” persino contestare con fischi e pomodorate un politico, questo è secondo me è un fatto grave