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Il femminismo che Repubblica non può utilizzare

Di Anna Simone

Ancora Judith Butler? Sì e soprattutto adesso. Fa quasi impressione, infatti, il doppio scacco in cui è finito gran parte del femminismo italiano in questo periodo. O insegue Repubblica, o insegue Santoro. Due modalità di fare opposizione che attraverso l’’uso e la strumentalizzazione del corpo femminile tentano di mettere in scacco il re.

Eppure da anni gran parte del femminismo italiano, soprattutto quello di ultima generazione, tenta di spostarsi dal significante “donna” per denunciarne l’’impianto piatto, tendenzialmente identitario, costruito su modelli arcaici e “naturali” rispetto alle grandi mutazioni della contemporaneità. Nell’’operare questa critica e nel mettere a punto nuove pratiche in grado di analizzare a tutto tondo anche il contesto mediatico e socio-culturale nel quale siamo immerse, sono venute fuori almeno due letture importantissime e due modalità di agire il proprio corpo in questo mondo.

All’’indomani dell’’omicidio di Giovanna Reggiani, una grande manifestazione di femministe etero e non, riuscì a riprendersi la parola dopo la prima grande strumentalizzazione del corpo femminile messa a punto dai media per “legittimare” le ruspe in un campo rom alla periferia della capitale, nonché il primo tentativo di mettere a punto un pacchetto sicurezza tendenzialmente razzista da parte di Veltroni and company.

Il corpo di Giovanna fu strumentalizzato da tutti, anche e soprattutto da Repubblica (che tra l’’altro trattò malissimo anche la nostra manifestazione) per avviare quel terribile e lungo percorso che ha portato la gran parte dell’’opinione pubblica, financo quella più illuminata, ad avere paura degli immigrati considerandoli lombrosianamente una “specie” incline a delinquere.

E’ cominciata lì, anche a partire da Repubblica, la prima legittimazione di massa dell’’ideologia securitaria. Eppure allora il femminismo c’’era, era vivo e presente, ma non veniva ascoltato. Chissà perché, infatti, in questi giorni e nei mesi addietro tutti hanno parlato del silenzio delle donne. Di quale silenzio parlano?

La storia dell’’ultimo femminismo smentisce queste illazioni a pieno titolo. Però la domanda che alcuni quotidiani si pongono ci è anche utile per comprendere tante cose. Loro, evidentemente, ritengono parlanti solo “alcune” donne ed in particolare quelle che possono essere “usate” per costruire l’’ideologia anti-berlusconiana. L’’esito, però, è praticamente lo stesso. Prima si sono usate le donne per sdoganare il securitarismo, poi si sono usate nuovamente le donne per opporsi al presidente del consiglio.

E’ la guerra, come abbiamo tante volte scritto su queste pagine, tra poteri forti (De Benedetti contro Mediaset e Mediaset contro De Benedetti, la Rai lottizzata contro Mediaset e quest’’ultima contro Mediaset). Una guerra tra uomini e poteri che si consuma a pieno titolo sulla pelle e sui corpi delle donne.

Ha ragione Pia Covre (L’’Altro, 18 ottobre): siamo in pieno conservatorismo e regressione sul piano della libertà delle donne e sul piano della libertà sessuale. Come dicevamo, le due letture del femminismo contemporaneo, quello comunemente definito di terza generazione, sono andate e vanno in direzioni diversissime da quelle “usate” da Repubblica.

La critica del significante “donna” è sempre coincisa con un bisogno più ampio e più grande entro il quale collocare l’’azione politica ovvero la nostra parola oggi. Agire il femminismo qui e ora, infatti, significa intrecciare sessismo e razzismo, significa criticare la norma eterosessuale, significa abdicare dagli stereotipi costruiti ad hoc dalla sciagurata cultura che ci è caduta addosso come un macigno (la moglie tradita, l’’escort e la velina sono riproposizioni di un modello sociale aderente alle fiction e non alla realtà, un modello che elimina dalla scena pubblica centinaia di migliaia di istanze portate avanti da donne reali, precarie, colf e badanti etc.), significa mettersi in ascolto della parola delle innumerevoli vite precarie che popolano il nostro mondo, significa attenzione verso un processo di de-umanizzazione e di odio sociale attraverso cui si strutturano ormai la gran parte delle relazioni.

Significa, in poche parole, sottrarsi dalla logica secondo cui “ci fanno” parlare, significa evitare che anche il femminismo diventi un “dispositivo” ovvero un ordine discorsivo incuneato come non mai all’’interno del pericolosissimo reticolo tessuto dal potere mediatico e politico. Un politico che “produce” le donne per poi “usarle”.

E allora è meglio riflettere, leggere, studiare. Prendere le distanze da questo circo dei poteri. Due libri belli e importanti sono usciti proprio in questi giorni. Il primo è il famoso dialogo Butler-Spivak sulla crisi degli stati-nazionali, già sugli scaffali delle librerie statunitensi e francesi da almeno due anni (Che fine ha fatto lo Stato-nazione?, a cura di Ambra Pirri, Meltemi, pp. 92, euro 13). Il secondo, invece, è straordinario e decisivo per comprendere la relazione, i punti di intersezione e di frizione, che tanto hanno animato il dibattito femminista italiano in questi ultimi anni, tra il pensiero di Butler e quello di Adriana Cavarero, autrice di opere importantissime soprattutto dopo essere uscita da Diotima nel 1990, nonchè unica vera apripista del pensiero butleriano in Italia (Differenza e relazione. L’’ontologia dell’’umano nel pensiero di Judith Butler e Adriana Cavarero, a cura di Lorenzo Bernini e Olivia Guaraldo, Ombre corte, pp. 172, euro 16).

Butler-Spivak si incontrarono nel maggio del 2007, in pieno bushismo, per discutere assieme sullo “stato globale”, ovvero sulla crisi degli stati-nazionali cominciata a ridosso del processo di globalizzazione. Nonostante questa crisi sia stata spesso un grimaldello attraverso cui far passare politiche reazionarie tese a generare una dispotica riconfigurazione dei confini o una rinascita delle identità di appartenenza etniche, tanto quanto legate ad un nazionalismo di ritorno, rimane indiscutibile il dato secondo cui questo bisogno di reagire alla crisi degli stati-nazionali ha finora prodotto esclusione e morte. Specie se leggiamo questo falso movimento nell’’ottica del restringimento del “diritto ad avere diritti”, anziché nell’’ottica della necessità di implementare i diritti umani. Diritti, come sappiamo tutti, dal valore più simbolico che reale dal momento che non esistono istituzioni adeguate per attuarli.

Butler e Spivak si interrogano e dialogano a partire da posizionamenti differenti, eppure l’’esito appare interessantissimo. Intanto siamo dinanzi ad un’’interrogazione che agisce il femminismo nell’’ottica della comprensione di un contesto che “sposta” il sé sul piano della responsabilità politica nei confronti dell’’altro. Ed in particolare della condizione dei migranti e dei latinos negli Stati Uniti durante l’’atroce governo Bush. E’ proprio a partire dalla loro voce, dal loro incarnare in piazza bisogni e desideri, che diventa possibile per le due autrici la risignificazione politica del femminismo contemporaneo.

Attraverso una rilettura brillante del famoso saggio di Arendt del 1951, “Il tramonto dello stato nazionale e la fine dei diritti umani”, si ritematizza a tutto tondo la crisi degli stati-nazionali. Una crisi che diventa un’’opportunità rivoluzionaria e non reazionaria, reattiva, solo se si comprendono fino in fondo i processi di soggettivazione dei migranti. Il titolo originale del volumetto è “Who Sings the Nation-State?”, “Chi canta lo stato-nazione?”. Domanda curiosa che, secondo me, doveva restare tale anche nel titolo in italiano perché la risposta è il tema più forte e importante del volumetto in questione.

Lo stato-nazione in crisi di cui ci parlano le autrici parla e lo fa attraverso i canti dei latinos in una grandissima manifestazione voluta nell’’aprile del 2006. Questi cantavano l’’inno degli Stati-uniti in spagnolo dicendoci, con una forza simbolica enorme, che la lingua-madre non è sinonimo di appartenenza ad una nazione. Quest’’ultima, infatti, per dirla con Butler, nasce come dispositivo di potere, produce forme di appartenenza che sono “performative”, pure fiction a cui sottostare. Il canto dei latinos, invece, ci dice tutt’’altro. Ci dice che non esistono “soggetti” precostituiti, ma soggettività posizionate in continua trasformazione che risignificano la crisi politica della contemporaneità proponendoci un altro sguardo ed un’’altra interpretazione del mondo al di là di assetti e riassetti del potere.

Altrettanto forte e importante è il messaggio teorico-politico leggibile tra le righe di “Differenza e Relazione”, l’’opera curata da Olivia Guaraldo e da Lorenzo Bernini per Ombre Corte. I curatori del volume si cimentano con un argomento difficile e spinoso ovvero sia sul dialogo tra Butler e Adriana Cavarero, pensatrice “diversa” della differenza sessuale. Così diverse eppure così accomunate da un principio di fondo: mettere a tema la crisi del soggetto per riconfigurare una nuova etica pubblica tesa alla rielaborazione di un’’idea di umanità in grado di mettere in scacco la violenza e la recrudescenza del potere.

Come scrive brillantemente Olivia Guaraldo nell’’introduzione al volume: «Il femminismo, in questo senso, non è più il discorso sulle donne/delle donne, ma diviene lo strumento attraverso il quale la critica al soggetto e alla metafisica acquisisce tratti teoreticamente più completi e politicamente più efficaci».

Il volume fa emergere assai bene i due blocchi teorici entro i quali si è andato configurando il pensiero femminista negli ultimi anni. Uno propenso a valorizzare la differenza sessuale sui temi della cura, del materno e della relazione; un altro che, a partire da Simone de Beauvoir sino a Butler, non ha mai abbandonato la tesi della subalternità del “femminile” alla natura prima e alla cultura poi. Filone nel quale sono leggibili anche i testi di Lea Melandri.

Nonostante i due filoni di “appartenenza” differenti, Butler e Cavarero si incontrano, soprattutto sui concetti di umano, etica e vulnerabilità, perché entrambe “eccedono” le rispettive provenienze dando vita, così, alla necessità di pluralizzare il femminismo. Accettare i femminismi e non “il femminismo” in tutta la sua carica egemonica significa, oggi più che mai, porre al centro la relazione nonché la “politica di concerto”, la possibilità di stare insieme evitando di dogmatizzarsi all’interno di un ordine del discorso che fa del femminismo stesso un dispositivo di potere.

Il libro contiene anche un dialogo tra Cavarero e Butler su “Condizione umana contro natura”, già pubblicato da Micro Mega, uno straordinario glossario per orientarsi con termini come agency, binarismo sessuale, gender, unicità incarnate, drag, dispositivo di sessualità, eterosessualità obbligatoria, interesessualità, queer, transgenderismo etc, nonché una bibliografia completa di Butler e Cavarero. Insomma è davvero giunto il tempo di voltare pagina.

Di rifiutare qualsiasi processo di egemonizzazione e di strumentalizzazione del corpo femminile e dei femminismi, soprattutto quando sono proprio questi ultimi a rifiutare la complessità ed il pluralismo del presente. Quando, cioè, diventano essi stessi dei dispositivi di potere.

da: (L’’Altro, 21 ottobre) 

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