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Pubblichiamo la traduzione dell’articolo The Gendered Body Public: Egypt, Sexual Violence and Revolution realizzata da Francesca Zampagni (grazie mille!) che ci ha segnalato questo testo molto interessante. Pubblicato il 28 gennaio su jadaliyya.com, il pezzo di Maya Mikdashi è una amplia riflessione sul fenomeno degli stupri di massa contro le manifestanti di Piazza Tahrir e dei danni della politica che non tiene conto delle differenze di genere nelle rivoluzioni arabe e non solo.
Buona lettura!
Il Corpo Genderizzato in Pubblico: Egitto, Violenza Sessuale e Rivoluzione
di Maya Mikdashi
Dobbiamo riconoscere, trattare, e affrontare la violenza sessuale che ha avuto, ha, e avrà luogo in e attorno a Piazza Tahrir. Come affrontare un impegno simile in maniera etica e responsabile, che sia solidale con le continue (e multiple) rivoluzioni in Egitto? Come mantenere e rispettare la complessità politica, economica e sociale di fronte agli orrori di uno stupro pubblico e di massa?
Come scrivere, quando tutto ciò che vorresti fare è gridare?
Venerdì 25 Gennaio 2013 è stato il secondo anniversario dello scoppio della rivoluzione egiziana. La rivoluzione continua tuttora , i manifestanti fronteggiano gli alleati del governo e le sue truppe in tutto l’Egitto. Corpi vengono feriti, insanguinati, e uccisi. Pietre vengono lanciate, proiettili sparati, bottiglie frantumate. Stiamo imparando, ancora una volta, che la violenza è sempre plurale e di diverso peso. Quelli nelle prime linee, i fragili e i giovani sono più vulnerabili a quei gas che bruciano gli occhi, quei manganelli che spezzano le ossa, e quegli stivali che prendono a calci la carne. Le manifestanti sono ancor più vulnerabili alle molteplici violenze della rivoluzione, della protesta, della repressione. Le donne sono più vulnerabili alla violenza in tempi di pace e stabilità, indipendentemente da chi sta al potere.
Le manifestanti sono state picchiate, trascinate lungo le strade, gli hanno sparato contro insieme ai loro compagni manifestanti. Sono state imprigionate, fatte scomparire e represse così brutalmente come i loro compagni maschi. Sono state schiacciate, afferrate, e molestate sia dai sostenitori del regime sia dai loro alleati politici a Tahrir. Sono state spogliate e sono state violentate, negli uffici della polizia e dei medici, e negli spazi pubblici. Le loro vagine, ani e seni, quegli organi che le caratterizzano come donne, sono stati presi di mira e violati da individui e gruppi di uomini appartenenti a qualsiasi delle fazioni politiche egiziane. Tristemente, questo fatto – e precisamente che la violenza e lo stupro di una donna sorpassi le divisioni politiche – non ci sciocca.
La quotidiana possibilità di molestie sessuali, aggressioni e repressione forma, in gran parte, i(l) soggetto(i) politico femminile nell’epoca dello stato moderno. Le aggressioni pubbliche al Cairo, gli stupri pubblici di massa in India, e il fatto che ogni due minuti una donna è aggredita sessualmente negli Stati Uniti sono solo amplificazioni ed esempi spettacolari della violenza sessuale che donne e ragazze affrontano al di là delle differenze nazionali, culturali, religiose, ed economiche; in pace e in guerra.
E’ triste ma non sorprende il silenzio su tali dinamiche di genere nella copertura mediatica sul secondo anniversario della rivoluzione egiziana. Dovrebbe essere chiaro che Tahrir è uno spazio discriminatamente “genderizzato”. E nonostante gli sforzi per contrastare questa tendenza, la maggior parte delle analisi è sordamente silenziosa sulla violenza di questo processo.
De-genderizzare Tahrir, la piazza, i manifestanti, è depoliticizzare la rivoluzione stessa.
In maniera simile questo è il caso di rivolte e sollevamenti nel mondo arabo e oltre. Non possiamo continuare a negare che uomini e donne e ragazzi e ragazze affrontano quotidianamente diversi gradi di violenza e vulnerabilità nelle strade di Homs [Siria, NdT] o in un campo profughi in Giordania. De-genderizzare le rivolte siriane significa depoliticizzare i suoi costi, le persone che le intraprendono e le tattiche usate da loro e dallo stato.
Non esiste un manifestante o un corpo di manifestanti universale, senza genere, senza classe, anonimo. E tuttavia, scrivere degli stupri in Siria, della violenza sessuale in Egitto è in qualche modo una “questione sociale” e, deviata verso quei contenitori chiamati “gender studies”, “questioni femminili”, “dinamiche socio-culturali”, vanno a finire comodamente fuori dalla politica.
Non possiamo più permetterci un tale lusso.
Questo lusso non è etico. Impone limiti analitici alla stessa possibilità di comprendere le diverse e continue lotte per il cambiamento a cui stiamo assistendo oggi. Rinforza una realtà di lunga data nella quale gli agenti del potere si impossessano, controllano e limitano le lotte per l’eguaglianza di genere classificandole nelle categorie residuali dell’ “empowerment” e della “partecipazione” delle donne. Questa riduzione pretende di offrire una soluzione facile alla violenza di genere e alla diseguaglianza – ossia che queste semplicemente si dissolverebbero se, per esempio, più donne esercitassero il loro diritto di voto o entrassero in parlamento.
In Egitto, è questa biforcazione del “sociale” dal “politico” che ha permesso ai sostenitori di Mubarak, ai funzionari, e ai Fratelli, così come ai loro alleati regionali e internazionali, di fissare i termini della lotta per l’uguaglianza di genere.
Questi termini – le quote di genere per parlamento e governo, le leggi sulla famiglia e il controllo delle nascite – tacciono sul tremendo bisogno di un significativo cambiamento sociale e politico. Sono queste false dicotomie tra genere e politica, l’economico e il culturale, che continueranno ad impedire la possibilità di una vera rivoluzione in Egitto e non solo.
Non è possibile scrivere il politico senza iniziare con la pluralità, senza molteplici ferite, senza i corpi e gli organi che li segnano con differenza dai regimi interconnesi di potere.
Non è possibile scrivere il politico senza scrivere del corpo; il corpo stesso è sia un mezzo che l’obiettivo primo della politica moderna e dell‘intervento dello stato. Il genere e il sesso sono un prodotto di tale intervento e della regolamentazione del corpo attraverso l’intersezione di pratiche statali, economiche, storiche e culturali. Non possiamo avvicinarci alla politica o alla rivoluzione senza un focus sul corpo. Non possiamo avvicinarci al corpo senza pensare attraverso il sesso e il genere.
Analisti e giornalisti che scrivono sulla crisi dei profughi siriani o sui manifestanti egiziani e che usano la voce singolare stanno facendo una scelta.
Scelgono di aggiungere un universale che non esiste. Questa scelta è un atto politico. La voce singolare è dovuta a ignoranza, e se sì, si può leggere l’ignoranza come un atto politico? Sarebbe anche possibile scrivere in tre dimensioni? E se non lo fosse, dovremmo smettere di provarci?
La voglia di mettere in evidenza un fattore piuttosto che un altro quando pensiamo alla violenza sessuale in un contesto particolare, è allettante; è: o la cultura, o la storia, o l’imperialismo, o, più in generale, il patriarcato. E’ più difficile, e contribuisce meno all’azione, soffermarsi sull’ambiguità, sulla contingenza, e sui modi in cui questi e altri fattori si intrecciano (spesso nervosamente) in ogni atto di violenza sessuale – un aspetto difficile da gestire ma costitutivo della violenza politica. Eppure, semplificare la violenza sessuale – considerandola una questione femminile o sociale – è depoliticizzarla. De-genderizzare le rivolte è depoliticizzare. Si tratta di riproporre un universale non delineato – “il cittadino” o “il manifestante” – una posizione di soggetto mitico che non riesce a cogliere la complessità della vita politica in un’epoca di governamentalità e biopolitica.
Ma c’è un utilità in questa analisi quando vorresti solo urlare leggendo di una manifestante spogliata, stuprata e inseguita per le strade dai manifestanti maschi, gli alleati del regime e semplici spettatori di Piazza Tahrir, un luogo venuto a rappresentare la rivoluzione, e l’entusiasmo rivoluzionario, a livello internazionale?
*L’articolo è in gran parte scaturito da conversazioni e approndimenti con Hesham Sallam.
Sullo stesso tema leggi anche:
I nostri corpi non sono campi di battaglia!
Giù le mani dalle donne e da Piazza Tahrir, Osservatorio Iraq
Stuprata nell’indifferenza di Tahrir, La Stampa 31/01/2013
Vergogna a Piazza Tahrir, Huffington Post 28/01/2013
Gli stupri di Piazza Tahrir, Internazionale
Continua la battaglia delle donne contro le violenze sessuali, Osservatorio Iraq
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