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Riflessioni su alcuni termini-mantra del periodo elettorale

Nel periodo delle elezioni tutt@ coloro che hanno intenzione di votare chiedono ai propri rappresentati di esprimersi sulle tematiche a loro più care. Da anarcofemminista non credo nelle rappresentanze e quindi preferisco prendere ciò che mi spetta senza passare attraverso il consenso del capo di turno o della “legalità”. Quello che è accaduto in questo periodo dovrebbe farci riflettere molto sul tema della “giustizia” e sui “tutori” ma forse non è così per tutt@.

Ho letto un po’ di programmi, ho ascoltato alcune dichiarazioni e la prima cosa che ho pensato è che siamo alle solite buffonate, alle promesse di miglioramento che puzzano di securitarismo e giustizialismo, soprattutto rispetto ai temi come quello della violenza sulle donne. A parole sono tutt@ contro il femminicidio, tutt@ per la lotta alla discriminazione, tutt@ per le pari opportunità. Eppure, nei loro discorsi, di qualunque fazione siano, ricorrono gli stessi termini: donne italiane, pene più severe, tutela ed emancipazione. Non so voi, ma io rabbrividisco, e non è per il freddo.

Analizziamole insieme queste parole, perché vorrei potervi dire che sono belle, che sono “buoni propositi”, ma non è così e bisogna che qualcun@ lo dica:

– “Donne italiane” è un’espressione che odio, perché odio il nazionalismo, odio l’orgoglio per il proprio popolo, per l’inno nazionale e per quella bandiera che non significa nulla. Odio pensare che, il sangue su cui è stata costruita l’Italia, sia stato cancellato dalle memorie tanto che oggi se ne festeggiano con allegria i 150 anni. Parlare di donne italiane vuol dire cancellare tutte quelle che non sono italiane, che non hanno la cittadinanza perché gli viene negata. Parlare di donne italiane vuol dire alimentare l’idea che i diritti siano dovuti solo a chi è italiana e non a tutte le donne. Vuol dire affermare che in Italia le milioni di immigrate che vi ci vivono sono buone solo quando contribuiscono, con il loro lavoro sottopagato, con il loro sfruttamento, a riempire le casse dello Stato e a sollevare noi, donne italiche, dai compiti di cameriera/badante. Le immigrate sono buone solo quando puliscono i culi dei nostri anziani, quando ci rassettano casa, quando badano ai bambini, quando sono vittime della tratta e possiamo strumentalizzarle per qualche corteo antiprostituzione, nel quale però la loro partecipazione è nulla. Noi parliamo per loro ma non le interpelliamo, non gli chiediamo se i nostri metodi sono giusti, se quello è il miglior modo di aiutarle. Fare appello alle donne italiche vuol dire anche lasciare sole tutte quelle persone che marciscono nei CIE perché non sono italiane. Non so se vi accorgete che quell’aggettivo “italiane” porta con sè una serie di significati negativi che alimentano e alimenteranno sempre azioni, norme, leggi razziste. Il problema però è anche in quel nome, “donna”. Chi è donna? Cos’è donna? Ditemelo, perché io non lo so. Per me donna è chiunque voglia sentirsi tale, che sia nat@ con o senza fica. Le trans per me sono donne e non me ne frega nulla che sul loro documento ciò non venga riconosciuto, perché loro sono donne che lo Stato glielo riconosca o meno. Sono donne sia quando hanno completato il loro percorso e si sono operate ai genitali sia quando non l’hanno fatto. L’avere il cazzo tra le gambe quando ti senti donna non ti rende meno donna. Donne sono le lesbiche e le bisex, sono tutte quelle soggettività che vivono una sessualità non etero. Donna è anche l’etero. Donna è la madre e chi non vuole esserlo, o chi non può, o chi può ma invece che partorire vuole adottare. Donna è la puttana che mi insegna a rispettare tutte le scelte e a non stare al gioco delle dicotomie maschiliste. Donna quindi è molto di più della bianca/etero/italiana/madre a cui si fa riferimento.

– La richiesta di pene più severe invece non può che rievocarci l’idea di una sicurezza basata sulla punizione. Come dicevano i più grandi dittatori “puniscine uno per educarli tutt@”. Lo sanno bene i/le compagn@ condannat@ per il G8, o quelli condannati a 6 anni per una vetrina rotta a piazza San Giovanni, o quell@ accusati di “resistenza al pubblico ufficiale”. Lo sanno bene i/le No Tav, continuamente soggetti a controlli/perquisizioni/arresti da parte della polizia. Lo sanno bene tutt@ quell@ che lottano, perché si sono rott@ di chiedere ai potenti ciò che gli spetta. Chiedere pene più severe vuol dire alimentare il securitarismo, il giustizialismo, quella cultura che reprime ogni azione che tende alla libertà. Mi chiedo quando queste punizioni abbiano dimostrato la loro efficacia? Sono secoli che ogni sorta di governo/dittatura/monarchia usa lo stesso, vecchio e fascio, metodo della punizione. Cosa è cambiato? Le violenze sono mai finite? A me sembra di no, e forse questo fallimento dovrebbe insegnarci qualcosa, forse a cambiare rotta. Non vi è mai passato per la testa che la soluzione sia la prevenzione? E il cambio di cultura che deve necessariamente passare per un abbandono di certi metodi fascisti?

– Se si parla di sicurezza non si possono non menzionare i tutori. Vi invito a leggere un post che abbiamo pubblicato settimana scorsa e intanto vi chiedo cosa sia per voi l’autodeterminazione. Perché la possibilità di scelta cozza con la figura del tutore, che come tale sceglie per l’ipotetica “vittima”. Chiedere tutori vuol dire imporre alle donne il ruolo della vittima, vuol dire privarle di qualunque possibilità di azione che non sia passiva, vuol dire renderle delle minorate. I tutori sarebbero coloro che hanno il compito di “proteggere” le donne solo quando esse sono rispettose dei loro ruoli, perché durante le manifestazioni mai questi tutori rispettano l’autodeterminazione delle donne. Chiedetelo anche alle prostitute o alle trans se questi tutori le tutelano. Chiedetelo alle immigrate che vengono prelevate e portate nei CIE, dove subiscono abusi di ogni sorta, e se denunciano non vengono credute. Chiedeteglielo se vogliono più tutori. Io non so se vi rendete conto che questa strada già l’abbiamo percorsa, che continuiamo ciecamente a sbattere la testa contro un muro che non ci ha mai rese sicure, anzi, ci limita e ci limiterà ogni sacrosanto giorno.

– Infine, arriva l’espressione che più mi fa rabbia: l’emancipazione. Ve lo dico da subito, io non voglio emanciparmi, io voglio esser libera. L’emancipazione che cos’è se non lo stare alle regole del sistema attuale e cercare di sfruttarle per arraffarsi una propria parte di potere/gloria? Quando parlate di emancipazione non so se vi rendete conto che state rinsaldando il sistema che ci rende schiav@. Il capitalismo ce lo avete presente o no? Vi fa schifo o no? La liberazione dovrebbe, almeno per me, passare anche attraverso un percorso anticapitalista, perché pensare di aver raggiunto una qualche vittoria vedendo più donne nelle banche, nei posti dell’alta finanza a me sembra una mostruosità. Sapete che l’economia mondiale si basa sullo sfruttamento di esseri umani? Io me lo continuo a chiedere perchè mi sembra folle chiedere di poter far parte di un sistema così orribile, dove la violenza è lo strumento principale. Quando sento che anche alle donne è permesso di entrare nell’esercito, quando anche le donne possono partecipare al massacro che chiamano guerra, e lo propongono come qualche vittoria, io mi gelo e sì, piango, perché fa male pensare che questa sia l’unica cosa a cui poter aspirare. Vogliamo davvero lottare per arraffarci i posti di potere? Davvero per qualcuno passare dall’esser subordinat@ a carnefice è la soluzione? Io non ce la faccio a pensarla così, i miei esempi, le donne che amo e che stimo sono altre. Sono le compagne che occupano/liberano i luoghi, per permettersi e permettere ad altr@ un tetto sulla testa, che lavorano sodo per aprire sportelli antiviolenza autogestiti, che si fanno in quattro per creare eventi autofinanziati, che senza conoscermi e senza chiedermi alcuna “quota d’iscrizione” mi hanno aperto le porte delle loro case, virtuali o reali che siano, e nel farlo non mi hanno mai dettato termini/modi o pratiche. Sono le donne che lottano per i propri territori, per liberarli dall’immondizia, dall’ennesimo inceneritore o da un progetto folle come la TAV. Sono le donne che fanno radio indipendenti e che mi hanno sempre aperto i microfoni, senza chiedermi titoli o attestati. Le compagne che fanno postporno e che provano ad intessere un discorso sempre più complesso sul corpo/sessualità/libertà/generi/immaginario ed ect. Le donne che vivono la loro sessualità in modo realmente libero, alle trans che mi insegnano il coraggio di lottare per rivendicare ciò che si è e che mi fanno sentire meno sola in questa battaglia. Le donne che lottano contro lo sfruttamento e l’uccisione degli animali, che ci ricordano ogni giorno che noi non siamo i padroni nè della terra né degli altri suoi abitanti. Le compagne che lavorano con i/le migrant@, quelle che la sera dell’8 marzo distribuiscono preservativi tra le trans che si prostituiscono, quelle che si battono affinchè la lotta sia sempre intersezionale e postcoloniale. A tutte le donne che mai e poi mai chiederanno un pezzo di questa torta che chiamano sistema capitalistico ma che lottano per dimostrare che altri modi di vita e relazione sono possibili. A tutte queste donne, compagne, sorelle, non importa l’emancipazione secondo le regole di un sistema malato, non importa chiedere ai poteri quei diritti che sanno essergli dovuti, loro se li prendono e lottano per l’autonomia e la libertà di tutt@.

Ed è con questa carrellata di bellezza che voglio concludere, perché per me la lotta è questo, per me la libertà e l’autonomia sono possibili solo se la si smette di invoca sicurezza e tutoraggio. Grazie a tutte voi per la forza che mi/ci date.

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