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Genova non finisce. Quanto vale una vita? E un bancomat?

Sul capitolo delle memorie collettive. Da Just Laurè:

Genova 2001.

Avevo 20 anni, i capelli rasati e svariati piercing ai lobi delle orecchie. Uno per ogni cosa importante che volevo ricordare.

Luglio 2001.

Genova l’ho vista attraverso i giornali e le immagini che le tv sparavano addosso a noi gente “perbene” rimasta a casa ad aspettare che qualcun altro decidesse al posto nostro.

Genova non l’ho capita subito.

L’ho metabolizzata lentamente, negli anni successivi, quando la rabbia per il sangue di ragazzi devastati – loro sì – dai manganelli dello Stato s’è messa un po’ a tacere, lasciando il posto alla necessità di conoscere, di guardare, con gli occhi sgombri dalle lacrime, i percorsi di costruzione di un modo collettivo d’interpretare il mondo.

Genova l’ho vissuta dopo … nelle parole tremanti e amare delle persone che ho incontrato quando ho capito che nessun libro, nessun video, nessun articolo m’avrebbe dato la misura della tragedia di quei giorni.

Genova l’ho rivista a Roma, a Firenze, a Reggio Emilia, a Torino, a Messina, a Cosenza nelle case dei ragazzi che mi hanno ospitato e, davanti ad un caffè, hanno aperto i loro ricordi, annegando le ferite nella surreale consapevolezza di quanto accaduto.

Il “sogno” che muoveva quella marea umana nelle strade di Genova l’ho provato insieme a loro nei gesti e nella scelta di spazi di quotidianità realmente “altra”, nel rifiuto della retorica dell’alternativa, nella concretezza del pensiero agito.

Il “nemico” che muoveva quella marea umana nelle strade di Genova l’ho subito sulla mia pelle, nel mio destino irregolare definito dalle singole note slegate di un precarietà che non può rivelare alcuna armonia.

Dopo Genova può accadere di non trovare più il modo di mettere a tacere una certa rabbia che anzi si rinnova e si ribella di fronte a sentenze che permettono a degli uomini dello Stato di non subire alcuna conseguenza per aver devastato – e ripeto: sì, loro sì – le vite di gente che dormiva (la peggiore delle attività sovversive dell’ordine dello Stato) e che, nello stesso tempo, priva della propria libertà 4 persone che, dicono, abbiano mandato in frantumi le vetrine di alcune banche, attentando così alla sicurezza del paese.

Dopo Genova può accadere di sentirsi impotenti di fronte a qualcosa che hai la sensazione di non poter controllare mai, può succedere di sentirti consumato dall’incapacità di comprendere perché sia così complicato ammettere che la finanza mondiale decide delle nostre vite e determina la nostra morte, se non quella fisica, di certo quella del pensiero. Ché un pensiero racchiuso fra le sbarre di una galera o fra le cuffie di un call center è un pensiero moribondo. Dopo Genova può accadere d’essere ancora più arrabbiato di prima e di non sapere più dimenticare quelle parole, quelle immagini, quel black out d’umanità.

Sono passati 11 anni, ho più capelli intesta, molta rabbia in corpo. Ho un piercing in più. “La memoria non si cancella”.

P.s. Grazie ad Alberto C., Alberto Z., Monica, Daniela, Gualtiero, Luca, Donata, Gabriele, Andrea per avermi spiegato la loro “Genova”. Grazie a chi, in quei giorni, c’era anche perchè io potessi vivere in un posto migliore.

Leggi anche: Genova non finisce. I nostri pensieri sono liberi

Posted in Memorie collettive, Omicidi sociali, R-esistenze.