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#15ott: Media, linguaggi e le donne

Ieri circolava un’intervista del Fatto Quotidiano dove una persona spiegava le ragioni del dissenso interno al movimento. Di questo, lette due o tre cose che con chiarezza sono state condivise sul web, avevamo scritto anche noi. E quello che viene fuori è una cosa che è chiara a tutt*. A prescindere da come la pensiamo, e in questo momento non pensiamo e ci limitiamo a documentare una memoria collettiva che è indispensabile affinché tutto quello che è successo non diventi oggetto di rimozione, sembrerebbe che vi sia chi reputa opportuno delegare alla “giustizia” la incapacità di dialogo tra diverse componenti del movimento così come c’è chi impone pratiche non condivise per xy motivi.

In ogni caso la legittimazione palese alla caccia all’uomo fatta in modo indiscriminato, alla repressione che si abbatte su chiunque, giusto perché appartieni a quella o quell’altra area, o giusto perché hai scritto sul tuo sito che quella tal cosa la condividi e quell’altra no, è un punto di non ritorno. Difficile coesistere con chi collabora la repressione contro gente che non ha lavoro, che è in cassa integrazione, che tira a campare. Troppo difficile. Il movimento non è un movimento e le varie anime che lo popolano, svezzati da forcaioli e giustizialisti, non rappresentano soggetti che vivono sulla propria pelle il disagio sociale ed economico che ci sta massacrando. Come un punto di non ritorno sia il fatto che a quotidiani come la Repubblica, cosa di cui noi abbiamo sempre discusso, sia delegata oggi la raccolta delle firme indignate delle donne antiberlusconiane e domani le foto per individuare i “violenti”.

Se poi c’è chi crede allo scoop in stile “Lucignolo” sul terribile barricadero, black bloc che si lascia intervistare, possibilmente con foto, e rivela dettagli sulla sua vita nella scolaresca a lezione di riots in grecia lasciando al giornalista pure il suo numero di telefono, intervista pubblicata su Repubblica, bhé per quello ci sono altri luoghi di disintossicazione da media mainstream che non stiamo qui ad elencare.

In generale penso che un buon lavoro sulla comunicazione, sull’uso del linguaggio e sulla interpretazione di certe dinamiche fatta a priori può aiutare più di una manifestazione di piazza per tentare di realizzare una rivoluzione che non sia codificabile, strumentalizzabile e che abbia un effetto di contaminazione maggiore rispetto ai sistemi da sempre utilizzati.

Noi proseguiremo a raccogliere racconti e analisi sulla giornata del 15 ottobre perché ci sembra cruciale il fatto che stavolta se ne parli insieme, in un bel dibattito corposo in cui si discuta di voi/noi/essi che diventi esperienza da trasmettere a chi verrà e a chi è oggi, in attesa di rimettere assieme i pezzi di tanti splendidi interventi che sono stati fatti tra i commenti dei post e nella mailing list vi segnaliamo un ulteriore discussione, bella e interessante che si tiene sul blog di Loredana Lipperini e che monitoriamo per farlo diventare un altro pezzo del puzzle.

Perché da più parti si è detto che il ruolo delle donne in questa manifestazione sia stato marginale, chi c’era dice che erano in poche ad aver partecipato e non in quanto rioters ma come persone intrappolate che talvolta si sono difese. Altre persone dicono che invece le donne, nel loro pieno diritto di esprimere la rabbia comunque rappresentano una modalità propria, autonoma e indipendente di essere attive sulla piazza. Che non è vero che non reagiscano o che non rivendichino un proprio percorso di resistenza.

Qualcuno le definisce “violente”, maschilisti ne approfittano per fiondarsi tra i commenti della Lipperini e postare i soliti link lagnosi in cui si parla di donne che molestano i maschi, io mi ricordo i vari riferimenti pieni di giubilo al coraggio delle donne marocchine, tunisine, egiziane, quelle belle ragazze dell’iran con le pietre in mano e i nastri verdi. Su una di quelle donne in piazza saviano fece perfino uno spettacolo teatrale perché ella combatteva per la libertà. Qui invece per cosa combattono ‘ste donne? Per la schiavitù?

Non sono donne che aspirano a essere libere? A uscire dalla precarietà? Donne che non ce la fanno più ad essere molestate, ricattate, a faticare come schiave, a fare due o tre lavori per sopravvivere, sempre con il ricatto di dover tornare dai genitori o di dover soccombere ad una relazione solo per poter avere un tetto sulla testa. Donne che non hanno soldi per mantenere un figlio e che se sono incinta vengono massacrate da ogni punto di vista e quelle che non lo sono vengono criminalizzate e bloccate mentre tentano di usare la contraccezione d’emergenza perché lo stato ci vuole gravide e comunque passive. Mai arrabbiate. Mai reattive. Mai in grado di determinare un proprio percorso, fosse pure di ribellione a qualunque forma di claustrofobia.

Giusto o sbagliato non è questo il punto e fa bene Loredana Lipperini a opporsi alla Terragni che parla delle donne come se non fossero in grado di esprimere rabbia mai. Perché non è così e dirlo significa condannarci al ruolo “femminile” e “madonnesco” che tentiamo di toglierci di dosso.

Non siamo sante e non siamo puttane. Siamo donne, persone e le ragazze che si incazzano e agiscono in modi di vario tipo sono diverse da altre donne che non la pensano così ma non sono “anomale”. Sono altro da. Bisogna parlarne e cogliere le modalità di reazione come elementi di cui tenere conto. Elementi autonomi che non implicano l’imitazione di modelli maschili ma c’entrano con rivendicazioni proprie, soggettive, delle donne.

Anche di questo nella nostra mailing list si sta parlando e presto riassumeremo la discussione in modo da rendervi tutti partecipi. Per ora continuiamo a postarvi contributi.

Posted in Anti-Fem/Machism, Comunicazione, Critica femminista, Memorie collettive, Pensatoio, Precarietà, R-esistenze, Scritti critici.


One Response

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  1. Giorgia - Vita da streghe says

    Bellissimo post. Una discussione interessante.