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Maledetta pedofilia – III^

http://femminismo-a-sud.noblogs.org/gallery/77/130855-SI.jpg

Al governo hanno un bel po’ di senso dell’umorismo. Stanno pensando di ratificare (perchè obbligati) le decisioni di varie corti che hanno sentenziato a proposito della necessità di smetterla con questa storia del padre che riconosce il figlio dandogli il cognome. La madre deve poter mettere il cognome ai suoi figli.

La avvocata onorevole Bongiorno si fa venire un colpo di genio e decide che l’alternanza tra cognome materno, quello paterno, o tutti e due non va bene. Meglio stabilire un obbligo. Tanto per tenere salda l’abitudine a pensare al padre come unico dispensatore di cognomi e affidare alla madre la concessione di vedere il suo cognome indissolubilmente legato a quello dell’uomo con cui ha fatto un figlio.

L’obbligo consisterebbe nel mettere entrambi i cognomi in un ordine che decideranno i genitori e che rimarrà lo stesso per tutti i figli a venire. Se i genitori non decidono l’ordine allora si farà seguendo l’alfabeto.

Trovo tutto ciò molto buffo e abbastanza paraculo. In spagna vige la stessa regola ma ha origini differenti. C’era la necessità, pare, di citare tutti i casati e il risultato era di soggetti di terza, quarta generazione che – come in alcuni paesi della america latina ancora accade – avevano svariati cognomi.

Vi spiego: c’e’ un giuseppe monti valli che fa un figlio con rosaria laghi fiumi. Lo chiameranno rocco e di cognome farà monti valli laghi fiumi. Se il signor rocco farà un figlio con la signora concetta cielo bosco mare sentiero: il loro bambino avrà un cognome che sembrerà una mappa del tesoro e una carta d’identità formato lenzuolo.

Provate a pensarci e divertitevi a fare le combinazioni. Poi pensate al fatto che questo governo rimanda ancora una volta una decisione sacrosanta e invece che lasciare libertà di scelta sul cognome da mettere decide di rendere "obbligatoria" (parola fascista e prevedibile e ricorrente per questo governo fascista) la attribuzione del doppio cognome.

Questo che vuol dire? Significa che i figli con un solo cognome, di madre, ancora si porteranno addosso l’onta di essere figli di "nn", illegittimi, come li chiamavano una volta, e che le donne che li partoriscono sono – vediamo se indovinate? – abbastanza puttane.

Imporre l’obbligo del doppio cognome con l’unica delega a decidere l’ordine dei cognomi da attribuire (grazie per la concessione!) significa spostare all’interno della coppia, dei genitori, dei donatori di ovuli e spermatozoi, la decisione dell’ordine di importanza del ruolo familiare.

Cosa pensate che accadrà? Che le donne concederanno che il cognome paterno sia il primo e che gli uomini lo pretenderanno.

Tutto ciò a fronte del fatto che stanno pensando di rimettere mano al diritto familiare e che – secondo dichiarazioni fatte a "porta a porta" – secondo alcuni esponenti del centro destra bisognerebbe ripristinare la figura del capo famiglia (il pater familias, quello con lo ius corrigendi).

Vi riassumo la discussione che ho seguito con tanto di assistente a bordo divano che mi guardava stralunat@ dicendomi: la stiamo perdendo, la stiamo perdendo. Nel frattempo tentava di rianimarmi e mi spronava a "resistere" (su, puoi farcela, se non conosci il tuo nemico non puoi combatterlo!).

Soliti ospiti, attaccapanni del pd, vestito buono del pdl, esperto in diritto, un signore di save the children, l’immancabile psichiatra crepet…

Parlano di bambini, di schiaffi da dare, save the children parla del fatto che ancora esiste la possibilità di picchiare in famiglia, l’esperto di diritto parla di "abusi di sistemi di correzione" (esistono ancora i sistemi di correzione in famiglia???) e alla proposta di chiarire nella legge che in famiglia le percosse non devono essere tollerate egli dice che la legge non dovrebbe toccare la sfera privata ma solo lambirla.

Per inciso, questo è il motivo per cui le mogli e le figlie possono essere picchiate e stuprate dal marito e padre senza che nessuno ritenga di dover intervenire. Si tratta di una mentalità che tutela i carnefici e stabilisce che in famiglia il padre padrone è quello che comanda. Nessuno, in teoria, potrebbe interferire.

Si parla del fatto che i figli oggi sono molto disobbedienti e che pretendono di acquistare di tutto. Sicchè interviene Crepet che dall’alto della sua somma sapienza da portiere di condominio decide che il problema è la mamma. Già. Se la mamma fosse meno "permissiva" i figli sarebbero abituati ad affrontare questo tempo di austerità. La mamma deve "saper dire" di no ai figli che insistono per chiedere l’acquisto di qualcosa. 

Il pensiero va immediatamente alla nuova pubblicità della coca cola dove si affida alla voce di una bambina la dichiarazione di austerità anticrisi. La bambina rinuncia a pranzi di gala e preferisce il ragu’ della mamma, rinuncia a uscire la sera e sta in casa a divertirsi con la famiglia. Rinuncia al superfluo per restare in casa a bere coca cola.

http://www.youtube.com/watch?v=feoWIn-DhTU

Le mani delle corporation sui bambini
Di Joel Bakan

Il Children’s Festival [Festival dei Bambini] che si svolge ogni anno a Vancouver un tempo era un’oasi protetta dall’invasione degli sponsor. Così rimasi sconcertato quando, tornatoci di recente in compagnia di mio figlio, mi trovai di fronte quella che a tutti gli effetti aveva l’aria di una concessionaria di automobili Kia. Bandiere con il logo della casa automobilistica sventolavano all’ingresso del festival, vetture scintillanti e nuove di zecca erano disposte in bella mostra sul prato, giovani addetti della Kia si aggiravano freneticamente distribuendo piccoli gadgets ai bambini. Gli organizzatori avevano dato via libera all’esposizione della casa automobilistica in cambio dei dollari della sponsorizzazione. Mio figlio voleva giocare sulle macchine, così fui costretto a sollevarlo di peso per riuscire a portarlo al concerto di un musicista per bambini, Raffi – un concerto che poi non ebbe luogo. Sconvolto “dalla presenza di una concessionaria di automobili” all’interno del festival, come mi disse in seguito, Raffi si era rifiutato di suonare e aveva abbandonato la manifestazione. “Rimasi letteralmente esterrefatto dalla visibilità dello sponsor, da quella… invadenza così volgare,” disse. “Era troppo deprimente, sentivo che non ce l’avrei fatta a suonare.” Così mio figlio mi costrinse a tornare verso gli stand della casa automobilistica assillandomi perché comprassi un fuoristrada, ma alla fine si accontentò di un dinosauro gonfiabile con un logo della Kia in bell’evidenza.

Poi durante i play-off della National Hockey League Stanley Cup, mio figlio mi assillò nuovamente, questa volta per comprare una collezione da 24 lattine di birra Labatt Blue. Voleva a tutti i costi la riproduzione in plastica della Stanley Cup offerta in omaggio con la collezione da 24, una promozione di cui era venuto a conoscenza da una pubblicità trasmessa a ripetizione durante la partita. La Labatt sapeva che i bambini avrebbero visto i play-off della Stanley Cup insieme ai genitori – un rito nazionale in canada – e anche che la gran parte dei telespettatori adulti non si sarebbero fatti sedurre e non avrebbero mai abbandonato la loro marca di birra preferita per una copia in plastica della Stanley Cup. Perciò è ragionevole presumere che l’azienda si prefiggesse l’obiettivo di convincere mio figlio a convincermi affinché comprassi quella birra – come puntualmente avvenne.

Nel comprare quella birra (e nel subire l’assillo di mio figlio per comprare il fuoristrada della Kia), ero una vittima inconsapevole del Nag Factor [“Fattore assillo”], una nuova e raffinata strategia di marketing che ha costituito una soluzione al problema su cui si sono arrovellati per anni gli esperti del settore: come riuscire a spillare denaro ai bambini che vogliono acquistare dei prodotti ma non hanno soldi in tasca? Per quanto sia sempre possibile “manipolare i consumatori per indurli a desiderare e quindi ad acquistare i tuoi prodotti”, spiega Lucy Hughes, tra gli ideatori del Nag Factor e responsabile dell’area strategia di Iniziative Media, la più grande società di comunicazione del pianeta, i bambini rappresentano una sfida straordinaria. La pubblicità a loro diretta – è questa l’intuizione fondamentale alla base del Nag Factor – non deve essere mirata a convincerli all’acquisto, bensì a convincerli ad assillare i loro genitori affinché acquistino.

A tale scopo la Hughes e i suoi colleghi di Iniziative Media, con l’ausilio di psicologi dell’età evolutiva, hanno sviluppato un’analisi scientifica delle varie forme di pressione cui i bambini ricorrono per convincere i genitori all’acquisto e dei relativi impatti sulle varie forme di pressione cui i bambini ricorrono per convincere i genitori all’acquisto e dei relativi impatti sulle varie tipologie di genitori. “Abbiamo riscontrato […] che i bambini non assillano i genitori sempre allo stesso modo. Ci sono due modalità diverse:  quella “insistente” e quella “grave”. Nel primo caso il bambino piagnucola qualcosa come: “Mamma, ti dico che voglio davvero la casa di Barbie, la voglio la voglio la voglio, ueh ueh ueh!”…

La modalità “grave” si ha invece quando il bambino associa al prodotto un’idea di importanza: “Mamma, ho bisogno della casa di Barbie così Barbie e Ken possono andare a vivere insieme, fare dei bambini e avere la loro famiglia”… Il modo in cui il bambino assilla il genitore è determinante sulla decisione di acquistare o meno un determinato prodotto”.

L’efficacia delle diverse forme di pressione psicologica dipende dal bersaglio: ci sono quattro tipologie di genitori. La prima categoria, la più comune, è quella dei genitori “spartani”, in genere benestanti e di livello socioculturale elevato ma refrattari al piagnisteo dei bambini. Comprano qualcosa ai figli sono se c’e’ un valido motivo. In questo caso, spiega la Hughes, “bisogna fare in modo che i bambini assillino i genitori in modo “grave”, facendo capire il valore o il beneficio che quel determinato prodotto riveste per loro, per quale motivo lo considerano importante. E nelle giuste circostanze il genitore si mostrerà ricettivo”. Le altre tre categorie di genitori possono risultare più sensibili alla pressione di tipo “insistente”. Il gruppo meno numeroso, “gli amici dei bambini”, è costituito da genitori giovani che comprano prodotti non solo per i figli ma anche per se stessi, come per i videogiochi o le playstation. Gli “accondiscendenti” sono in genere mamme lavoratrici, che acquistano un prodotto per lenire il senso di colpa nei confronti dei figli per il poco tempo che passano con loro. I genitori “combattuti”, perlopiù madri single, sono perfettamente consapevoli che non dovrebbero comprare oggetti inutili ma cedono alla pressione dei bambini; non amano gli acquisti impulsivi, ma li fanno ugualmente; infine, sono contrari alle pubblicità dirette ai bambini, ma al tempo stesso le apprezzano perché li aiutano a decidere cosa comprare.

Le sorti di interi imperi aziendali potrebbero dunque dipendere dall’abilità degli esperti di marketing nell’indurre i bambini ad assillare i genitori nel modo più efficace. “Pensiamo a McDoonald’s”, dice la Hughes, “i genitori non si sognerebbero mai di andarci se non fosse per l’insistenza dei figli.” Chuck E. Cheeses? “Santo cielo!” dice la Hughes. “E’ così rumoroso, con tutti quei bambini! Perché mai dovrei aver voglia di passarci due ore?” Hughes, secondo la quale la sua società “voleva essere la prima […] a quantificare con esattezza l’impatto” delle pressioni psicologiche esercitate dai bambini, ha rilevato che “nel complesso tra il 20 e il 40% degli acquisti non avverrebbero se i figli non assillassero i genitori. […] Abbiamo riscontrato, per esempio, che un quarto di tutte le visite ai parchi tematici non avverrebbero se i bambini non assillassero i genitori… che in quattro casi su dieci le famiglie non andrebbero in posti come Chuck E. Cheeses. Lo stesso succede con i film, le videocassette, i cibi pronti. L’influenza dei bambini sulle decisioni d’acquisto dei genitori è impressionante”.

L’influenza dei figli si estende ben oltre i prodotti per bambini; è determinante anche negli acquisti di articoli di fascia alta per adulti, come le automobili. “Le macchine,” spiega Hughes, “hanno tantissime caratteristiche che le rendono attraenti per i bambini” – il che spiega la presenza della Kia al Festival di Vancouver, nonché gli accordi siglati con le case produttrici di grandi film di cassetta come Shrek e Il Signore degli Anelli (un accordo che, secondo la Kia, mira ad “aumentare l’affluenza nei concessionari facendo leva sul grande interesse per la prossima uscita del film in VHS e DVD”). Ma la Kia non è l’unica casa automobilistica a puntare sui bambini. La Nissan sponsorizza l’American Youth Soccer Organization [la Federazione calcio giovanile degli Stati Uniti], la Chrysler spedisce per corrispondenza raffinate edizioni di libri per l’infanzia, e in generale i bambini sono sempre più presenti nelle pubblicità di automobili di tutte le case produttrici. “In un’ottica di marketing è un’arma davvero potente,” così la pubblicitaria Julie Halpin definisce la tendenza a sfruttare i bambini per orientare le decisioni d’acquisto degli adulti. “Tra i nostri clienti ci sono sempre stati e continueranno ad esserci produttori di giocattoli e dolciumi. Ma adesso abbiamo anche una società di servizi finanziari. Chi l’avrebbe mai detto che un’agenzia specializzata in marketing orientato ai bambini avrebbe avuto come cliente una società di servizi finanziari?” Eppure…

“E’ incredibile l’atteggiamento dei ragazzi davanti alla televisione,” si meraviglia Lucy Hughes, “guardano la pubblicità con estrema attenzione… Quanta gente lo fa? Tra i genitori probabilmente una percentuale ridottissima, marginale.” Scegliere come bersaglio i bambini assume dunque notevole rilevanza in un’ottica di marketing, poichè consente agli inserzionisti di aggirare gli adulti, più smaliziati nel rapporto con i media, e sfruttare il considerevole potere persuasivo che i figli esercitano sui genitori. I bambini poi sono anche più facili da manipolare rispetto agli adulti. Lucy Hughes e i suoi colleghi sarebbero probabilmente d’accordo con quegli esperti che sostengono che i bambini più piccoli sono particolarmente vulnerabili alla manipolazione dei media. Secondo l’American Academy of Pediatrics [Associazione Pediatrica Americana], “i bambini in età evolutiva non hanno piena consapevolezza degli scopi persuasivi della pubblicità e, in effetti, ne prendono per veri i contenuti. Non solo: quelli più piccoli, fino agli otto anni, non riescono a distinguere la pubblicità dalla normale programmazione televisiva”. Ciò che rende i bambini bersagli così attraenti per le corporation e gli esperti di marketing è dunque la loro estrema ricettività alla pubblicità. Nell’universo psicopatico delle corporation, la vulnerabilità è una sollecitazione allo sfruttamento, non un motivo di tutela.

I bambini, come “consumatori del futuro… rappresentano un mercato impressionante nell’immediato” e pertanto – sostiene Lucy Hughes – sono una “preda legittima” per le corporation. O, come la mette un altro pubblicitario, “più che bambini, li definiamo consumatori in formazione”. “Se mi pone problemi dal punto di vista etico? Non saprei,” risponde la Hughes, ma subito aggiunge, come se la domanda sull’etica fosse irrilevante, che il ruolo della sua società è semplicemente “vendere merce, e se la vendiamo… allora abbiamo fatto bene il nostro lavoro”. Anche Raffi, pur da buon critico del marketing orientato ai bambini, si dice costretto ad ammettere con rammarico che “puntare sui bambini per aumentare le vendite è soltanto parte integrante di quello che la legge permette alle aziende […]. Gli amministratori delegati delle corporation fanno quello per cui sono pagati, cioè accrescere i dividendi”.

Raffi ha ragione a proposito della legge. Nel 1981, la Federal Communications Commission (Fcc) abolì le restrizioni introdotte negli anni sessanta per tutelare i minori dalla pubblicità, come riflesso del suo nuovo orientamento a favore del mercato. La televisione, secondo l’allora presidente della Fcc Mark Fowler, era un elettrodomestico come un altro, un “tostapane con immagini”, e pertanto non richiedeva una regolamentazione ad hoc. La pubblicità rivolta ai bambini, com’era prevedibile, aumentò vertiginosamente con l’abolizione dei divieti. Come afferma la dottoressa Susan Linn, esperta della Harvard Medical School, “i bambini americani vedono in media 30.000 spot l’anno, solo in televisione… tra il marketing di una volta e il marketing attuale c’e’ la stessa differenza che passa tra una pistola ad aria compressa e una bomba intelligente. La pubblicità indirizzata ai bambini è messa a punto dagli psicologi e rafforzata da una tecnologia dei media che un tempo sarebbe stata inconcepibile. E poi è ovunque, è impossibile sfuggirle. Raggiunge i bambini in ogni angolo e in ogni istante della loro vita”.

Bombardare i bambini di pubblicità di cibo spazzatura è una delle tecniche più controverse adottate dal marketing. I bambini vanno pazzi per ogni alimento dannoso alla loro salute e, come sanno bene i genitori, si nutrirebbero esclusivamente di dolci, bevande gassate e cibi pronti, se lasciati liberi di fare a modo loro. Le corporation sfruttano questa vulnerabilità con spot che rendono i vari dolciumi e alimenti ad alto contenuto calorico praticamente irresistibili per i bambini, compromettendo così gli sforzi dei genitori di tenere sotto controllo l’alimentazione dei figli. In una pubblicità televisiva delle patatine Frito-Lay, ad esempio, si vedono tre bambini in una mensa scolastica che tirano fuori dei pacchetti di patatine dai loro zainetti in preda all’eccitazione, mentre un altro, che deve accontentarsi di una banana, è triste ed emarginato dagli altri – almeno fin quando una scimmia passa anche a lui un pacchetto di patatine in cambio della banana. Anche un bambino di tre anni coglierebbe il messaggio: il cibo che ti fa bene, la banana, è cattivo; il cibo spazzatura, come le patatine fritte, invece è buono. Non ci sono limiti a quello che i pubblicitari sono disposti a fare, pur di indurre i bambini a desiderare avidamente il cibo spazzatura. I libri per l’infanzia ricorrono alle caramelle M&M’S o ai cereali Cheerios per insegnare a contare, secondo la regola industriale per cui se conquisti i ragazzi sin da piccoli, sono tuoi per sempre. “I bambini […] rannicchiati tra le amorevoli braccia della babysitter o dei genitori [che leggono loro un libro],” dice la dottoressa Linn, “assoceranno quella sensazione calda, tenera, meravigliosa alle caramelle o ai cereali per la prima colazione.”

I critici imputano a queste strategie di marketing i livelli epidemici di obesità infantile e il forte aumento di patologie collegate nei bambini.

La didattica come business
Di Joel Bakan

Le corporation sono riuscite a insinuarsi addirittura nella didattica, con appositi programmi di studio in genere offerti gratuitamente alle scuole, che promuovono i loro prodotti (come il programma sull’alimentazione sponsorizzato da McDonald’s che utilizza un Big Mac per illustrare le quattro categorie nutrizionali) e la loro visione strategica (come il programma “Decision Earth” della Procter & Gamble, in cui si afferma che “il disboscamento rimuove tutti gli alberi […] per creare nuovi habitat per la protezione della flora e della fauna. P&G utilizza questa metodologia economicamente e ambientalmente efficace perché è quella che meglio corrisponde ai processi propri della natura. Il disboscamento facilita anche l’irraggiamento solare, stimolando così la crescita e fornendo alimenti agli animali”).

In molte scuole, gli spot televisivi sono ormai un elemento centrale nella dieta quotidiana degli studenti. Channel One, un progetto del fondatore di Edison Schools, Chris Whittle, produce un notiziario di dieci minuti seguito da un blocco di pubblicità di due minuti per le scuole che sottoscrivono un accordo triennale con la società, con il quale si impegnano a garantire che almeno il 90% degli studenti guardi il programma ogni giorno. In cambio, le scuole ricevono dalla società un’antenna satellitare, due videoregistratori, un televisore per ogni aula nonché tutto il cablaggio e l’occorrente per la manutenzione.  Sebbene alcuni Stati abbiano bandito Channel One dalle aule scolastiche, la società afferma di essere presente nel 40% degli istituti medi e superiori degli Stati Uniti. I sostenitori di Channel One mettono in risalto il vantaggio costituito dalle apparecchiature gratuite e dalla possibilità per gli studenti di vedere i notiziari, e affermano, come le agenzie pubblicitarie del tabacco e del cibo spazzatura, che le pubblicità non hanno alcun effetto sugli studenti (viene da chiedersi se sostengano simili affermazioni con i potenziali acquirenti degli spazi pubblicitari). Diversi studi dimostrano, tuttavia, che l’esposizione alla pubblicità stimola negli studenti il desiderio di acquistare i prodotti reclamizzati e favorisce inoltre comportamenti consumistici, effetti che possono trovare spiegazione, secondo uno studio, nella “approvazione implicita di questi prodotti da parte della scuola, vale a dire nell’assenso alla loro promozione nella scuola”.

Le corporation sono sempre più presenti nelle scuole per lo stesso identico motivo che le spinge a fare qualsiasi altra cosa: promuovere i loro interessi finanziari e quelli degli azionisti. “La regola aurea da seguire nell’elaborazione del materiale pubblicitario,” afferma Ed Swanson di Modern Talking Pictures (una società di marketing nel settore dell’istruzione), “è che deve essere funzionale in primo luogo alle esigenze dei nostri clienti.” “I ragazzi a cui ci rivolgiamo sono consumatori in fase di formazione” è il modo in cui un altro addetto ai lavori, Joseph Fenton di Donelley Marketing, descrive i benefici che le corporation ottengono dalla loro presenza nelle scuole. “E’ fondamentale stabilire un canale di comunicazione con i consumatori nella fase cruciale del loro percorso formativo.”

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2 Responses

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  1. fikasicula says

    marco io so perfettamente di cosa parlo e se tu non ti rendi conto della deriva autoritaria che ha preso il paese non può certamente essere colpa mia.
    leggi questo e forse capirai perchè tu non hai chiaro cosa sia il fascismo…

    una delle cose che il fascismo ti fa è quella di farti credere che vivi in un paese libero.

    in quanto al fatto che io sono “libera” di scrivere quello che vuoi non è mica vero.

    io non posso scrivere quello che voglio. in italia le opinioni sono sottoposte a repressione, le manifestazioni sedate, i manifestanti pestati mentre i fascisti sono coccolati anche se prendono a sprangate la gente.

    in italia si fa largo uso di ogni metodo censorio. la querela per diffamazione è un capitolo ampiamente usato dai membri dell’attuale governo. invece il premier per se stesso fa la legge lodo alfano.

    il pacchetto sicurezza imprime altre regole e solo per salvaguardare il business delle compagnie telefoniche non si sono trasformati i provider in gruppi di polizia. di fatto siamo spiati, è registrata qualunque cosa diciamo e via via che si va avanti le leggi diventano sempre più simili a quelle del periodo mussoliniano.

    o le leggi razziali da poco approvate ti sembrano un esempio di libertà?

    ps: se io avessi lettori e lettrici quanto è il pubblico di santoro e biagi avrebbero già chiesto la mia testa. siccome questo è un blog e io non conto un tubo allora si da per parlare…

    in ogni caso abbia pazienza, trovi normale che in un paese con tre milioni di problemi si faccia una intera campagna elettorale con un presidente del consiglio che parla esclusivamente dei fatti suoi, che bada ai suoi affari, che ci coinvolge nelle sue vicende giudiziarie che lui non vuole affrontare?

  2. marco says

    quando usi la parola fascisti per indicare il centrodestra sai almeno di cosa stai parlando?
    se il governo fosse veramento fascista secondo il tuo autorevole parere potresti scrivere liberamente quello che pensi?