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L’autonomia e il senso del percorso di Maschile Plurale, per me

di Stefano Ciccone (da Maschile Plurale)

Le ultime settimane hanno visto molte polemiche attorno a Maschile plurale. Nella discussione sono però emerse alcune questioni generali su come affrontare la violenza maschile contro le donne, su che ruolo abbiano gli uomini in questo e, in modo ancor più radicale, se abbia senso o meno l’esistenza di un gruppo come Maschile Plurale e un impegno maschile “contro il patriarcato”.

Molte scelte e riflessioni sono state frutto di un confronto tra noi ma in questo caso parlerò soprattutto a titolo personale.

La discussione si è sviluppata su piani diversi: innanzitutto a partire da una donna che ha affermato di aver subito comportamenti psicologicamente violenti da un uomo di maschile plurale durante la loro precedente relazione: come avrebbe dovuto affrontare MP questa vicenda? La reazione degli uomini di questa rete è stata adeguata?

In seguito, si è contestato a MP di non aver tempestivamente cancellato dallo spazio Facebook un intervento esterno che commentava la vicenda di un uomo che aveva ucciso la moglie e due figli con una lettura “psicologica” considerata giustificazionista. Si è contestato a MP di non presidiare con tempestività il proprio spazio Facebook giungendo a ipotizzare che questa gestione fosse indice di una scarsa determinazione nella condanna della violenza maschile.

Il punto politico.

Qual è il “punto politico” di questa discussione? Il punto politico non può ovviamente essere la valutazione di cosa sia accaduto in una relazione tra due persone (di cui nessuno conosce i contorni, ma a cui al tempo stesso tutti fanno riferimento, molti conoscono i nomi per vie traverse…).

Il punto è che la risposta di maschile plurale dovesse essere presa “con più forza, energia e determinazione”? E come si misura questa determinazione?

In tutta questa vicenda si è spesso fatta confusione tra nettezza e semplificazione. Io credo, con nettezza, che sarebbe stato un errore politico e relazionale se ci fossimo sostituiti alla donna nella denuncia o se avessimo tentato di contattare il centro a cui si era rivolta. Il fatto di essere questa associazione o di avere un rapporto con l’uomo accusato imponeva un maggiore e non minore rispetto della privacy della donna e delle regole dei centri antiviolenza che mettono al centro l’autodeterminazione responsabile della donna e la sua elaborazione autonoma del proprio vissuto.

Credo sarebbe stato anche un errore tutelarci limitandoci a sospendere l’uomo dall’associazione ricevuta questa segnalazione.

A mio parere il nostro ruolo, come rete di uomini era un altro: offrire un dialogo alla donna, costruire un confronto con l’uomo e tra noi collettivamente e promuovere occasioni di riflessione pubblica tra uomini e tra donne e uomini a partire dai nodi emersi. E questo mi pare abbiamo fatto e continuiamo a fare.

Questo vuol dire avere un comportamento di “copertura”, di omertà o, con più eleganza, di “indulgenza amicale” verso l’uomo coinvolto? A me pare sinceramente di no. Aggiungo, proprio perché non considero le relazioni parola vuota da convegno e non voglio cedere all’ansia di “distinzione tra buoni e cattivi”, che voglio affrontare questa vicenda anche alla luce della relazione con l’uomo accusato di cui conosco la storia, l’impegno, i limiti, le contraddizioni. A partire da questa relazione e restando in questa relazione ho avuto, come altri, un confronto e un conflitto con lui, ognuno con il proprio vissuto e punto di vista.

È stato chiesto che MP “prendesse dei provvedimenti” distinguendosi dall’uomo accusato. Forse questo sarebbe stato un modo di “pacificare” un conflitto che ci riguardava ponendolo fuori di noi. Questa richiesta risolve il problema dando priorità all’autotutela dell’associazione, avalla l’idea semplificata che MP sia un’associazione di uomini esenti da contraddizioni ed estranei a una cultura diffusa di cui invece ci riconosciamo parte, e sceglie di tagliare corto anziché portare avanti la necessaria riflessione che riguarda tutti noi. Non risolvo il problema intimando all’uomo accusato di fare un passo indietro per non danneggiare il buon nome dell’associazione, gli chiedo di mettersi in discussione e di vedere i limiti, che io considero profondi, nel suo modo di elaborare questa vicenda e del suo modo di porsi in relazione. Senza scorciatoie ma con i tempi e le forme necessarie ad affrontare una riflessione profonda e autentica.

Ascoltare o dialogare?

Ma come avremmo dovuto porci rispetto alla donna? Alcuni di noi, in forme diverse hanno avuto con lei un dialogo che per me significa riconoscere la donna come interlocutrice. Non adempiere a una richiesta ma mettersi in relazione, e dunque eventualmente anche in conflitto, in una dinamica che o è di reciprocità con un soggetto autonomo e responsabile o diviene altro: protezione,paternalismo, esecrazione morale. Non condivido l’idea, emersa in questa discussione, che “lei” e “lui” cessino di essere miei interlocutori politici perché schiacciati nel loro ruolo di vittima o accusato, non tolgo loro soggettività.

Per questo ho ritenuto di non dover accettare questi ruoli e queste dinamiche e invece proporle “una comunicazione paritaria e libera in cui poter essere libero di dire quello che sentivo senza l’ansia del “buon nome” di maschile plurale, senza subire chiamate di correità e senza assumere il ruolo di censore o vendicatore, o di difensore di una vittima”.

Mi dispiace sinceramente se questa mia posizione, anche nella riconferma di una disponibilità all’ascolto, le sia apparsa come distanza e indisponibilità.

Riconoscere autorevolezza e credibilità alla parola di una donna non corrisponde per me a una posizione acritica. Anche quella parola è in un processo, in un’elaborazione. Affermarlo non è liquidarla come inaffidabile.

Non potevo riparare la sofferenza che lei ha certamente vissuto ma mi dispiace davvero di non essere riuscito a comunicarle la mia vicinanza.

Altro sono le affermazioni che mi attribuiscono parole, comportamenti e intenzioni inesistenti e a cui non mi pare utile replicare nuovamente qui.

In soggezione o in difesa?

Come si sono posti gli uomini di Maschile Plurale in questa vicenda? Innanzitutto ognuno in modo diverso: c’è chi come me ha scelto di interloquire con le critiche che apparivano in rete, chi ha scelto di scrivere dei testi compiuti, chi ha scelto di limitarsi alle relazioni dirette, chi ha preferito il silenzio. Anche le argomentazioni, gli approcci, gli atteggiamenti sono stati “plurali” e queste differenze sono state esplicitate in modo trasparente. Non c’è stato, dunque, un gruppo che abbia serrato i ranghi e difeso pregiudizialmente se stesso dalle critiche.

Siamo andati un po’ in ordine sparso, così ci siamo posti durante l’incontro alla Libreria delle donne di Milano dove ho invece visto una postura di schieramento di chi aveva espresso critiche in rete. Allo stesso modo abbiamo riaffermato con autonomia e tranquillità la scelta, che non è ambiguità o mancanza di posizione di merito, di mantenere il nostro gruppo Facebook come uno spazio aperto, rifiutando intimazioni a governarlo e regolarlo per garantire “coerenza di linea”. E nella discussione su Facebook sono emersi molti spunti interessanti. Questa scelta ha avuto come conseguenza pesante lo stravolgimento del nostro spazio, occupato da polemiche e critiche ripetitive e pretestuose ma anche che riflettevano conflitti tra donne che hanno assunto spesso forme distruttive basate sulla negazione dell’altra, l’insulto, il sospetto. Un modo di confliggere che perde di vista la distinzione che invece il femminismo mi ha insegnato esiste tra “guerra” e “conflitto” inteso come processo capace di creatività se riconosce l’irriducibilità delle differenze come risorsa politica.

Questa libertà è una nostra peculiarità a cui io non voglio rinunciare: ognuno parla a proprio nome; ma in questa occasione è stata rivelatrice anche di una nostra difficoltà a condividere tra noi una riflessione.

La mia opinione è che si sia ecceduto in una sorta di soggezione: un atteggiamento difensivo non nel senso di orientato a difendere la propria appartenenza contro le critiche ma, al contrario, poco capace di dare conto delle ragioni del proprio agire, del senso del proprio percorso. Un deficit, insomma, di autonomia.

Io credo di dover dire non quello che ritengo più utile o più efficace politicamente, o quello che può arginare un conflitto o “pacificare” una contestazione, ma quello che corrisponde alla verità della mia esperienza e della relazione con le persone che ho incontrato. In questo senso credo non si tratti, come è stato proposto, di “offrire le proprie scuse” ma di dare conto del senso del proprio agire. Di partire da sé non per limitarsi a rendere conto del proprio vissuto ma per esprimere il nesso tra la propria collocazione politico esistenziale e le proprie scelte.

C’è un piccolo episodio che cito non per la sua importanza ma perché mi dà spunto per dire cosa intenda per provare a dare conto di sé. In occasione dell’incontro alla Libreria delle donne su questa vicenda sono andato via prima della fine cosa che mi è stata aspramente contestata. Ma lo avevo preannunciato a chi lo aveva organizzato scegliendo quel giorno. Credo che prendere un treno, fare sei ore di viaggio, spendere 150 euro per partecipare non sia indice di sciatto disinteresse. Mi dispiace non poter essere restato ad ascoltare, a spiegare e a interloquire ma è una scelta che ho fatto consapevolmente e di cui assumo la responsabilità. Ho ritenuto giusto tornare a Roma la sera e dare valore anche a relazioni familiari e amicali a cui ho spesso anteposto l’urgenza politica, l’indispensabilità della mia presenza, la scadenza decisiva a cui non si può mancare. La politica che costruiamo o è un processo reale, in relazione con le nostre vite o non è. Ho scelto di cedere all’ansia della prova, del giudizio e della prestazione.

Si è poi ritenuto, con qualche superficialità, che gli uomini di MP non avessero ancora elaborato nulla sulla possibilità che tra loro potessero esserci uomini accusati di violenza. Io credo, al contrario, che da questa vicenda emerga con forza il senso del nostro percorso, del nostro approccio e della nostra esperienza: al tempo stesso si esplicita una impasse delle nostre pratiche politiche nel costruire riflessioni condivise.

La complessità è un alibi?

In questa vicenda ho visto troppo spesso la tentazione di rifugiarsi in una posizione ideologica, la ricerca di una parola astratta, espressa “a prescindere”, e per questo chiara. Eppure c’è una differenza tra radicalità e semplificazione. Riconoscere che la sessualità, i rapporti tra i sessi sono un terreno politico non può significa scegliere la semplificazione dello schieramento ideologico. Va riconosciuta la loro dimensione complessa che comprende aspetti culturali, simbolici, psicologici, sociali… Scegliere di guardare alle tante ambivalenze e alla complessità delle relazioni non vuol dire assumere una posizione ambigua. Non intendo contrapporre banalmente “ideologia” e vite concrete.

Credo dovremmo avere la capacità di produrre una riflessione teorica, una politica, che sia in grado di esprimere un conflitto all’altezza di questa complessità. Che non ci illuda di tagliare risolutivamente con la spada un nodo ma produca una pratica capace di generare differenti forme di relazione. A partire dal riconoscimento che il “patriarcato” non è altro da noi ma ci attraversa. Non è un sistema di mero dominio materiale: è un sistema simbolico, è una costruzione culturale profonda e condivisa che struttura le vite e le identità di donne e uomini. Non possiamo citare Foucault, Carla Lonzi, la pratica dell’inconscio nel femminismo, Bourdieu, Butler, non possiamo riferirci ai femminismi italiani che superano la prospettiva meramente emancipazionista di contrasto alla discriminazione e mettono in gioco una riflessione raffinata sulla differenza e sulla soggettività come luogo di conflitto, non possiamo apprezzare la riflessione di Lea Melandri sul nesso tra amore e violenza o la critica all’emergenzialismo repressivo sulla violenza da un punto di vista femminista di Tamar Pitch … e poi rimuovere questa complessità nella nostra lettura dell’ordine patriarcale e limitarci alla soddisfazione per una condanna.

Se il personale è politico dobbiamo produrre una pratica e una parola politica in grado di dare conto della complessità e la contraddittorietà dei vissuti individuali e delle relazioni senza rifugiarci nella linearità del “giudizio politico”.

Questo non vuol dire sfuggire dal riconoscimento della dimensione politica del conflitto tra donne e uomini e della violenza nelle relazioni ma scegliere un’altra prospettiva politica.

Tre punti di dissenso di merito, e uno più radicale.

Nel mio intervento a Milano, e nei miei interventi in rete ho provato a indicare l’esistenza di una critica verso Maschile Plurale che ha motivazioni più ampie dalle singole vicende. Riconoscerlo non vuol dire liquidare le critiche come frutto di un pregiudizio o un complotto ma, al contrario, coglierne il merito evitando la ripetitività di una polemica sterile. Questa discussione ha fatto emergere modi molto diversi di affrontare la violenza maschile contro le donne: io credo che quello scelto da maschile plurale, oggi oggetto di sospetti e diffidenze, sia più radicale rispetto a posizioni apparentemente più drastiche, più urlate o lapidarie. Credo sarebbe da parte nostra un errore liquidare la peculiarità di un’esperienza e una riflessione trentennale in nome dell’urgenza o dell’ansia di pacificare una polemica che ha assunto toni spesso liquidatori e distruttivi.

La violenza come fatto politico culturale: una diversa radicalità rispetto al giustizialismo.

La scelta di maschile plurale di affrontare la violenza non come devianza di cui delegare la punizione o la “cura” a forze dell’ordine o esperti, ma come frutto di una cultura diffusa da trasformare attraverso un conflitto nella società, è stata additata come ambiguità.

Noi diciamo da tempo che non basta “condannare la violenza” ma bisogna riconoscerne le radici in una cultura condivisa e questo non per attenuare questa condanna ma per fare qualcosa in più e cioè sottoporre a critica questa cultura. Dunque un di più e non un di meno di radicalità nel contrasto alla violenza e una critica a quelle posizioni che strumentalizzano la violenza per giustificare politiche xenofobe, repressive, giustizialiste e paternaliste.

A questo si aggiunge un altro elemento di dissenso: noi abbiamo spesso ragionato criticamente su un limite del discorso pubblico sulla violenza che rende visibili solo le vittime e rappresenta le donne in una condizione fissa di vittime, soggetti deboli bisognosi di tutela e protezione. Abbiamo detto che questa rappresentazione occulta la soggettività femminile, giustifica una forma gerarchica dei rapporti tra i sessi e una posizione maschile paternalistica di protezione che sfocia troppo spesso in una posizione di controllo. Questo ovviamente non vuol dire, come ci è stato contestato, negare che le donne subiscano violenza e rifiutare la distinzione tra autore e vittima o sminuire gli effetti della violenza contro le donne.

Ma questi dubbi, questi sospetti, seppur infondati, non nascono da un’ostilità gratuita.

Perché gli uomini dovrebbero contrastare la violenza maschile?

Proprio in questi giorni emerge la ricorrente narrazione di donne che direbbero “non ho bisogno del femminismo perché non sono contro gli uomini e perché non voglio prendere il potere”. Non è una rappresentazione nuova ma nasce da un travisamento del femminismo.

Ovviamente se si pensa che gli uomini abbiano tutto da perdere e che il loro impegno possa essere dettato solo da un afflato etico è evidente che permanga il sospetto che si fermino “ai proclami o alle belle parole dei convegni”.

Mettiamo da parte il fatto che l’impegno di Maschile Plurale, che chi non ci conosce può legittimamente ignorare, non si ferma a belle parole ma si concretizza nelle scuole, nelle carceri, nei gruppi di condivisione, nelle manifestazioni, nel lavoro di collaborazione con forze dell’ordine, servizi, centri antiviolenza, centri di lavoro con uomini che agiscono violenza.

Il punto politico è un altro. Ed è un nodo fondante di valutazione del nostro percorso. Parlo al plurale non per fare confusione ma perché circa trent’anni fa, quando cominciammo, scrivemmo che il nostro impegno non era frutto di una solidarietà con “una lotta non nostra”.

Scegliemmo, cioè, di misurarci con i “dividendi del patriarcato”, e dunque con i vantaggi che il rapporto di potere tra i sessi ci dà, ma non per una mera “rinuncia” in nome di una motivazione etica. Se andassi nelle scuole a dire che sì, il femminismo è contro gli uomini, che si tratta di rinunciare ad autorità, privilegi e opportunità in nome della necessità di riparare un’ingiustizia a danno di una “categoria discriminata” credo che il mio discorso sarebbe percepito come la “solita predica” politicamente corretta.

Se ci limitassimo a dire che la violenza contro le donne (e quella omofoba) fornisce agli uomini solo vantaggi e se affermassimo che il femminismo consiste esclusivamente nel contrastare questi vantaggi dovrei dire che il contrasto della violenza contro le donne “non mi conviene” e che il femminismo mi è ostile. E dovrei impegnarmi solo in nome di una motivazione etica. Solo perché “è giusto”.

Io ho conosciuto un femminismo e ho attraversato una riflessione sulla violenza che dicono altro. Dicono che quel sistema di oppressione produce anche una miseria nella vita degli uomini e che quel privilegio maschile, proprio a seguito di uno sguardo diverso delle donne, è ridotto a un feticcio incapace di rispondere alla mia domanda di senso.

Io ho trovato nel femminismo non solo la denuncia del privilegio maschile ma uno spazio possibile di libertà per me e per le mie relazioni.

In questo senso la politica delle donne parla a tutti. Non si tratta di “proclami”, è il senso del mio percorso politico ed esistenziale. Una posizione maschile che si limita alla contemplazione di questo privilegio e che non mette in gioco un proprio desiderio di trasformazione non è più rigorosa ma, a mio parere, più arretrata.

Ma questo tema ha anche direttamente a che fare con la violenza: la trasformazione delle relazioni di potere tra donne e uomini è infatti diffusamente rappresentata come minaccia per gli uomini indicata spesso come giustificazione per reazioni frustrate o esasperate. A questa rappresentazione Maschile Plurale ha risposto con una differente posizione maschile che invece riconosce in questo cambiamento e nella libertà e autonomia delle donne un guadagno per la nostra libertà. Mi è parso un grave travisamento leggere questa nostra posizione come una nuova strategia maschile che considera la libertà femminile solo come strumentale a sé: mi pare frutto della tendenza a non voler vedere lo spostamento dell’interlocutore, perché resti lì dove ti aspetti che sia. La possibilità di confronto tra noi comincia dal reciproco riconoscimento.

Ma il rifiuto di una prospettiva meramente etica dell’impegno maschile ha anche un’altra implicazione: il rifiuto di posizioni maschili ambigue come quella dei protettori delle donne, dei difensori, o dei censori. Se la collocazione maschile non ha come motivazione un proprio autonomo desiderio, una domanda di libertà anche per se stessi, rischia continuamente l’inautenticità, la ricerca della gratificazione. La riduzione del confronto tra uomini a competizione, a disfida retorica e intellettuale o a gara all’indignazione non è questione personale ma attiene a questa ambiguità. A questa competizione mi sottraggo non per poca determinazione ma perché mi risucchierebbe in una dinamica subalterna a un simbolico patriarcale.

Non amministro giustizia, provo a costruire libertà.

Luisa Muraro è intervenuta durante la discussione presso la Libreria delle donne affermando, pressappoco, che in questo confronto è emersa una domanda di giustizia da parte delle donne a cui Maschile Plurale non si è dimostrata adeguata incrinando la propria autorevolezza. Ed ha citato come esempio un vertice internazionale di capi di stato, militari e attivisti che ha deciso di riconoscere che gli stupri di guerra non sono episodi nefandi isolati impegnandosi formalmente a reprimerli. Questo parallelo con capi di stato e capi militari mi pare significativo.

In quello stesso incontro avevo detto che le richieste a Maschile plurale ne travisavano la natura. Cos’è Maschile plurale: uno spazio, un’esperienza o un’istituzione? Con la stessa idea avevamo risposto alla polemica che ci chiedeva una gestione “proprietaria” del nostro sito e alla richiesta di provvedimenti di sospensione verso l’uomo accusato di violenza psicologica.

Nella discussione è emerso uno sguardo contraddittorio che da un lato chiede a MP di agire assumendo una “responsabilità associativa” e di agire come istituzione, dall’altro esprime la diffidenza verso un percorso collettivo di uomini, verso un associarsi tra uomini che non può che essere la ripetizione sempre uguale della complicità/competizione tra dominanti. Ma se il nostro è un percorso politico di libertà e trasformazione non può che essere al tempo stesso messa in gioco della mia individualità e costruzione di pratiche collettive, pubbliche di uomini nel mondo e in relazione con le donne.

Come mi pongo di fronte al sistema di potere maschile che genera la violenza? Come istituzione maschile che regola i comportamenti di altri uomini, che esaudisce la domanda di riparazione delle donne o come soggettività parziale non “innocente” ma in conflitto con quell’ordine, a cui riconosce la propria internità e che tenta di costruire pratiche di consapevolezza e cambiamento?

Anche nel carcere dove sono andato gli uomini accusati di violenza sono “puniti” dagli altri uomini ed esclusi; nelle periferie dove ho provato a discutere, le organizzazioni di estrema destra o il perbenismo dei “buoni cittadini” individua come proprio dovere “la difesa delle donne” dalla violenza degli altri.

Io mi differenzio da questa posizione non per quieto vivere, per una pace senza giustizia, ma perché credo che il conflitto che devo agire deve essere anche verso quell’ordine amministrato da capi di stato e buoni cittadini che, mentre contrastano la violenza, rinsaldano il sistema di regolazione di cui quella violenza non è eccezione ma parte fondativa.

Muraro ha ricordato le parole di Angelina Jolie -Non si dica mai che la pace è più importante della giustizia- definendole “Parole in contropelo a una certa comoda nonviolenza che si presenta come punto d’arrivo risolutivo, mentre dovrebbe essere il contrario”. Su questo tema ho un’opinione diversa. La nonviolenza non ha mai anteposto la pace alla giustizia e non è qualcosa che possiamo concederci esauriti i conflitti: ha cercato di disvelare il conflitto che veniva occultato nella guerra. Mi viene in mente una poesia di Brecht che dice pressappoco “il nemico marcia alla mia testa”. La nonviolenza non sceglie di tacitare e pacificare i conflitti ma di affermare la irriducibile libertà delle singolarità contro logiche di appartenenza, omologazione e gerarchia in “guerra”. Può apparire una divagazione ma per me è cruciale evitare che ogni mio impegno subisca un richiamo di appartenenza patriarcale dissimulato.

Anche in questa vicenda si conferma per me la necessità di produrre conflitti nella società e nelle relazioni senza far sì che la propria indignazione contro la violenza o il potere si tramutino in integralismo, che la propria passione imprigioni in schieramenti e appartenenze che impediscano l’ascolto dell’altr*. Io continuo il mio impegno contro la violenza come parte di un mio percorso politico come uomo. In questo percorso scelgo di non intrupparmi nelle schiere maschili di repressione istituzionale della violenza o di difesa delle donne perché il mio conflitto è proprio dentro quella schiera maschile. E faccio questo percorso senza la presunzione di essere migliore di altri uomini o di essere estraneo a quel sistema. Non misuro il mio percorso sulla approvazione femminile ma sulla capacità di tenere in relazione il mio desiderio di libertà e di cambiamento con la possibilità di mettermi in una relazione di libertà e di differenza con le donne e gli uomini con cui costruisco questa pratica.

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