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Da donna a donna: la tua narrazione sulla violenza non è la mia!

La discussione che si è sviluppata attorno a questo mio post mi spinge a fare una riflessione sui modelli di comunicazione, almeno sul web, con i quali abbiamo a che fare.

Ci dedichiamo alla violenza sulle donne da tantissimo tempo. Conosciamo le storie di tante e le abbiamo ascoltate, raccontate, senza risparmiarci mai. Abbiamo studiato la comunicazione, il lessico usato, gli stereotipi ricorrenti e nel frattempo estendevamo lo sguardo e non omettevamo le violenze fatte dalle donne e abbiamo guardato bene dentro le relazioni suggerendo un percorso di riappropriazione della autonarrazione.

Abbiamo un problema, anzi due:

– nel tempo abbiamo avuto a che fare molto più spesso, con grande rispetto per tutte, con donne che non si piangono addosso. Si raccontavano (si raccontano), cercavano solidarietà ma erano arrabbiate o comunque erano lì a superare quel percorso di violenza e a vincerlo. Donne in gamba. Molte ragazze. Se sopravvivevano ad una violenza erano anche più grintose, lo sono. Non pietiscono consensi. Vogliono anzi dare una mano alle altre a riconoscere la violenza. Non restano impigliate nel ruolo delle martiri. Si liberano dallo status di vittime di violenza che per loro diventa un orpello. Vogliono andare avanti. E non vogliono avallare stereotipi che fanno ritenere che le donne vittime di violenza siano ammalate per l’eternità, bisognose di una Tutela che le marginalizza perché uno Stato che ha bisogno di vittime per imporre la sua tutela non vuole che esse siano visibili. Vuole semmai che diventino fantasmi cui non viene riconosciuto diritto di parola perché non interpretano un dogma. Vittime sono e vittime devono morire. Così le vuole chi fa marketing istituzionale. Così le vuole l’insieme dei media che attribuisce alle donne ora il ruolo di santa/puttana e agli uomini il ruolo di macho/frocio/mostro a seconda delle occasioni.

– in rete i percorsi autonarranti in fase di autoanalisi, quelli autoterapeutici, diventano qualche volta pervasivi. Che si tratti di uomini e di donne le esperienze personali che portano in giro sono una grandissima ricchezza. Se non si generalizza. Quando il singolare diventa plurale improvvisamente si passa alle generalizzazioni, si riscontrano alti livelli di disonestà intellettuale e si tende a proiettare sulle esperienze altrui il proprio vissuto. Sicché si pretende che le esperienze altrui si risolvano esattamente allo stesso modo, tutte quante e che vi sia un lessico comune che rappresenti tutte/i.

Ci siamo rese conto nel tempo che quella che intende essere una militanza antisessista qualche volta viene percepita come l’azione stravagante di maestrine dalla matita rossa che vanno in giro a sottolineare tutto ciò che ritengono sbagliato. La critica antisessista è sacrosanta quando si tratta di ragionare sui contenuti diffusi dalla stampa. Diventa censura quando si passa il tempo a pretendere che tutto ciò che si dice antisessista, femminista, eccetera, quando si pretende sia rappresentata ovunque e da chiunque la propria narrazione, corrisponda alla propria maniera di essere antisessista, femminista, eccetera.

I commenti che noi riceviamo, di contestazione ai contenuti, sono nell’ordine di due tipi:

– quelli di maschilisti e misogini ostili che passano il tempo a sputare fango su di noi in ogni dove fingendo di appassionarsi a e prendendo a pretesto questioni, assai meno banali e scontati di così, di cui non credo abbiano capito nulla (questione maschile e antifemminismo);

– quelli di donne che si dicono femministe e che ci richiamano all’ordine se osiamo fare qualcosa che sfidi l’ortodossia corrente. Vengono a inquisirci, come fossimo eretiche, e a esigere che recitiamo il mantra dell’antisessismo o della narrazione sulla violenza sulle donne così come pare a loro.

In entrambi i casi non c’è disponibilità a discutere. I primi li cestiniamo perchè ci insultano esplicitamente. Con le seconde discutiamo anche se è una fatica immane e non abbiamo tanto tempo da spendere per ribadire che esigiamo la libertà di poter dire quello che vogliamo senza ricevere la commissione in visita che viene a redarguirci e a rilasciare la bolla papale stabilendo che noi no, non siamo buone a fare le femministe.

Nel tempo, e sappiamo di essere obiettive perché c’è tutto un blog pieno di post a confermarlo, abbiamo monitorato linguaggi e modalità espresse in rete. Abbiamo talvolta, sbagliando molto, confuso i contenuti con i metodi e poi abbiamo scisso i metodi dai contenuti e quando abbiamo fatto questo, cioè scindere i metodi (sbagliati) di comunicazione dai contenuti comunicati, stabilendo che ogni contenuto ha una sua rispettabile ragion d’essere, abbiamo scoperto che quei metodi venivano ampiamente usati da ogni parte in causa.

Da un lato uomini feriti che non conoscevano altro linguaggio se non quello dell’urlo dislessico e pieno di rancore e dall’altro donne ferite che identificavano in quegli uomini il nemico, quello dal quale avevano dovuto difendersi. L’errore sta nel fatto di ritenere che la giustezza di una eventuale causa, più o meno condivisa, possa rappresentare una giustificazione per l’applicazione dello stesso metodo.

Giusto per dire, così come abbiamo analizzato mentre parlavamo di cyberstalking fatto da donne, è sbagliato calunniare qualcun@ che non la pensa come te a prescindere dal fatto che tu sia un uomo ferito per X motivi o che tu sia una donna vittima di violenza protetta dall’aureola santificata che viene redistribuita per farti martire.

E per chiarire, giacchè sembrerebbe che ce ne sia bisogno, tra noi c’è chi è sopravvissut@ alla violenza. Violenze gravi, pesantissime, ma abbiamo volutamente mancato l’appuntamento in cui distribuivano l’aureola della martire e chi tra noi ha vissuto gravi situazioni ha fatto un percorso di riappropriazione dell’analisi, del linguaggio, della narrazione e del proprio vissuto senza farsi usare da nessuno, senza essere funzionali a nessuno Stato tutelare. Quello che diciamo qui è stato coerentemente vissuto nel proprio privato. E tutto quello che si chiede, ora, è che sia riconosciuta la narrazione della violenza da qualunque parte essa arrivi e in qualunque modo sia espressa perché sappiamo che essere libere di risolversi la violenza come si vuole è la cosa più difficile da fare.

Possiamo parlarci da donne a donne?

Noi che la violenza la conosciamo sappiamo che le donne che hanno subito violenza non sono malate, bambine. Possiamo parlare loro con onestà. Senza tentennamenti e timori. Perché in ogni scambio avuto con queste donne il più grande regalo che potevamo loro fare è sempre stato quello della chiarezza. Di restituire loro la responsabilità delle proprie scelte, l’autodeterminazione nelle lotte da intraprendere, il rispetto per il proprio percorso personale, di ascoltarle ogni volta che a risoluzione della violenza ponevano suggerimenti a partire da se’.  Era la loro soluzione per il proprio problema.

Diversamente non accettiamo di farci tiranneggiare da chi estende le proprie soluzioni al mondo intero, da chi impone un lessico comune, da chi si permette perfino di sindacare sulle narrazioni altrui (è successo qui che mentre davamo spazio a storie personali che noi non ci permettiamo di giudicare qualcun@ si permetteva di stigmatizzarle e sentenziare), da chi nasconde il proprio vissuto, talvolta irrisolto, dietro mille considerazioni fatte sulla pelle altrui.

Non siamo ingenerose. Io non lo sono. Abbiamo speso giorni e notti e tempo, energia, fiato e intelligenza per dare strumenti di interpretazione del fenomeno della violenza. Siamo rimaste qui a fare da punto di riferimento per donne che da noi si sentono a casa perché di quel che sono ci piace l’intelligenza, il senso dell’ironia, i grandi contributi che ci danno e che regalano al mondo e possiamo dire loro che sono molto più che “vittime di violenza“. Sono donne fantastiche, in gamba, pura meraviglia e soffrire le ha rese perfino più empatiche con il dolore del mondo intero.

Posso permettermi il lusso di dire che compiacersi del martirio è tutto ciò che, per esempio, in un incontro tra femministe non dovrebbe esistere. Perché quando sai già che io ti accetto così come sei, se il tuo bisogno è che io accetti te, non può farti danno sapere che io sono diversa da te. Non migliore. Diversa. E che questa diversità tu devi rispettarla.

E se non sono io a dirti che la tua debolezza può diventare oppressiva e che alla lunga diventa ossessione e fanatismo, assoluzione a priori di tutte le donne, e che – detta con chiarezza – per quanto si possa ascoltarla, accettarla e comprenderla, non la si può di certo subire, chi altro potrà dirtelo?

Le donne siciliane mi hanno insegnato che le persone alle quali interessa di te ti dicono “lavati ‘a faccia che ci l’avi lurda” (lavati il viso perchè è sporco). Quelle alle quali non interessa niente di te ti lasceranno andare in giro con lo sporco in faccia.

Rispettate la narrazione altrui e vedrete che sarà rispettata anche la vostra. Quella in cui non parlerete di “donne”, inteso in senso generico, ma parlarete di voi, io, tu.

Posted in Comunicazione, Critica femminista, Pensatoio.


2 Responses

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  1. diana says

    *inconsce senza la “i”, naturalmente

  2. diana says

    (provo a ripostare perché non è comparso)
    Dal mio punto di vista, la chiave del “genere” è del tutto inadeguata oltre che inappropriata ad affrontare qualsiasi discorso sulla violenza – cioè l’abuso del più forte (in quella data situazione e in modi diversamente diversi) sul più debole. Che il più debole sia una donna e il più forte sia un uomo, o il più debole un bambino e il più forte una donna, non cambiano – secondo me – le cause profonde del comportamento violento. E per profonde non intendo inconscie, archetipiche o chissà quale altro abisso psicoanalitichese o newage: intendo vere e autentiche e concrete. Parlo di quel senso di impotenza (mista a rabbia compressa) che molti/e di noi si portano appresso, pronto a esplodere in qualsiasi momento e in varia forma. E’ un senso di impotenza che, sempre secondo me, accomuna vittima e carnefice. E’ quell’impotenza appresa crescendo in famiglie dove la violazione dei confini, la mancanza di autocotrollo, l’abuso di potere e la manipolazione sono “di casa”.

    E’ qui che manca una vera e autentica assunzione di responsabilità da parte delle donne: il maschio maltrattante non viene da Marte, lo produciamo e lo cresciamo anche e soprattutto noi. La femmina maltrattata, pure: era quella bambina che pensava che se fosse stata più buona, più brava, più paziente, forse sarebbe riuscita a farsi amare (dalal mamma o dal papà o da tutti e due). E’ il cane di Seligman che ormai non ci prova neanche più a scappare.

    Questo luogo è l’unico, che io sappia, dell’universo femminista italiano dove si riflette anche sulla violenza (fisica, sessuale, psicologica) delle donne. Per questo lo ritengo benemerito.

    Occupandomi di abusi infantili da decenni, per storia personale ma non solo, per me la lettura dei blog femministi e della retorica della violenza di genere (violenza=maschio) e del sessismo (che riguarderebbe solo i maschi) è estremamente dolorosa. La dissonanza cognitiva è forte, rispetto alla realtà che ho vissuto, che vivo e che vedo e sperimento intorno a me occupandomi di bambini abusati. Nel 2000 sono approdata sul forum ourchildhood.com – creato dalla psicologa svizzera Alice Miller (scomparsa l’anno scorso). Uomini e donne (migliaia, ho ancora tutto l’archivio della mailing list) da tutto il mondo raccontavano le loro storie di “adults abused as children”. Be’, il 70 per cento dei racconti e degli abusi denunciati riguardavano le madri. Le babysitter. Le domestiche. DONNE. Era un vaso di Pandora che, una volta aperto, non si è più richiuso finché il sito non è stato chiuso, poco prima della morte della Miller. Dal vecchio americano alla ragazza inglese di origini pakistane, dalla nera olandese al professore di Oxford, le loro storie testimniavano un tabù culturale che è duro a morire. Ancora oggi, e ovunque. Ci sono state studiose che hanno cercato di documentare questa violenza (parzialmente, anche la Badinter, che però nel suo libro “La strada degli errori” parla di donne che mobbizzano gli uomini sul lavoro, ma non di madri che abusano dei figli!). Tra le ultime, Michelle Elliot, che con un suo libro ha addirittura il tabù dei tabù: gli abusi sessuali delle donen sui bambini (madri, maestre, babysitter, ecc.) e la pedofilia femminile.

    Per quello che vale, questa è la mia esperienza. La porto in giro per blog femminili/femministi da qualche decennio, quasi sempre bannata.

    Con tutto questo, capisco che la mia esperienza non può riassumere tutte le esperienze – come scrive l’autrice del post – e che anche le altre esperienze hanno un loro fondamento e una loro dignità. Quello che voglio riportare è un po’ di equilibrio nella narrazione (violenza=maschio). Che non può esserci senza assunzione di responsabilità (violenza=non ha genere).