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Autonarrazione e violenza sulle donne (che ne sappiamo di violenze altrui?)

(…se non sappiamo raccontare neppure quelle che abbiamo subito noi?)

Al FemBlogCamp, tra le altre cose ho assistito ad uno workshop in cui si è parlato di autonarrazione e violenza sulle donne.

Sintetizza bene Laura quando lo descrive così:

un workshop sull’autonarrazione a proposito della violenza sulle donne, che mi spinge a riflettere sui percorsi di elaborazione personale di chi – vittima di una violenza – se privata della possibilità di narrare autonomamente quanto subìto, rimane schiacciata nei meccanismi della narrazione dominante (quella dei media soprattutto), che la consegnano a schemi ben definiti, a modelli che privilegiano la descrizione del dettaglio, magari di quello più raccapricciante (perché fa audience) e l’interpretazione dei fatti da parte dell’“esperto/a” di turno, fino al considerare il punto di vista della donna che subisce violenza un dettaglio del tutto inutile, quasi mai cercato, ancor meno ascoltato. Per questo la necessità di una autonarrazione, per la riappropriazione del linguaggio adatto a descrivere quello che chi è vittima di violenza realmente vuole far conoscere, per rielaborare l’accaduto e trovare le giuste vie d’uscita, strade di riappropriazione della propria esistenza a dispetto di chi vuole la donna per sempre vittima della violenza subìta, privata anche dei giorni a venire.

Nella narrazione della violenza bisogna confermare stereotipi precisi. Le donne sono vittime, vittimissime, il linguaggio del corpo, le immagini, le campagne promosse, le parole e gli atteggiamenti attribuiti ripercorrono schemi precisi che spesso non corrispondono alle emozioni provate da chi subisce violenza. Gli uomini vengono visti come carnefici mostruosi, privi di umanità, e tutto ciò diventa parte di un meccanismo consolidato di legittimazione di tutele in favore di donne viste sempre come fragilissime, buone per natura, e di repressione nei confronti di uomini che più tempo passa e più rischiano di essere oggetto di linciaggi mediatici, reali, umani, a prescindere dal fatto che siano più o meno accusati di un reato.

Le donne che vivono situazioni di violenza non riescono a raccontarne le contraddizioni, viene detto loro che la narrazione deve corrispondere ad un modello avvocantizio. Ciò che raccontano è buono per la questura, per gli avvocati, per i tribunali, per la giurisprudenza. Tutto subisce uno schiacciamento, viene appiattito sulla base di necessità della difesa e dell’accusa e per necessità di difesa e di accusa non si può raccontare tutto o non si può raccontare come vorremmo.

La narrazione dei propri desideri offesi, dell’assenza di consensualità sulle proprie scelte, di vita, sessuali, di qualunque cosa, deve seguire un registro preciso e non ammette errori né libertà nè evoluzioni culturali.

Come si fa a raccontare di essersi sentite prevaricate se c’è subito qualcuno che traduce quella narrazione in un reato e se chi dovrebbe recepire quella narrazione, in uno scambio di punti di vista o in un possibile ascolto mirato al miglioramento delle relazioni, teme di finire in galera e dunque chiude ogni porta e ogni disponibilità empatica all’ascolto?

La violenza sulle donne è, come abbiamo visto nella campagna “Violenza sulle donne è“, fatta di mille aspetti, ma di sicuro non può essere reato la violenza percepita, si può e si deve raccontare senza censure e senza inibizioni e senza dover essere fedeli a stereotipi che ci vogliono troppo vittime o troppo zoccole.

Si è fatto un esercizio a Livorno, che potete rifare voi, cercando di descrivere un disagio, a partire dalla scelta degli aggettivi, se e quando voglio raccontare una violenza senza voler vittimizzare il personaggio, guardando alla complessità, come si fa? Voglio guardare lui (o lei se è lei che maltratta) e lo voglio descrivere senza farlo diventare un mostro e senza evocare soluzioni autoritarie. Cosa devo fare? Mi interessa raccontare la successione temporale come una somma di eventi che mi hanno portato a quella violenza. Come fare? Voglio definire le mie sensazioni mentre subisco violenza, fuori dai luoghi comuni, narrando le forme di corresponsabilità, il potere che deriva dall’essere vittima, il controllo che si può esercitare su quell@ che viene considerat@ come il/la carnefice. Voglio descrivere chi mi fa violenza, quale livello di consapevolezza ha, qual è lo schema che riproduce, o che si riproduce in quella situazione. Voglio raccontare le dinamiche occorse tra chi provoca una discussione e chi la subisce, tra chi induce uno scontro fisico o chi lo realizza, tra chi vuole toccare e chi vuole essere toccat@.

Mille cose si possono dire per raccontare una violenza. E quel che facciamo noi, qui, è anche di tentare di capire come i media la raccontano. E i media sono quelli che solitamente parlano al posto di donne e uomini che non possono raccontarsi. Ne sostituiscono la narrazione fino ad indurne in fotocopia e poi ad esigere che si interpreti quel copione senza che si possa trasgredire. Perché ci hanno rubato il linguaggio, le parole che ci servono a descrivere ciò che proviamo e bisogna riappropriarsene. I media che narrano non sono in grado di esprimere dubbi. Non devono averne. Nessuna perplessità. Devono interpretare un modello sociale preciso. La vittima, il carnefice. La santa, il mostro. La puttana, lui, la vittima.

I media fanno uno sporco lavoro e hanno anche capito che è comodo censurare l’autonarrazione, che se fatta in modo intimo diventa più complessa, parla altre lingue e racconta le cose senza odio, schematizzazioni, inutili vittimizzazioni o criminalizzazioni al servizio di tifoserie.

Per i media la violenza sulle donne è un business. Più audience. Più click sui siti. Più polemiche ci sono e meglio è. Dunque a questo punto è chiaro il motivo per cui fanno parlare avvocati difensori e accusatori, perchè danno la parola a chi promuove tesi innocentiste e colpevoliste, celebrando battaglie sessiste a tutto spiano che fomentano odio in una direzione o nell’altra.

Di quello che succede in alcuni luoghi non sappiamo nulla. La stampa prende il linguaggio di questura e lo traduce in un articolo. Aggiunge qualche commento o qualche parere e poi lascia che tutto scorra.

Prendete questo presunto stupro di Viterbo. Le ragazze sono già identificate in quanto straniere e un po’ puttane e figuriamoci quante ragazze russe ci saranno a Viterbo. Dopodiché non sappiamo cosa hanno detto. La stampa dice che hanno denunciato uno stupro. Da qualche parte è scritto che gli esami medici hanno confermato la questione. Il che vuol dire cosa? Che sono state lacerate? Che hanno avuto rapporti sessuali? Cosa? Dopodiché parte, a cura dei media più di destra, la gara a chi la spara più grossa per fomentare la battaglia tra innocentisti e colpevolisti.

E allora di colpo questi ragazzi diventano dei mostri. Le ragazze diventano delle zoccole. Ed è lì che si celebra la cultura dello stupro. Nella battaglia tra innocentisti e colpevolisti. Perché di quel che è successo prima non sappiamo nulla.

Lo sappiamo per la ragazza stuprata e quasi uccisa a L’Aquila. La questione è stata chiarita. Sebbene il processo abbia inizio tra qualche giorno e non si possa esprimere una sentenza di colpevolezza. Ma la questione vale per ogni occasione in cui leggiamo una notizia relativa una violenza e sui social si scatena la gara a chi dà del “porco”, solido commento specista, a quello che viene ritenuto lo stupratore, o a chi dà della zoccola a quella che viene ritenuta la menzognera accusatrice.

Su fb, le ragazze, stimolavano una riflessione:

Ora, al di là della faccenda, di cui non possiamo sapere, perché non c’eravamo e perché è assurdo che esistano opinionisti e opinioniste che si dividono tra innocentisti e colpevolisti in casi come questi, la cosa alla quale bisogna strenuamente opporsi è il meccanismo culturale da mentalità di bassa lega che tira fuori gli stessi argomenti di sempre per difendere gli accusati di stupro o viceversa le accusatrici. Da un lato chi dice che le donne ci stanno, che inventano bugie, che se vanno in discoteca e bla bla poi non possono lamentarsi e dall’altra chi fa di tutta l’erba un fascio, di chi non dubita perché se sono uomini è chiaro che nel loro dna c’è un pizzico di istinto da stupratore. Generalizzazioni, stereotipi e pregiudizi e in mezzo i diritti delle persone vanno a farsi benedire. Lottiamo contro una cultura anacronistica chiunque la diffonda e qualunque sia il pretesto per diffonderla.

e poi:

la cultura perfida che realizza un danno alle donne è fatta di chiacchiericcio e di difese d’ufficio, vittimizzazioni santificanti e madonnesche senza sapere nulla o colpevolizzazioni intrise di pregiudizio antizoccole senza sapere altrettanto. in poche parole noi analizziamo i media, prendendoli con le pinze come facciamo sempre e odiamo le tifoserie. non ci piace fare le ultrà addette al linciaggio“.

Indovinate chi sono le prime a opporsi ad una narrazione più complessa di questi eventi e ad esigere che ci si schieri in tifoserie? Tante donne e uomini intrici di paternalismo. Viene da chiedersi perché.

Posted in Comunicazione, Corpi, Omicidi sociali, Pensatoio.


22 Responses

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  1. cybergrrlz says

    No Maria, non sono io che sono venuta da voi a dire che la vostra narrazione è sbagliata. Siete voi che avete deciso che il percorso che stiamo suggerendo lo è. Siete voi che rifiutate qualunque percorso differente dal vostro (e ben inteso nessuno ve lo impone).
    In quanto a Chiara si, la sua insistenza, nei commenti, per ogni argomento che viene da noi trattato, dal fatto che non assolviamo tutte le donne, che trattiamo la maternità in un certo modo, che recepiamo le istanze di altri generi che non sono solo le donne, e via così, mi lascia rispondere ai suoi giudizi sommari e gratuiti che ha un che di sospeso.
    Tu o Fede non so. Posso solo dire che non condivido le conclusioni alle quali siete arrivate. In qualche caso le giudico sessiste, estremizzazioni che criminalizzano tutti gli uomini e assolvono tutte le donne. Una grande difficoltà a vedere il mondo oltre la propria esperienza. E posso certamente dire che estendete voi le vostre conclusioni a tutte le donne al punto tale da sentire l’esigenza di venire a dire qui, a me, noi, che dovremmo fare altro.
    Dunque ricominciamo da capo.
    Raccontate la vostra storia e non generalizzate mai. Questo è un metodo.
    Raccontate la vostra storia, riappropriatevi della narrazione per ciò che vi riguarda e non stabilite un lessico unico per tutte. Noi incluse.
    Per inciso: io non l’ho esplicitata una mia narrazione perché qui, negli anni, centinaia, migliaia di narrazioni sono state oggetto di attenzione, cura e studio. Quello che proponiamo è un percorso di liberazione dagli stereotipi. Incluso quello che dovrebbe darti appeal in quanto vittima.
    Se non vi piace passate oltre. Senza insultare la nostra intelligenza e venire qui a imporci una generalizzazione di contenuti a partire dai vostri percorsi.
    Tanto rispetto, senza dubbio, abbiatene anche per noi.
    Grazie.

  2. Maria says

    Vorrei esprimere la mia solidarietà a Fede e a Chiara e abbracciarle forte forte.
    Vi voglio bene
    Condivido integralmente il loro pensiero.
    E poi: perché essere picchiate dovrebbe creare deliri di onnipotenza o comportare comunque l’esercizio di forme di controllo sull’altro?
    Io non ho mai provato sentimenti simili e immagino neppure Chiara. Te l’assicuro.
    Si adottano anzi strategie di evitamento, si assumono comportamenti che dovrebbero consentire di sottrarsi a ulteriori esplosioni di ira e si è pure convinte che quell’attacco aggressivo che si è subito sarà l’ultimo.
    E’ solo quando ci si accorge che gli episodi di violenza vengono troppo spesso reiterati, che ci si comincia ad interrogare e si acquisisce consapevolezza della situazione che si sta vivendo.
    Perchè cyber non sei disposta ad accettare narrazioni diverse dalla tua?
    Perchè ritieni che la tua interpretazione sia l’unica valida e la sovrapponi al vissuto di qualsiasi donna abbia subito violenza, anche di quelle che non vi si rcionoscono affatto?
    Perché ritieni che la mia narrazione e quella di Chiara siano inficiate dalla mancata elaborazione del proprio vissuto, quando in realtà sono il frutto di un più o meno lungo lavoro di introspezione, di analisi della propria esperienza e di confrotno con quella altrui?

  3. cybergrrlz says

    Dunque sei qui a riscrivere le storie delle “donne” secondo ciò che tu hai vissuto.

    Guarda che io parlo per me, e non far finta di non capire. E se usi la parola “corresponsabile” io mi sento offesa, e mi pare che qui non sono l’unica. Io non mi riconosco colpe, e per smettere di colpevolizzarmi ho pagato di tasca mia la psicoterapia.
    Quindi ascoltami bene; sono stata una vittima,

    Sgradevole tono. Avevo chiesto di raccontare la tua storia e la sputi come fosse la dimostrazione del fatto che tu possiedi la verità in tasca su questo punto. Dichiari di essere offesa e ti ergi a manutentrice della dignità violata di ogni donna che ha subito violenza. Fai passare la parola “corresponsabilità” per “colpa” (ed è proprio quello che io dicevo di evitare perchè se tu attribuisci a quella parola una cosa che ti evoca una ferita o qualcosa di irrisolto è un problema tuo e non della parola in se’) e poi mi chiedi di “ascoltarti bene” prima di attribuirmi una serie di banalità.

    Banale: il debole è quello che picchia e non quello che viene picchiato?

    1] in parte è ciò che dicevo, la forza/potere/controllo che deriva dall’essere picchiat@. E’ non è una cosa buona. Diventa delirio di onnipotenza.
    2] che la persona che viene picchiata non sia debole è una conclusione parziale.

    Hai bisogno di stabilire che tu sei innocente (e chi ha parlato qui di colpevoli e innocenti? cosa c’entra?) e parti in quarta ad evangelizzarci su tue convinzioni derivanti dal livello di analisi e dalle conclusioni che in questo momento hai raggiunto.

    E ora sentimi bene tu: la tua fase qui c’è gente che l’ha superata. Tu ci sei ancora dentro, alla violenza. Reiteri meccanismi rischiosi. Hai bisogno di difenderti. Persino da me. Da noi. Ti senti sovraesposta e non cedi di un millimetro, come un soldato vigile, perché temi di restarne ferita. Non sei sicura di te. Questo a me pare da ciò che dici.

    Chi tenta di superare la violenza è fragilissim@ e se pensi che la forza ti derivi dal fatto che tu “non hai bisogno di alzare le mani per affermare te stessa” guarda quanto bisogno hai di affermare te stessa mentre esigi di essere rappresentata, che il tuo punto di vista sia rappresentato, e continui un commento dopo l’altro, senza stancarti mai, a cercare di ottenere l’ultima parola per mettere il punto a ciò di cui non accetti altre versioni della storia.

    Il bisogno di affermare se stesse mentre si compie un percorso di liberazione può diventare la negazione dei percorsi altrui, diversi dai tuoi. Diventa censura. Diventa processo di identificazione forzata di te con tutte le altre. Diventa assenza di riconoscimento dell’altr@.

    E dunque, giacchè noi abbiamo sempre appoggiato i percorsi di liberazione di tutte (e anche di tutti) ma non ci facciamo tiranneggiare in alcun modo perché non la perdiamo la nostra obiettività, ti dico che serve che tu racconti a te stessa, a noi, al mondo (se credi) la tua storia – tua di te e non delle “donne” – e meriti accoglienza e accettazione e tutto il supporto che ti serve ma non imporre un lessico alle altre e soprattutto non imprimere denigrazione nel percorso che compiamo noi solo perchè non è il tuo e non lo capisci.

    E fuori dai denti direi che la conversazione – se usi questi toni – può continuare in privato perché di subire lezioni di martirio ne abbiamo abbastanza. Qui nessuna ha voglia di fare la martire. Liete di esservi utili ad uscire dall’angolo del martirio se siete rimaste incastrate lì. Quello che qui vogliamo fare, dopo tanto ascolto e tanta consapevolezza acquisita sui percorsi di violenza, è di aiutare le altre a vincerla la violenza e ad andare avanti.

    Avanti, Chiara. Vai avanti. Il marchio delle sopravvissute non è una medaglia. Tu puoi essere molto più che “una donna che è stata vittima di violenza“. Il tuo valore sociale, il tuo status, consiste in altro. E se vuoi discuterne, del perchè e percome siamo tanto confliggenti con questa fase del tuo percorso, siamo qui. Ma lascia che noi proseguiamo nella direzione che abbiamo scelto.

  4. Chiara Lo Scalzo says

    Guarda che io parlo per me, e non far finta di non capire. E se usi la parola “corresponsabile” io mi sento offesa, e mi pare che qui non sono l’unica.
    Io non mi riconosco colpe, e per smettere di colpevolizzarmi ho pagato di tasca mia la psicoterapia.
    Quindi ascoltami bene; sono stata una vittima, e non per questo sono fragile e sottomessa: anzi, sono io quella forte qui, perché io non ho bisogno di picchiare gli altri per dimostrarmi che esisto. Non sono sottomessa, sono una persona civile che si rifiuta di alzare le mani, che si è sempre rifiutata di farlo, anche quando le botte le ha prese, perché io nella violenza non ci credo e non ci crederò mai, e combatto per un mondo in cui la violenza agita è condannata.
    Sono stata una vittima, certo ero giovane e sciocchina, e magari avrei potuto cogliere dei segnali, ma questo che c’entra con la responsabilità? Pensi veramente che uno ti dà uno schiaffo al primo appuntamento?
    Da questa esperienza ho imparato ad aiutare gli altri, mi dedico agli altri, e se parlo di “colpevoli” non lo faccio per demonizzare a priori una categoria di persone: parlo di persone che fanno del male a gente che non se lo merita e per questo fanno fermati, va loro impedito di fare ancora del male, perché si, sono colpevoli, ed io sono innocente.
    Essere vittima non vuol dire essere debole: vuol dire aver subito un’ingiustizia, vuol dire aver subito qualcosa che non meritavi, perché nessuna donna merita di essere presa a sberle, anche se è antipatica e ha la sua personalità e tutto il resto.
    La parola corresponsabile, la parola debole, sono tutte parole che usate a sproposito e che feriscono tutte quelle donne forti che sono sopravvissute a dei compagni così fragili e deboli da relazionarsi a cazzotti.
    Il debole è quello che picchia, non quello che viene picchiato. Ma che cosa vi prende?

  5. cybergrrlz says

    “Le donne” esistono in ogni genere di stereotipo. anche in quelli che apparentemente ti fanno bene.
    le donne buone. le donne mamme. le donne vittime. le donne che non fanno la guerra. le donne che non sono mai violente. le donne bisognose di un tutore che le salva. eccetera eccetera.
    la narrazione sulla violenza sulle donne è strapiena di questi pessimi e deleteri stereotipi e noi quella narrazione la studiamo da tantissimi anni e ne viene fuori una privazione enorme. è un furto di identità. anzi è una totale riscrittura che se non aderisce ad un dogma tu vieni percepita immediatamente come nemica. è una riscrittura dicotomica. sei vittima o carnefice. sei carnefice o vittima. fintanto che ci facciamo scippare l’analisi delle complessità da chi promuove assoluzioni o condanne senza appello per chi la violenza la compie o la subisce non ne usciamo.
    Le storie sono tante e diverse. L’unica versione della storia che è stata imposta è quella che ti vede come vittima e bisognosa di tutela. Non c’è reazione, non c’è “corresponsabilità”, non c’è interazione, non c’è una analisi reale che dia parole a quello che una donna vittima di violenza sente.
    L’unica cosa che viene detta, quando arriva un dubbio, è che bisogna rimuovere perché lui è colpevole e basta. E la violenza va condannata sempre, certo che si, e figuriamoci se non è così, spiace che si senta il bisogno di ricordarcelo, pensavamo di non averne bisogno a questo punto. Ma la faccenda è più complicata di così.
    I dettagli di una violenza vissuta ricompongono una persona frammentata. I frammenti di quella persona non possono essere sintetizzati in versioni così semplicistiche e giurisprudenziali. Non è la violenza a sconvolgere una persona ma è il tuo rapporto con essa che va risolto. Perché chi vive una violenza con quella violenza ha imbastito una relazione. per non parlare dei modelli di violenza interiorizzata in cui si ricreano schemi di relazione in cui tu riesci a intepretare il ruolo della vittima attribuendo il ruolo del carnefice a qualcun altro. Ed è solo un esempio. uno dei tanti.
    la violenza la eviti se la vinci dentro di te. la eviti se la sconfiggi come modello di relazione. la superi se indaghi sulle fragilità che te l’hanno fatta accettare o perfino perseguire. e se sbagliando questa analisi viene scambiata per una assoluzione per chi fa violenza e una condanna per chi la subisce siamo sempre sul piano giurisprundenziale e di quello non ci interessa.
    bisogna parlarsi chiaramente e dirsele le cose.
    prima di vivere un conflitto in una relazione tu chi eri? che facevi? di che vita vivevi? quali erano le tue fragilità? perchè non hai visto? perchè hai scelto lui? è tutto passivo? davvero?
    e tutto ciò è nell’assoluto rispetto di chi la violenza l’ha subita. certo. ma se ti occupi di questo tema non puoi trattare le donne come inferme, disabili, non in grado di intendere e volere, completamente stupide e malate. persone da assistere con il piglio del medico gentile che non può mai fare emergere una contraddizione per paura che si spezzino.
    o fai riemergere la loro forza, quella che le fa intere, buone e cattive, giuste e sbagliate, imperfette, o le condanni alla passività perenne.
    non mettere loro le parole in bocca. non dettargli un dogma. non dire loro come devono sentirsi quando subiscono una violenza. riappropriamoci del dolore, delle vite, delle esperienze, di tutto. perchè è necessario.

  6. Chiara Lo Scalzo says

    Invece “le donne esistono”, certo non nella realtà, ma nell’immaginario di chi vive in un certo tipo di sistema: il sistema che vuole le donne tutte rosa, che vuole le donne a casa, che le vuole ancorate ad un concetto arcaico di famiglia e di suddivisione di ruoli. Le donne sono quelle rappresentate dalle battute sulle loro scarse capacità di guidare, le donne della pubblicità di zalando, che sanno sollevarsi solo quando si tratta di comprare scarpe… Le donne vere, quelle che vogliono abbattere questo genere di stereotipi e rivendicare la propria individualità, possono farlo solo riunendosi, trovando in questa lotta comune lo stimolo a fare gruppo e stimolare le coscienze, perché solo se tante voci si uniscono e gridano in coro è possibile farsi ascoltare…
    Francamente, non ci trovo niente di male nel riunirsi, nel provare solidarietà, nel fare propria la causa di qualcun altro, nel lottare per difendere i propri simili: perché siamo tutti diversi, è vero, ma siamo tutti esseri umani. Possiamo essere speciali, eppure riconoscerci nell’altro: è l’empatia, quello che ci fa sentire “simili”, il sentimento che impedisce di agire con violenza.
    La violenza agita contro le donne spesso non è la violenza di un singolo contro un altro singolo: non c’è niente di personale nella violenza di genere.
    Prendi lo stupro, ad esempio: non è una persona che agisce contro un altra persona, non c’entra nulla la fenomenologia della vittima. Quello è un corpo, è un essere umano spersonalizzato, privato della sua dignità di creatura e trasformato in oggetto da consumare. La donna stuprata, nella mente dello stupratore, non è Maria, Sandra, Antonia, è solo un pezzo di carne. “Carne fresca” è un espressione che si legge ancora, nel web, riferita alle donne.
    Il dramma che vive quella persona, la vittima dello stupro, è il suo dramma, quello si dipende interamente dal suo essere individuo ed è una storia a sé: ma la cultura che genera questi atti è collettiva, dipende da una idea di “donna” che non è una persona, ma è “le donne”, tutte “le donne”: vecchie, giovani, belle, brutte, in minigonna o in grembiule…
    Io credo che per combattere la violenza di genere bisogna fare i conti con quell’immagine, l’immagine della “donna”, oggettivata e capro espiatorio.
    Un “colpevole” non serve in Tribunale, serve anche a condannare socialmente un comportamento diffuso: rubare è sbagliato, picchiare è sbagliato, stuprare è sbagliato.
    Poi, ovviamente, ogni singolo caso va analizzato:si può rubare per fame, invece che per avidità… Ma questo non modifica, non deve modificare il principio di fondo: rubare è sbagliato.
    E’ bellissimo il discorso di dare voce alle singole storie per “ripersonalizzare” le persone “spersonalizzate” dalla violenza: dare loro un volto vero, un nome, una storia personale, rendere loro la dignità di individui che la violenza e un certo modo di raccontare la violenza tendono a nascondere.
    Ma non dimenticatevi che chi agisce la violenza va condannato: in Tribunale e ovunque se ne parli. Nel rispetto di chi l’ha subita.

  7. cybergrrlz says

    Direi che quello è il significato che alla parola corresponsabilità attribuisce l’avvocato in sede di tribunale. Qui si fa qualcosa di diverso e separare le due faccende, quelle che stanno nei tribunali e quelle che vanno elaborate affinchè si possano superare dentro di se’, è una cosa ben diversa.
    Tante donne non denunciano la violenza domestica perché le soluzioni proposte sembrano sproporzionate, spropositate, spersonalizzanti, perché affidare a terzi la “tua tutela” ti restituisce una immagine di te che neppure ti corrisponde. Di colpo diventi quella che non ha mai detto o fatto niente di sbagliato, che non ha mai partecipato a quelle discussioni, l’angelo, la santa, la martire. di là il carnefice e di qua la vittima. è non è così che funziona. non lo è mai. c’è che per impegnarsi a capire cos’è la violenza e come risolverla ti hanno spiegato in tutte le salse che c’è un colpevole. va bene in tribunale. ma non va bene per te. chi vive una violenza sa che resta sempre qualcosa di sospeso. qualcosa che va preso e sezionato e rielaborato per poter rinascere.
    allora la questione è che bisogna andare oltre gli stereotipi, senza aver paura, e senza dover certificare l’innocenza delle donne che subiscono violenza in generale perchè ciascuna stabilirà per se’ anche il significato della parola “innocente.
    Ma detto ciò, davvero, mi piacerebbe sentire le “vostre” narrazioni sulla violenza che avete subito. senza generalizzazioni. che ciascuna racconti la propria e non pretenda di diffondere un lessico che si adatta per tutte.
    “le donne” non esistono. le donne siamo noi. una ad una. facciamo che ciascuna parla per se’ e non per una intera categoria.

  8. Chiara Lo Scalzo says

    Sul discorso delle corresponsabilità, vorrei dire una cosa.
    La parola corresponsabilità è ambigua. E’ ovvio che viiamo in un ambiente pervaso daun certo tipo di cultura. Oggi ero ad un battesimo. La predica riguardava quel passo del Vangelo in cui Gesù commenta la legge ebraica e la pratica del ripudiare le mogli. Chiunque conosca un minimo la Torah e la toria ebraica, saprebbe che l’ebraismo è una religione molto maschilista, e scoprirebbe che Gesù era straordinariamente femminista, ma questo, ovviamente, la Chiesa non lo racconta. Così oggi il Prete, invece di affrontare un argomento completamente ignorato, ovvero la forte presa di posizione dell’uomo Gesù, che voloeva rendere dignità a chi non laaveva, donne e bambini, ha stravolto completamente il testo finendo col fare una terribile predica alle donne sul tenedere sempre la mano aperta verso i mariti (testuali parole)… Ero lì seduta e pensavo: ma stiamo scherzando? Mi sarei voluta alzare e dirgli: ma non ti vergogni? Ma che stai raccontando? E’ tutta roba che vi siete inventati di sana pianta, e vi dovreste vergognare a parlare così! Mistificatori, insidiosi, bugiardi!
    Ma, ovviamente, non l’ho fatto.
    Ecco, questa è la mia responsabilità. Mi sarei dovuta alzare, in mezzo alla Chiesa gremita, e gridare “vergogna! vergogna!” E mettere a tacere quel vecchio che continuava a biascicare sulla donna costode del focolare e misericordiosa e pietosa e piena d’amore e di perdono… E non l’ho fatto. Ricacciargli in gola tutte quelle boiate e tirargli in testa tutti quei volumi e volumi di vecchi padri della Chiesa che si sono inventati un mucchio di sciocchezze sulla pelle di uno che è finito crocifisso perché li sfidava, quelli come loro, e aveva apostoli donna (ma non ce la raccontano così, ovviamente) e insegnava alle donne, cosa che era severamente proibita. Uno che molto poco pacatamente rispondeva per le rime, e buttava all’aria le bancarelle dei mercati come un manifestante incavolato nero. Uno che voleva cambiare le cose.
    La corresponsabilità sta in questo: nel non impegnarsi a cambiare le cose.
    Tutto il resto è…
    Le donne non denunciano la violenza domestica proprio perché angosciate dall’essere percepite come complici: hai perdonato il primo schiaffo, il primo spintone, hai mentito su quell’occhio nero, e sei diventata complice. E ti senti costretta a mentire ancora per nascondere la vergognosa colpa di essere complice. Se sei con lui, forse sei come lui. Il compagno violento te lo sussurra spesso: sei tu, che mi hai portata a questo, sei tu che me lo fai fare… Davvero? Siamo masochiste? Ci piacciono gli schiaffi, i capelli strappati, i lividi sul corpo… Ci piacciono?
    Questo, chi lavora nei centri antiviolenza lo sa bene, e il percorso che si fa fare a queste donne parte proprio da lì: perdona te stessa, non vergognarti, alza la testa e punta il dito verso il vero colpevole: chi ti ha colpito? A voce alta, senza paura e senza vergogna, chi ti ha colpito?
    Usiamola con delicatezza, la parola corresponsabilità. C’è ancora tanta, tanta vergogna in giro, tanto dolore nascosto nelle mura di casa, che da quelle mura deve uscire: le donne devono ancora imparare a parlare…
    Il masochista ama il dolore. Chi subisce il dolore non lo ama, né lo desidera, men che meno lo provoca.

  9. Chiara Lo Scalzo says

    Io azzarderei una terza via. Le vittime della violenza sono due: la vittime che subisce, e il carnefice, che è vittima di se stesso: perché una persona che per andare avanti ha bisogno di colpire, umiliare, distruggere, annientare, torturare, è una persona infelice, una persona altrettanto condannata. Altrettanto ferita. logorata, distrutta. Anche se magari non è consapevole.
    E questo non lo dico per trovare alla violenza una giustificazione, ma perché io sono arrivata a provare una profonda pena per chi agisce attraverso la violenza. Per chi minaccia invece di dialogare, per chi impone invece di chiedere, di argomentare, per chi urla invece di parlare, per chi ha così paura da trasformarsi in un mostro…
    Chi aggredisce è fragile, ha paura, soffre, e tutto quel dolore diventa rabbia, diventa odio… sono persone dall’anima dilaniata, altrettanto dilaniata.
    Questo non si significa che se siamo in grado di compatirle, dobbiamo lasciarle agire il loro odio indisturbate. Fanno fermate, per il male che fanno agli altri e per il male che fanno a se stesse.
    Certo che i mariti che uccidono, come recitano gli articoli di giornale, erano tormentati dalla gelosia, accecati dal dolore di aver perso qualcosa che ritenevano di aver diritto a possedere e controllare, e questi, si, sono sentimenti, e loro degli esseri umani: la banalità del male.
    L’errore che commettono molte vittime di violenza è quello di credere che potranno aiutare queste persone: vedono in queste persone la parte sofferente, vedono in queste persone quello che avrebbero potuto essere se non fosse intervenuto quel quid che le ha trasformate in quello che sono, le vedono per quello che sono: delle vittime della loro stessa violenza…
    Ma non funziona. E non so il perché, ma non funziona. Io non l’ho mai visto funzionare.
    Comunque, non tutte le relazioni in cui c’è violenza agita si possono ridurre al binomio sadico/masochista… Non tutte. Il masochista gode nello star male, si compiace del suo ruolo di persona che subisce: è la condizione di chi vive il dolore come accentuazione del piacere, che trova nel dolore una qualche soddisfazione.
    A volte se resti, resti per umanità, per l’idea che hai di essere “umani”. Resti perché pensi di avere un potere, si, quello di aiutare, quello di salvare, quello di redimere… Perché credevi che l’amore può salvare le persone. Da dove la tiriamo fuori questa idea, forse dal Vangelo… Tutte quelle domeniche in Chiesa con la nonna, a sentire che bisogna porgere l’altra guancia e magicamente il cattivo ladrone diventerà buono e andrà in Paradiso… Senza riflettere sul fatto che l’altro ladrone, invece, è rimasto stronzo fino all’ultimo respiro… E accanto aveva il figlio di Dio. Allora pensi: e io chi sono? Certo non sono il figlio di Dio… se non riuscivano tutte col buco a Lui, le ciambelle, io che diamine sto facendo?
    Scopri che sei impotente. Che non stai aiutando proprio nessuno, anzi hai peggiorato le cose. E scegli di salvare almeno una persona: te stesso. Salvare se stessi non è egoismo: e quando lo capisci stai meglio.
    E come se ti fossi tuffato, per tirare fuori dall’acqua in tempesta qualcuno che sta affogando, ma questo qualcuno si agita, nel panico, ti strangola, ti graffia… Così per non affogare, lo lasci al suo destino, e torni a riva. E pensi: che affoghi. Ti dispiace, ma non troppo: perché poi guardi meglio e vedi che non va a fondo, è sempre lì, che arranca, che urla, che grida aiuto… Sta aspettando che passi qualcun altro.

  10. Paolo84 says

    “Quanto al desiderio di vendetta, trovo che sia umano e lo comprendo se viene dalla vittima o dai suoi familiari”

    Beninteso, rispetto pure chi trova la forza di perdonare, sono cose che riguardano la coscienza individuale io non giudico.
    Comunque io oltre all’importanza dell’autonarrazione torno a suggerire di leggere qualche romanzo di Stephen King (in particolare Rose Madder, Dolores Claiborne ma anche It per quanto riguarda la figura di Beverly, Notte buia niente stelle e anche il suo ultimo romanzo 22/11/’63) un autore uomo che ha raccontato questi temi con profondità e sensibilità

  11. cybergrrlz says

    quello che hai da dire non è da rispettare solo perchè lo racconti.

    Fede, estremizzi e non comprendi quello che qui si scrive. spiace che tu ci debba infliggere la scena dell’indignata che resta in superficie.

    ma vorrei sentire la tua storia autonarrata di violenza. di quella delle altre parleranno le altre. non sei tu a stabilire i criteri dell’autonarrazione e non puoi neppure banalizzare un ragionamento che tende a fare uscire le forme autonarrative da stereotipi che sono controproducenti per le stesse donne.

    la sintesi di una TUA presumibile storia di violenza è che tu sei la vittima e lui il mostro?
    ci sono delle corresponsabilità, si. e sei tu che stai cercando una misura, se più o meno, perchè io non l’ho mai detto. dico che se non individui le corresponsabilità, le complessità, le sfumature e sei felice di vedere le donne in quanto vittime sante e da tutelare non le aiuti per niente.

    ci sono donne che si sentono in colpa proprio per questo. perchè la propria narrazione non corrisponde al copione che viene loro ricucito addosso. e se non si liberano i non detti continueranno a sentirsi in colpa.
    e ancora, come diceva Fasse, quando si parla di violenza sulle donne non esistono i dogmi, non è una religione. sono percorsi personali e come tali vanno trattati.

    se io domani scrivo una autonarrazione che parla di corresponsabilità dirai che è sbagliata perchè non corrisponde a ciò che pensi tu?

  12. cybergrrlz says

    Maria, io ti capisco benissimo.
    E dicevo appunto che questa è la tua narrazione. E va bene. Non sto mettendo in discussione nulla.
    Ti dico solo che è la tua vicenda e che ciascuna ha un vissuto proprio.
    Creare degli standard narrativi sulla violenza intendendo ogni situazione come fossero identici non va bene.
    Dopodichè non volevo appunto entrare nel merito della tua storia della quale ho estremo rispetto.
    Parlavo di modalità narrative e ti sei fermata sul termine “corresponsabilità” ove per corresponsabilità si intendono tante cose, anche l’elaborazione del vissuto che ti ha portato incidentalmente a subire una situazione di violenza.

    Voglio dire che prima di essere una vittima di violenza tu sei una persona. E lui pure. Problematizzare la relazione è un fatto che ti consente di guardare avanti. Tu chi eri? Da dove venivi? Davvero credi a quelle storie in cui qualcuno dice che ha incontrato il principa azzurro e poi si è trasformato di colpo in un mostro cattivo?
    Cosa non ti ha permesso di individuare prima i meccanismi della violenza? Cosa ha addomesticato la tua percezione. Cosa ti ha indotto a ritenere le tue sensazioni su quanto subivi inaffidabili?
    Queste non sono “colpe” (ed è qui che non ci intendiamo) ma sono consapevolezze necessarie per non ricaderci ancora. Possono ritenersi delle corresponsabilità. Come fai oggi a riconoscere e tenere lontana la violenza e perché prima non l’hai riconosciuta e tenuta lontana?

    Se raccontiamo alle altre che esiste il mostro cattivo sai bene che non diciamo la verità.
    Se ci autoeduchiamo ad una autonarrazione della violenza subita (o di quella inflitta per chi la fa) che definisca nel dettagli tutti gli elementi allora capiremo, tutte, che come sempre accade il percorso di superamento è a partire da se’.

  13. fede says

    >>>> Ci sono violenze che si realizzano e durano nel tempo e ciascun@ ha un ruolo preciso nella sua realizzazione.
    Allora ricomincia da capo e realizza la tua autonarrazione senza generalizzare. Dal personale al politico. Accettando le altre esperienze.<<<<

    Veramente senza parole.!!!!!!!
    responsabilità condivisa?????????
    un ruolo preciso??????
    Corresponsabilita'?????
    Cioè il ruolo di chi subisce una vita di violenza senza riuscire ad uscirne se non dopo un percorso difficile, sarebbe la stessa cosa di chi la violenza l'ha agita?
    Vanno interpretati allo stesso modo?
    ma che state dicendo?
    anche Hitler si autonarrato all'infinito.
    quello che hai da dire non è da rispettare solo perchè lo racconti.

  14. Maria says

    Non riusciamo ad intenderci cyber. Ho l’impressione di non essere compresa da te.
    Io non agivo la violenza, la subivo e mi sentivo responsabile di quel che subivo. E’ diverso.
    Non esercitavo alcun potere di controllo sull’altro. Lo temevo. Era l’altro che esercitava un potere di controllo su di me.
    Non ero masochista, mi ritenevo colpevole. Era l’altro che mi accusava di provocare e la “provocazione” consisteva semplicemente nel pronunciare le parole “ma insomma” o nel rovesciare un caffè. Te lo giuro.
    Io sono uscita dalla violenza, proprio perché ad un certo punto ho iniziato a percepirmi come vittima e a comprendere che dovevo porre fine a quella situazione.
    Proprio per questo oggi vivo una relazione serena e so che non accetterò mai più che mi si faccia del male.
    Così è accaduto ad altre donne che conosco: a mia sorella ( e non solo a lei), che ha intrecciato da tempo una relazione con un uomo meraviglioso.

  15. cybergrrlz says

    Maria non capisco dove hai letto il fatto che io consideri le donne vittime di violenza tutto quello che dici tu. Dopodiché parli della tua esperienza e dunque è la tua narrazione e io la rispetto. Ma da lì a ritenere che tutte le donne vittime di violenza corrispondano alla tua narrazione ce ne corre.

    Il punto è questo. Tu stabilisci che la netta separazione tra vittima e carnefice sia necessaria al tuo percorso, per uscire dalla violenza perché altrimenti ne rimani imbrigliata.
    Stai parlando di un percorso, sicuramente necessario, di liberazione. Ma dopo aver superato quel percorso ed esserti affrancata dalla condizione di violenza subìta spero che non rimarrai a interpretare il ruolo di vittima per tutta la vita.

    E questo lo dico a te con tutta la delicatezza e il rispetto che ti sono dovuti e dopo aver ascoltato e letto migliaia di storie di violenza che differiscono l’una dall’altra.

    Il tuo percorso è tuo. Non può servire da monito per censurare altre forme narrative.
    Uscire dalla violenza è un percorso difficile, lo sappiamo.

    Dopodiché la maggior parte delle donne che ci hanno raccontato le loro storie trovavano di per se’ stonato non definire la percezione di inesattezza, non completezza della violenza subita.

    La legge ti dice che ci deve essere una vittima e un colpevole. La autonarrazione, che è anche un percorso di elaborazione e che non può trovare vie di mezzo, abbreviazioni, semplificazioni, non stabilisce quei parametri.

    Quando tu hai compiuto la scelta di “smettere” con la violenza allora dovrai anche dirti che in qualche modo la agivi. Ci vivevi in mezzo. Ne eri dipendente. Era anche il tuo linguaggio. Ti nutrivi di masochismo e del potere/controllo fittizio che ne derivava. E se non cogli queste parentesi di corresponsabilità, che non sono attenuanti in tribunale, perché stiamo parlando di narrazione e non in legalese, tu non potrai mai uscire davvero dalla violenza.

    Non ne esci finché non smetti di sentirti vittima e di vedere in lui il tuo carnefice. Non smetti fintanto che non hai un approccio sereno a queste questioni e tutto ciò ti espone a nuovi pericoli perché se non elabori queste cose, quando ciò non ti riporta indietro, chiaro, ché se senti questo rischio hai da prenderti il tuo tempo, se non elabori tutto ciò hai solo due scelte: o non intraprendi più alcuna relazione e se lo fai farai sentire insicura la persona che starà con te perchè ti imporrai nella relazione sempre e solo come vittima o agirai altra violenza e di riflesso ricreerai le condizioni affinché si determini quella che è, talvolta, in tutto e per tutto una dipendenza psicologica.

    La distinzione netta in queste cose realizza solo un danno per le persone che sono vittime di violenza. Ne compromettono l’equilibrio e la serenità future. Uscire dalla violenza significa anche raccontarsela e dire a te stessa dov’eri quando quella violenza accadeva.

    Non sto parlando dell’aggressione tout court di uno che arriva per strada e ti massacra. O di quello che in casa di punto in bianco ti picchia. Ci sono violenze che si realizzano e durano nel tempo e ciascun@ ha un ruolo preciso nella sua realizzazione.
    Allora ricomincia da capo e realizza la tua autonarrazione senza generalizzare. Dal personale al politico. Accettando le altre esperienze.

  16. Maria says

    No, non è così, cyber, non è così. Non riesco a sopportare il dolore che mi provocano le tue parole che risultano profondamente ingiuste, alla luce della mia esperienza di donna che ha subito e, soprattutto, ha assistito a violenze molto gravi perpetrate su altre donne.
    Permettimi di dirtelo.
    Concepire una donna vittima di violenza come corresponsabile di ciò che le è inflitto significa colpevolizzarla, ritenerla una provocatrice.
    E’ esattamente il tipo di accusa che l’uomo che commette violenza rivolge alla vittima.
    La donna che la subisce, a sua volta, non si percepisce come vittima, ma tende piuttosto a colpevolizzarsi, ad attribuirsi la responsabilità di tutto quel che accade. E’ un modo per sfuggire all’impotenza, per convincersi che, modificando il proprio comportamento, riuscirà a cambiare anche quello dell’uomo che le sta facendo del male. Ho pronunciato le parole “ma insomma”, con tono troppo deciso, – dice fra sé e sé – merito dunque di essere punita. Non lo farò più. Ho parcheggiato male l’auto nel cortile o ho rovesciato il caffé, merito dunque di essere ricoperta di insulti, di essere denigrata e umiliata perché sono effettivamente una buona a nulla. E’ questo l’atteggiamento che assume la vittima della violenza.
    Il suo comportamento non conduce affatto all’esercizio del controllo e della supremazia sull’altro. Al contrario! La donna è dominata dalla paura, dal terror panico, si riduce al silenzio, cerca di rendersi invisibile, si annulla, limita drasticamente le proprie azioni, adotta strategie di evitamento, per non commettere errori, per sfuggire all’irritazione di chi le fa del male. E’ così che io sono diventata maldestra e tremendamente ansiosa.
    E’ soltanto quando cessa di colpevolizzarsi e inizia a percepirsi, spesso grazie al sostegno e ai consigli di qualche parente o amica, come vittima di soprusi, che la donna può mutare la propria situazione.
    Si rende conto allora che il comportamento anomalo non è il suo, ma quello del partner che reagisce in maniera aggressiva e sproporzionata a qualunque piccolo incidente e pretende di esercitare un controllo e un dominio assoluto sulla sua vita, soffocando ogni manifestazione della sua autonomia.
    E’ a questo punto che la donna non accetta più di essere oppressa, costretta alla subordinazione e all’obbedienza e decide di reagire ponendo fine alla relazione malsana, fuggendo, trovando riparo in un centro antiviolenza o, nei rari casi fortunati, (quando cioè le violenze sono solo episodiche) a reimpostare il rapporto su un piano di parità.
    Percepirsi come vittima è l’ indispensabile preludio alla successiva ribellione alla violenza che si subisce.
    Occorre separare nettamente la figura della vittima da quella del colpevole. La prima è assolutamente innocente, il secondo ha responsabilità che deve imparare ad affrontare per poter cambiare. Ciò non significa affatto attribuirgli la patente di mostro.

  17. Paolo84 says

    ” la donna viene bombardata di domande,
    bisogna conoscere tutto fino all’ultimo dettaglio per poter essere sicuri.”

    va detto che se gli inquirenti fanno queste domande, non è per cattiveria, è che devono ricostruire i fatti per il processo, processo in cui l’avvocato della difesa cercherà di metterli in dubbio, presumibilmente. Certo, quando ci si rivolge a chi ha subito violenza bisognerebbe avere molto tatto
    X fasse
    quando si fa un film qualunque sia l’argomento, l’importante per me è raccontare in maniera efficace ciò che vuoi raccontare nello stile e nel registro che hai scelto

  18. fasse says

    Ma nn capisco perchè c’è questo bisogno, ultimamante e nn solo da voi, di paragonarla quella maschile.
    Son due posizionamenti diversi.
    Non possiamo metterli insieme.
    Non dico che la loro parola nn valga nulla, solo in casi di stupro, se permetti ascolto quella delle donne.
    O no?

    Ti giuro che non serve che ci spieghi cosa viene detto ad una donna che denuncia di essere maltrattata. 🙂
    Dopodiché di uomini ne muoiono, non per mano di una donna nella stessa cifra, ma per violenze sociali e individuali rispetto alle quali la responsabilità ricade anche su di noi e come vedi l’insurrezione non c’è e non c’è neppure chi parla di emergenza.

    Le denunce e le cose di cui si parla coinvolgono donne e uomini per forza di cosa. Entrambi i generi sono protagonisti di queste faccende e tu puoi scegliere di ascoltare solo una parte. Io scelgo di ascoltare tutti/e.

    E dato che qui non siamo in un tribunale a stabilire se la parola di qualcun@ deve avere valore probatorio o meno (proprio per la necessità come si dice nel post di allontanarsi dalla versione giurisprudenziale delle narrazioni) si sente la necessità, io la sento, di guardare la questione nel suo insieme. Perché si fa cultura e non un processo.

    Se tu racconti una vicenda che parla di stupro, realizzi un video, un film, qualcosa, scegli di parlare solo di lei? Di quello che dice lei? di cosa pensa lei? ne risulterebbe una narrazione incompleta e parziale.
    di lui parli sempre, anche quando non ne parli, anche quando lui lo rappresenti solo con un ombra.
    e l’apparente non parlarne significa che hai già deciso cosa avrebbe da dire e gli hai attribuito un ruolo: quello del carnefice.
    lo hai già definito.

    quindi anche tu stai compiendo un paragone tra “la parola delle donne” e quella degli uomini. e hai deciso che quella delle donne vale di più. così a me sembra.

    in ogni storia ci sono due versioni. che ci piaccia o no. finchè neghiamo la possibilità di leggere entrambe le versioni della storia procediamo d’ufficio per una vittimizzazione e santificazione delle donne a tutti i costi e per una demonizzazione e criminalizzazione degli uomini a tutti i costi. E ne viene fuori una visione parziale, incompleta e non veritiera della questione. una visione che non quadra neppure per chi subisce una violenza, credimi.

  19. fede says

    Fasse
    Mi trovi d’accordo.
    Niente santificazione della vittima.
    Ma cmq nn parlavo di narrazione ma commentavo quel post di fb.
    Solo quello.
    No, la parola delle donne non è dogma, ci mancherebbe.
    Ma nn capisco perchè c’è questo bisogno, ultimamante e nn solo da voi, di paragonarla quella maschile.
    Son due posizionamenti diversi.
    Non possiamo metterli insieme.
    Non dico che la loro parola nn valga nulla, solo in casi di stupro, se permetti ascolto quella delle donne.
    O no?
    E’ importante, come tutte sappiamo, dare voce alla narrazioni della violenza .
    Qual’è la prima reazione di fronte ad una donna picchiata o maltrattata da marito?
    ( e nn pensiamo a noi che in qualche modo su questi aspetti riflettiamo da molto).
    Solitamente è di negazione da parte di chi ascolta, la donna viene bombardata di domande,
    bisogna conoscere tutto fino all’ultimo dettaglio per poter essere sicuri.
    Ma sicuri di cosa, che lei nn lo meritasse, che nn abbia scatenato l’ira di lui.
    Lo sappaimo bene come vanno queste cose, l’avete anche scritto voi in questo articolo.
    Quando una donna viene stuprata la prima domanda che le persone si fanno è : ma perchè lei stava li con quell’uomo/uomini?.
    Allora tra noi dobbiamo darci forza e far sentire la voce anche di chi nn ce l’ha, di chi vorrebbe ma non può, ma soprattutto di chi l’ha fatto e non è stata ascoltata.
    Quante donne sono morte perchè ” mi spiace ma finchè non lo prendiamo in flagrante non possiamo afre nulla”.
    La verità è che non frega a nessuno, solo anoi.
    Se ogni anno 100 uomini venissero uccisi dalle donne, nel nostro paese, ci sarebbe un insurrezione.
    E invece guarda un pò, siamo sempre e solo noi a parlarne.
    Cmq ho letto che il 18 inizia il processo alla ragazza stuprata all’Aquila.
    Spero di vederci tutte li.

    ciao

    ps: il chissenefrega della galera è per dire che io nell’istituzione della galera non credo assolutamente.
    io odio il carcere e che lo stupratore finisca in galera non cambia nulla per noi.

  20. fasse says

    Fede: “Stiamo attente a fare ragionamenti del genere.
    Chissenefrega che finiscano in galera.
    La cosa più importante è che la voce delle donne venga ascoltata e creduta.

    guarda no, “la parola delle donne” non è un assunto religioso da difendere. Come dire “la parola di dio”.
    io difendo le donne se dicono cose che condivido e nel caso di denunce di violenza le supporto se ne hanno bisogno ma il chissenefrega che la gente finisca in galera, realizzando una narrazione della violenza a senso unico purchè “la parola delle donne” sia inscindibile dalla fede in esse, è un minimino assurda.

    io difendo le donne vittime di violenza e non “la parola delle donne” a tutti i costi incluso quelle che dicono cazzate a non finire. perché l’estremismo opposto è che “la parola degli uomini” non vale niente. e questa, per quel che mi riguarda, è una cosa pericolosa e bisogna fare molta attenzione a fare ragionamenti del genere. niente dogmi, please, cybergrrlz provava a fare un ragionamento laico. intendendo le donne perfettibili e umane, come ogni persona sulla terra. ma più di tutto lei diceva che il percorso di autonarrazione se segue quello dell’ideologia omette delle complessità che sono fondamentali da ricordare, elaborare per un superamento della violenza stessa, ché ad interpretare la vittima santificata a tutti i costi non c’è nulla da guadagnare.

  21. Paolo84 says

    non è questione di tutele o vittimizzazioni, è questione che lo stupro è un reato gravissimo contro la persona e lo Stato ha il dovere di punirlo..abbiamo le leggi, abbiamo un sistema giudiziario (che certo garantisce come è giusto anche i diritti degli imputati che sono presunti innocenti fino a sentenza) esigere che funzioni per punire gli autori di queste violenze non è paternalismo, è un nostro diritto e non vuol dire considerare “mostri” persone che per me sono esseri umani che hanno fatto qualcosa di orrendo (e tra l’altro il carcere dovrebbe in teoria servire anche a queste persone per recuperarle se possibile) però le vittime esistono ed esistono anche i carnefici pur con tutte le complessità che vogliamo.
    Quanto alle “false accuse” di stupro, le statistiche dicono che ci sono ma sono poche e di solito vengono subito scoperte.
    Quanto al desiderio di vendetta, trovo che sia umano e lo comprendo se viene dalla vittima o dai suoi familiari

  22. fede says

    >>>Da un lato chi dice che le donne ci stanno, che inventano bugie, che se vanno in discoteca e bla bla poi non possono lamentarsi e dall’altra chi fa di tutta l’erba un fascio, di chi non dubita perché se sono uomini è chiaro che nel loro dna c’è un pizzico di istinto da stupratore. Generalizzazioni, stereotipi e pregiudizi e in mezzo i diritti delle persone vanno a farsi benedire. Lottiamo contro una cultura anacronistica chiunque la diffonda e qualunque sia il pretesto per diffonderla.”<<<>>>>“Ora, al di là della faccenda, di cui non possiamo sapere, perché non c’eravamo e perché è assurdo che esistano opinionisti e opinioniste che si dividono tra innocentisti e colpevolisti in casi come questi,<<<<<

    Io invece lo so, le donne lo sanno.
    Io so che una o alcune donne hanno denunciato uno stupro.
    I particolari non mi interessano.
    E' questo il gioco della cultura dello stupro.
    Mettere in dubbio la parola delle donne, cercare prove morbose, voler conoscere a tutti i costi i particolari.
    Stiamo attente a fare ragionamenti del genere.
    Chissenefrega che finiscano in galera.
    La cosa più importante è che la voce delle donne venga ascoltata e creduta.