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Le donne della mia famiglia e la comprensione

Fin da piccola mi hanno insegnato a comprendere, nell’accezione di “aver comprensione, quindi giustificare”. Sia mio padre che mia nonna mi ripetevano che se ci fossi riuscita, a comprendere, sarei stata amata e voluta bene da tutt@.

Per molto tempo ho pensato che avessero ragione e che in fondo era quello che facevano tutte le donne della mia famiglia. Entrambe le mie nonne erano comprensive, capivano i loro mariti, i loro tradimenti, i loro scatti di ira, le volte che le picchiavano e umiliavano.

Erano uomini, erano lavoratori, erano i loro mariti che, avendo su di sé tutto il peso della famiglia, era comprensibile che a volte si arrabbiassero. Anche le mie zie, compresa mia mamma, sono sempre state comprensive.

Ricordo le liti furiose, le minacce, gli schiaffi, i calci, i pianti, le porte che sbattono e quel silenzio che segue la tempesta e che sembra inghiottire la casa. Ricordo le giustificazioni del giorno dopo, i famosi “papà era arrabbiato, lo avete fatto arrabbiare, aveva ragione ed ect”.

Ricordo quell’unica volta che mia madre, presa dalla disperazione fa le valige e solca il pianerottolo. Mio padre ci prende accanto e inizia a urlare che una madre non lo fa, non abbandona i propri figli, che “non senti come piangono???” e cose simili. Era troppo facile con mia madre, lei che veniva da una lunga tradizione di comprensione … neanche il tempo di dirle queste cose che mia madre è rincasata, ci ha abbracciate e ha chiesto scusa.

Dopo neanche un giorno di finta pace è ricominciato tutto, urla, schiaffi, calci, offese eccetera ma mia madre non ha mai più fatto le valigie. Anche a me e alle mie sorelle hanno insegnato a comprendere e per tutta l’infanzia non abbiamo fatto altro. Infatti capii presto che per evitare le botte bisognava assecondare i grandi ma che questo non era sempre possibile.

Più cresci e più i tuoi desideri si fanno avanti e chiedono di esser ascoltati, anche se vanno in conflitto con quello che ti hanno insegnato-ordinato. Per esempio quel  “non si può fare tardi la sera perché la gente chissà cosa pensa tu faccia” inizia a pesarti perchè  sai che anche se i tuoi amici fanno tardi, se a te fa piacere restare a parlare ore e ore davanti al mare, se quella sera il ragazzo o la ragazza che ti piace chissà per quale miracolo ti sta degnando di attenzione, se per una volta vuoi ascoltare i tuoi desideri, sai già che, appena rientrerai a casa, ti ritroverai tuo padre pronto a dartele e tua madre a rincarare la dose.

Ed il giorno dopo a dire che è stata colpa tua, che devi comprendere che ci sono delle regole, che quella casa non è un albergo, che sei piccola e tante altre cose che comprendi ma non accetti. E da quel giorno in poi capisci che c’è un prezzo da pagare se non si comprende e lo accetti, perché tutti i genitori sono così, e cerchi di trovare delle alternative per limitare i danni… inizi a mentire, a progettare fughe strategiche, scuse improbabili, a crearti tutte quelle piccole cose che ti possono evitare le botte.

Eppure, nonostante le tue accortezze, i tuoi continuano a litigare con te e tra di loro, a rinfacciarsi le peggio cose, a lanciarsi di tutto, a sbattere porte e a far calare poi il silenzio. Vedi tua madre, la cui comprensione è sempre lì a giustificare l’impossibile, che nonostante ciò sembra che sbagli sempre, che non sia poi così comprensiva. E vedi tuo padre che chiede sempre e solo quello, di esser compreso, ma per quanti sforzi si facciano, non è mai contento.

Dopo tanti anni, alla fine arriva il giorno in cui capisci che la comprensione è una stronzata, che è una trappola creata apposta per farti sentire in colpa. Quell’educazione alla comprensione, altro non è che educazione alla giustificazione e alla violenza. A subirla e a riprodurla. A quel punto lasci la comprensione e inizi a ragionare sul perché? Come ci si è arrivati? Come se ne esce? Come posso fare i conti con il mio passato senza giustificare le violenze subite, ma anche senza semplificare? Come posso chiamare le cose con il loro nome senza prima capirle?

E quando dico capirle, intendo analizzarle in modo lucido e oggettivo, per poi riuscire a superarle e a evitarle qualora ce le si ritrovasse davanti. Il come fare tutto questo mi è chiaro teoricamente, mentre praticamente è molto più complesso. Quando ho visto la mia famiglia per quello che è realmente, ho capito che dovevo approfondire i dolori di ciascuno, perché non ho mai creduto ai mostri e se qualcuno è violento da qualche parte glielo avranno insegnato. Ogni tipo di violenza genera altra violenza, nel senso che la impari e avvolte la riproduci.

E quando te la insegnano non la chiamano violenza, ti dicono solo che quello è il modo giusto di fare le cose, che è la conseguenza alle tue azioni. Io ci ho messo più di vent’anni per riconoscere le violenze che hanno caratterizzato la vita della mia famiglia, e non è stato facile. Non lo è, perché quelle persone, che secondo la società dovrebbero essere dei mostri, a quelle persone tu vuoi bene… ne riconosci gli errori, le incoerenze, il maschilismo che ti ha provocato tanto dolore, ma gli riconosci anche i sacrifici e l’affetto che a modo loro ti hanno dato. Le due cose non si escludono. E’ un sentimento schizofrenico, non lo metto in dubbio, ma i sentimenti non sono mai chiari e netti.

Ma le esperienze passate mi hanno portato a non comprendere più, a reagire, a difendermi e difendere chi viene violato, a cercare di decostruire tutto, a capire come si può rompere questo circuito che provoca solo dolore, sia a me che alle persone che mi circondano. E la rottura arriva con l’abbandono di quella situazione.

Sappiamo tutte che è la scelta giusta, anche se la più difficile da prendere. Ti chiedi se non ci hai provato abbastanza, se le cose sono andate in quel modo perché in fondo ti sei arresa, ma sono solo scuse, appartengono a quell’educazione alla comprensione che ti rende schiava e ti lega al tuo carnefice.  Nessuno può e dovrebbe portarsi addosso un fardello così grande, quello di comprendere i dolori altrui annullando i propri. Non si può riconoscere il dolore di chi ti nega il tuo.

E non provate a fare le crocerossine, perché candycandy è un cartone mentre noi siamo vere e non c’è amore, non c’è dolcezza, non c’è affetto nel restare accanto ad una persona violenta. Ci saranno solo umiliazioni e botte, e quei momenti di “pace” che potrebbero esserci, non possono, non devono cancellare il resto.

Io guardo le donne della mia famiglia e vedo solo tristezza, frustrazione e solitudine. Hanno abituato sé stesse e i loro figli alla comprensione e quindi alla violenza, perché dopo tanti anni tutto ti sembra “normale”. Ed è questa normalità, che è incubo, che è paura, che è sofferenza, che bisogna spezzare.

Io quelle mani violente, quelle parole offensive ho iniziato a fermarle, perché bisogna per prima cosa proteggersi, reagendo. Solo noi possiamo aiutarci, reagendo, respingendo gli stereotipi e le regole che non condividiamo, fino a recarsi ad un centro antiviolenza per mettere fine ad una situazione violenta.

Fa paura, lo so, ma quando si inizia si sta meglio, ogni giorno un pochino di più e si riacquista autostima e fiducia in sé. Solo allora poi si può, se si vuole, capire l’altro, i suoi disagi, le violenze che senz’altro ha subito senza però mai giustificarlo, solo per capire il modo per porre fine a questa giostra degli orrori per sè e per gli/le altr@.

Ps: questo intervento è generato dalla discussione che segue a questo post e che in parte è sintetizzata qui.

Posted in Corpi, Narrazioni: Assaggi, Pensatoio, Personale/Politico, Storie violente.