Skip to content


I mostri non esistono (su violenza sulle donne e dintorni)

C’è una discussione nel collettivo FaS in questo momento stimolata dall’ultimo post/racconto di FikaSicula.

Chi parla di difficile interpretazione, chi di assoluzione, chi di necessaria presa di distanza da chi ti fa violenza, chi dice che bisogna scandire in termini temporali le fasi di autodifesa/fuga/sopravvivenza dalla fase di comprensione. Non posso riportare gli interventi perché sono conditi di dettagli personali ma se voi volete esprimere la vostra opinione al riguardo mi/ci fa più che piacere.

Sintetizzo solo una parte di Viviana che dice che “Probabilmente le donne che conosco (leggendo il testo) arriverebbero alla conclusione che loro questo accogliere il dolore altrui già lo fanno… sopportano, stanno al loro posto, accanto ad un uomo non cattivo ma che ogni tanto ha i cinque minuti, ma in fondo è buono… soffre. Le donne che conosco, a causa di questa mentalità, ne hanno prese di botte e chissà cos’altro… io sono circondata da donne che accolgono dolore altrui e si “vendicano/reagisconocome possono, come gli è consentito, ma alla fine continuano a far del male a se stesse.

E in ogni caso è un racconto e se un racconto non suscita nulla, alcuna emozione, dubbio, critica o commento non ha evidentemente il valore di aver attraversato l’anima delle persone.

Una riflessione io la faccio ad alta voce, con voi.

Capire non è giustificare. Capire significa solo capire e significa trovare in quelle nuove consapevolezze gli strumenti per non ricascarci più. Per scansare situazioni simili, per individuare dentro di se’ nuove rotte, con la stessa persona o con altre, per non innescare meccanismi di violenza che spesso anche noi mettiamo in atto perché sono un riflesso delle nostre vite precedenti, della nostra educazione, della vita familiare. Perché accade che per strani meccanismi interiori a volte siamo noi a cercare persone che ci corrispondono in quel desiderio di realizzazione di uno schema di comportamento che è l’unico che siamo in grado di agire. Perché si, le donne che subiscono violenza spesso agiscono quella violenza e perché le vittime talvolta pensano di avere il controllo sul proprio maltrattante perché è lui quello debole, quello che non “controlla” le reazioni, quello che dovrà scusarsi.

Capire significa capire. E questo a mio avviso non ha bisogno di riferimenti temporali perché la storia dice con chiarezza che prima c’è un distacco, raccontato con il piglio di chi guarda a distanza entrambi i protagonisti della storia, dall’alto, senza giudicarli, e poi c’è la complessità delle reazioni che non si possono ignorare. Non puoi spegnere i riflettori su quelle emozioni che le donne che subiscono violenza provano e le provano sentendosi sbagliate e in colpa e immaginando di dover aderire per forza al modello della vittima inerme che di colpo deve smettere di provare sentimenti per il suo carnefice. Ed è un modello che non le corrisponde perché non è mai così e le donne che vengono ricacciate in quella solitudine, delle quali viene ignorato questo aspetto infatti finiscono per tornare dai maltrattanti e lo fanno perché diventa quasi terapeutico, perché la violenza la superi quando ne capisci la complessità e non quando devi accontentare il mondo che ti dice che devi trattare il tuo ex solo come un mostro per necessità di semplificazione spesso di tipo paternalista.

La violenza la superi quando entrambi riescono a dirsi che non è colpa di nessuno. Che esistono forme di corresponsabilità e dipendenze psicologiche. Ché se pensi di risolvere dicendo che lui è il mostro e tu la vittima non c’è riscatto morale e personale e il “mostro” interpreterà il ruolo che gli è stato consegnato: quello del femminicida. Lo farà oggi, lo farà sempre, con qualunque donna, senza poter uscire mai da quell’incastro.

Alle donne che subiscono violenza la prima pressione che viene inflitta è quella della pretesa di coerenza. Io ho subiìto violenza e dunque devo dire che lui è un mostro, devo prenderne le distanze e devo anche smettere di volergli bene.

Questo non succede mai. E questo invece è quello che va fatto emergere, con tutte le contraddizioni che ne conseguono per rintracciare in quella che per alcune diventa quasi una ambiguità la corretta lettura di eventi che per essere risolti, infatti, non abbisognano di soluzioni repressive né di eccessiva vittimizzazione delle donne che subiscono violenza.

Le donne che subiscono violenza, le figlie, le persone che subiscono violenza, vivono perennemente in bilico su questa pretesa di coerenza. Se lui ti fa male tu non puoi più amarlo, capirlo, preoccuparti per lui. Devi cancellarlo. E tutti si sforzano di fartelo apparire come fosse il diavolo in persona e il fatto che tu sappia che diavolo non è ti consegna una forma di dissociazione, una schizofrenia, ti chiude i rubinetti dell’empatia in alcune direzioni che stanno dentro di te. Ti censura delle emozioni. Ti castra. Ti impedisce di recuperare equilibrio e serenità. Ed è quello il trauma peggiore che non ti permette di risolvere la violenza e non la violenza in se’.

In definitiva, credo, la peggiore violenza che viene fatta alle donne dopo la violenza è il fatto di negare alle vittime il diritto di analizzare la complessità di quel dolore e di farsi spazio tra banalizzazioni e necessità dello Stato “tutore” di dover azzerare ogni tua capacità di autodeterminazione intervenendo dall’esterno a “salvarti” dal mostro cattivo.

A questo aggiungo la risposta di Lafra che traduce e sintetizza:

Questa è la rappresentazione fatta dalle (poche) campagne di sensibilizzazione. Essendo appunto poche secondo me non fanno nemmeno questo gran danno. Tutte le foto di donne ammaccate vittime e di mani a ceffone di uomini-mostro rientrano in quello che dici. Per quel che ho visto io nel centro antiviolenza di xxxxxxx il percorso di uscita dalla violenza è fatto proprio nei termini di analisi e sostegno della donna che esce dal rapporto, sotenuta da psicologhe e operatrici. Molte volte il sostegno si protrae senza che la donna lasci mai l’uomo perché nessuno le fa pressione, a meno che non si tema davvero per la sua vita e allora si prova a fare di tutto, ma mai obbligandola. Le denunce partono sempre da lei. Chi si occupa di violenza queste cose le sa e le fa (io spero che questo approccio ci sia anche negli altri centri). Nessuno le dice che lui è un mostro ma anzi che lei è quella che lo conosce e meglio di tutti sa quale è il suo bene.

Secondo me in questa rappresentazione di vittima-carnefice c’è l’influenza delle istituzioni e di associazioni giustizialiste, ma su queste si costruisce anche una retorica vittimistica di chi dice di essere chiamato mostro e che gli venga negato l’ascolto. Penso che la questione non sia così netta. Non penso che siano così ignorate o negate le motivazioni dell’uomo. A me sembra che il discorso pubblico si contraddica in continuazione ed entri in corto circuito.

Ogni caso di femminicidio è accompagnato dalla resa pubblica della giustificazione-motivazione dell’uomo. Quando però si parla di violenza sulle donne in generale allora ecco compaiono i mostri, questo fa si che si pensi che la violenza sulle donne sia un fenomeno che esiste lontano da noi, che non ci riguarda, perché gli uomini maltrattanti vicino a noi, che conosciamo o di cui leggiamo sui giornali avevano le loro buone ragioni.

Si costruisce l’idea del mostro, ma è un mostro che non assume mai una faccia. E le donne che hanno subìto maltrattamenti difficilmente si berranno questa storia del mostro punto. In generale ovviamente, qualcuno mostro lo è davvero e quindi ha ragione lei se dopo essere sopravvissuta lo pensa perché certe violenze anche provare a capirle – pur senza doverle giustificare – ti fanno scendere nell’inferno di una mente e anche questo a volte non è giusto.

Ma non ci sembra che il racconto parli di quel genere di situazioni. Quelle in cui uno arriva e ti massacra e poi finisce dritto all’ospedale psichiatrico giudiziario, che è un altro immondezzaio per nulla utile alla comprensione degli eventi e alla prevenzione.

Più in generale noi sappiamo quanto i percorsi di violenza siano totalmente semplificati e che i centri antiviolenza, che questo lo sanno, spesso vengono demonizzati proprio perchè si ritiene intervengano in quel senso, in senso giustizialista e paternalista, come se l’obiettivo fosse la galera per lui e non la salvezza per tutti/e. O quantomeno se esistono centri che agiscono nel senso che a noi non piace vorremmo capire secondo quale logica si muovono.

Qui, dunque, la sintesi della nostra discussione che è aperta ad ogni contributo. Perché, come diceva FikaSicula in un altro post, quello che ci interessa è prevenirle le violenze e non consolarci con leggine giustizialiste e prestando il fianco a semplificazioni e retoriche che ci regalano lo status di vittima salvo poi non riconoscerci il diritto di agire in modo autodeterminato quando si tratta di soluzioni.

Posted in Comunicazione, Critica femminista, Omicidi sociali, Pensatoio.


One Response

Stay in touch with the conversation, subscribe to the RSS feed for comments on this post.

  1. Chiara Lo Scalzo says

    La donna che sbatteva nelle porte, di Roddy Doyle. Il romanzo più realistico che ho letto sull’argomento.
    Racconta di come ferocemente ci sia aggrappa al ricordo di quello che è stato e non sarà più. Perché in certi casi sono più dolorosi i bei ricordi che quelli orrendi: sono i bei ricordi quelli che fanno male, perché siamo abituati a pensare che l’amore dura per sempre, che le persone sono o buone o cattive, mentre la felicità è solo un attimo, e le persone possono essere un momento meravigliose e il giorno dopo crudeli.
    La prevenzione sta solo nell’educazione: educare le generazioni future al rispetto di sé e all’empatia, l’unico sentimento che se coltivato ci impedirà sempre di levare la mano contro chicchessia…
    Nei centri antiviolenza ti insegnano, con grazia, a salvarti la vita. Ovvio che decidere di vivere è una scelta personale, nessuno può prenderla al posto tuo.