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Biografia di una Iena (seconda parte)

Ancora capitolo su stereotipi sessisti e violenze sugli uomini. Riceviamo e molto volentieri condividiamo questo racconto che si svolgerà a puntate, di cui adesso potete leggere la seconda parte, dal titolo “Biografia di una Iena” scritto da N., un uomo. Per leggere la prima parte – L’Infanzia – seguite il link. Buona lettura.

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2-L’ADOLESCENZA (parte 1)

Le scuole medie, sempre nel mio paese, superato l’entusiasmo iniziale non mi paiono un granché. Le materie sono carine, e sono particolarmente portato per la storia, la geografia e le scienze. Le scienze, in particolare: amo guardare il piccolo così come il grande, osservare la vita e la natura e il cielo. Mio padre si fa in quattro per racimolare qualche soldo e regalarmi un cannocchiale per guardare le stelle e un piccolo microscopio, e ancora lo ringrazio nei miei pensieri per questo suo sforzo. Eredito da lui una certa propensione per l’elettronica e a soli dodici anni costruisco la mia prima ricetrasmittente con un kit fai da te.

Inoltre approfitta di una iniziativa comunale per mandarmi a scuola di inglese a costo quasi zero: è convinto che l’inglese sia la lingua del futuro ed io non devo perdermi questa opportunità: siamo solo nel 1981. Lui però, tra l’incidente e le frustrazioni che lo accompagnavano, con gli anni diventa sempre più burbero, e la mia crescita non agevola il rapporto. Ho un carattere forte e testardo come il suo, e le botte non mi piegano più: da un lato ne è orgoglioso, lo vedo, dall’altro non riconosco più la sua autorità e questo non va affatto bene. Mia madre si prende un esaurimento nervoso e il suo concetto di ”pulizia” diventa un’ossessione: pattìne dappertutto, cera dappertutto, nemmeno un granello di polvere in casa.

Perfino i miei maglioni sono ordinati in maniera maniacale e io vado in giro vestito come un deficiente, in maniera “classica” secondo i suoi canoni, senza avere alcuna possibilità di scegliere cosa mettermi. Anche i capelli vengono tagliati secondo i suoi canoni, più o meno con tagli che avevano visto il loro tempo di gloria nel 1940 o giù di lì. Mi sento evidentemente uno scemo, mi vergogno come un cane. I ragazzi e le ragazze del paese non mi aiutano di certo. Non tirano più sassi e sputi, non mi saltano più addosso, ma la violenza diventa più sottile, non certo meno dolorosa. Battutine, frecciatine, conversazioni che si interrompono improvvisamente quando arrivo io. Niente da fare. In più ho l’evidente difetto di mettermi a piangere quando mi innervosisco o mi arrabbio e questo appare ai miei coetanei ancora più divertente.

Non si divertono più dopo che sentono le mie mani pesanti arrivargli sui denti. Torno a casa e trovo i genitori dei picchiati che frignano e raccontano di quale animale disumano mio padre abbia per figlio: papà mi dà un’altra ripassata, stavolta più sonora delle altre, perchè “non si fa a botte, è da incivili”. Penso che anche picchiare il figlio dunque sia da incivili, ma quando papà va fuori di testa non è il caso di puntualizzare. Ci sono abituato. Quello che mi dà sui nervi è che quando le prendevo io lui non andava dai genitori dei ragazzi che me le avevano date lamentandosi: le definiva, credo giustamente, “questioni di ragazzini”. Bah, non c’è giustizia a questo mondo. Pazienza. Inizio così a disertare la piazza e divento un mezzo selvaggio: vado con i miei pochi amici in giro per boschi e torrenti ad esplorare la natura. Imparo ad amare la pesca con la canna e con le mani, non intesa nel semplice “prendere il pesce” ma come forma di meditazione, con i piedi nell’acqua ascoltando i rumori della natura circostante.

Pescare con le mani è più bello ma più pericoloso: devi immergerti fino al petto nel fiume e infilare un braccio sotto un masso semisommerso, poi tastare in cerca del pesce, afferrarlo per le branchie e tirarlo fuori. Diverse volte “pesco” serpenti, tanto schifosi quanto innocui. Una volta pesco un gigantesco granchio di fiume con le uova sul dorso, che innervosito mi trancia quasi un dito: ottengo come premio tre punti di sutura dal dottore senza anestesia e senza una sola lacrima, e un cabaret di ceffoni da mia madre. Mio padre non dice nulla perché pensa che sono stato coraggioso e che forse le palle le ho, nonostante tutto. Le costosissime cure intanto hanno fermato per mia fortuna la ginecomastia e ringraziando il cielo non mi è cresciuto il seno, così posso permettermi di prendere il sole in mutande o anche nudo: tanto in quei posti la possibilità di incontrare persone è rara quanto quella di trovare una pepita d’oro.

D’inverno inventiamo balle ai nostri genitori e andiamo a fare i “machos” sempre al fiume, facendo il bagno nudi nel mese di febbraio, dopo aver acceso grandi fuochi per riscaldarsi una volta usciti. Mi prendo una brutta bronchite e febbre a 40 gradi: mia madre non è una stupida e mi impone di non andare più al fiume. A malincuore lo prometto. Ho tredici anni e già capisco che il mondo è una vera schifezza. Nel frattempo, in un paese poco distante dal mio, un ragazzo grande, di diciassette anni, si butta giù da un ponte. Sento mia madre parlare con le amiche, dicendo che il poverino sentiva la mancanza della mamma, che lo aveva lasciato da solo con il padre.

Dice anche che il padre è una bestia, che lo picchiava selvaggiamente, che lo trattava come un servo e che lo insultava quotidianamente dicendogli “se non ti va bene, vattene da quella troia di tua madre”. Con una assoluta mancanza di commozione ma con grande logica, penso tra me che non è poi così strano che si sia gettato da un ponte. Io avrei fatto la stessa cosa, al posto suo.
Nel frattempo le “persone normali” della mia età ballano in cantine scarsamente illuminate dandosi i primi baci al suono di “dreams are my reality”, e “il tempo delle mele” spopola tra gli adolescenti d’Italia. Ovviamente non vengo quasi mai invitato, e le poche volte che mi chiamano è solo per pietà o per prendermi in giro.
“Dreams sto paio di palle”, penso tra me.

Finisco le scuole medie con il massimo dei voti e mio padre decide di regalarmi un motorino, ma non ha abbastanza soldi.. apprezzo lo sforzo comunque e mi metto a fare il manovale tutta l’estate, (ovviamente in nero): il muratore per cui lavoro è una persona attenta e responsabile, a modo suo, e non mi manda certo sulle bancate ma mi fa lavorare a terra, impastando cemento e spalando sabbia, così a settembre non solo ho le braccia e le spalle di un pugile ma ho anche racimolato, tra soldi miei e quelli di papà un milione e passa. Andiamo a comprare il mio motorino: un Cimatti Gringo 4 marce, rosso fuoco! Papà insiste che devo portare il casco anche se non è obbligatorio e io a malincuore accetto, sapendo che tutti mi avrebbero preso per il culo essendo l’unico a portare il casco ma che se avessi rifiutato sarei andato a piedi per il resto della mia vita. Pazienza.

Sapendo già andare come un siluro in bicicletta, il problema era solo imparare ad usare le marce a pedale: del resto, l’acquisto di un costosissimo “Sì” Piaggio monomarcia con variatore, appena uscito era inutile, stando in collina. Inizio dapprima ad esplorare le strade di campagna e piano piano mi avventuro verso paesi vicini. E’ proprio in uno di questi paesetti che conosco A. E’ un ragazzo più grande di me, ha sedici anni e una moto da cross truccata che fila come un siluro sia su strada che in mezzo alle terre. A. non ha paura di nulla e sembra non sentire il dolore: parla appena italiano perché è tornato con il padre dal Belgio, appena separatosi dalla moglie. A. ha i capelli biondo rossicci come la mamma, che è fiamminga; parla solo francese, fiammingo e dialetto ed è chiaramente un disadattato come me. Facciamo amicizia subito e non mi prende mai in giro, mi ascolta sempre e mi tratta come fossi uno più grande.

Dopo un mese mi regala un libro: “les fleurs du mal” di Baudelaire. In francese. Inizio ad imparare qualche frase in francese con una pronuncia orrenda e lui ride, non di me, ma “con me”. Sono felice di aver trovato uno spirito affine. Purtroppo non dura. Il primo gennaio dell’anno successivo lo trovano impiccato ad un lampione fuori dal suo paese. Dicono tante cose su di lui: che si drogava, che beveva, che era depresso. Io so la verità: non riusciva ad adattarsi a questo posto di selvaggi e non poteva scappare. C’è chi salta da un ponte, chi si appende per il collo. Questione di scelte. I miei si spaventano non poco notando che da quasi un mese parlo a monosillabi, ma attribuiscono il tutto a “problemi adolescenziali”. Mia madre non ci ha mai capito un cazzo dell’amicizia, mio padre invece dopo un po’ mangia la foglia e intuisce: mi prende da parte e mi racconta dei suoi cari amici persi per strada e di quanto gli mancano. Funziona.

Nel mentre accadono tutte queste cose, a settembre del 1984 devo decidere che scuole superiori frequentare: i miei professori ci mettono del bello e del buono per convincere i miei che devo fare il liceo classico. I miei sono spaventati sia dall’esborso economico e sia dal fatto che, con il diploma di liceo classico, se non vai all’università ci fai il brodo. Per fortuna risolvo io il problema: dico che voglio fare il perito agrario, che voglio stare nei campi, imparare la botanica, capire le malattie delle piante, gli animali e tutto il resto. Non lo avessi mai detto, mio padre inizia ad urlare come un ossesso dicendomi che noi siamo zappaterra da generazioni e che non avrebbe accettato un figlio zappaterra. Vicolo cieco.

Per fortuna andiamo in visita in una piccola città vicina dove c’è un istituto professionale per l’industria e l’artigianato che ha un diploma in chimica e microbiologia: si fanno 18 ore di laboratorio già dal primo anno e decido per quello, accontentando i miei ma non i professori giacché sarei andato, a detta loro, in una scuola “di serie B”. Sticazzi la serie B, a me piace. Siamo in 30 in classe: 22 femmine e 8 maschi. Una goduria. Le ragazze sono quasi tutte belle e simpatiche, anche se molte non hanno alcuna voglia di studiare. I ragazzi sono più o meno come me, con problematiche differenti ma pur sempre adolescenti. Do i primi baci. Fumo le prime sigarette e le prime canne. Leggo molti giornalini porno tra Rimbaud e Yeats, tra Lovecraft e Poe.

Mi ammazzo di musica da mattina a sera: Gli Iron Maiden, i Judas Priest, i Manowar e tutto il metal possibnile, insieme ai Cure, ai Joy Division, ai Clash, ai Led Zeppelin, ai Doors e JimiHendrix e i BlackSabbbath. Diventano la colonna sonora della mia vita, pur rimanendo fedele al mio grande amore d’infanzia mai abbandonato: i Pink Floyd. Ascolto di tutto, anche la pop che mi fa cagare. Divento un mezzo metallaro con grandissimo dispiacere di mia madre e mio padre. Indosso una giacca di pelle comprata al mercatino dell’usato, e mi rovino con un mese di lavoro per acquistare un bellissimo paio di stivali di cuoio. Prendo il motorino e vado presso una stazione radio locale chiedendo di poter fare un programma di musica “giovane”. Stranamente accettano e divento lo speaker radiofonico più giovane d’Italia a soli quindici anni. Tre pomeriggi a settimana nella provincia si sente un programma che si intitola “metal e dintorni”.

Sono discretamente felice. Mi trovo bene con i miei compagni di classe e anche con quelli più grandi, quasi tutti. Un giorno, mentre vado a scuola, incontro un tipo molto aggressivo e tossicodipendente che mi aggredisce con un coltello per prendermi i soldi, di fronte alla stazione del treno: sto per reagire pur sapendo che mi avrebbe fatto male quando mi ritrovo circondato da ragazzi grandi, gente problematica e parecchio pericolosa che vende eroina e il cui capo ha il vizio di andare in giro con un fucile a canne mozze sotto il sedile della macchina. Dicono al tipo “lascialo stare, lui è uno a posto. Lascialo o a te ci pensiamo noi”. Il tipo mi molla subito e mi chiede scusa e se ne va con la coda tra le gambe. Io guardo questi ragazzi impaurito e mi chiedo perché siano intervenuti in mio favore, senza dire nulla. Quello che pare il capo si gira verso di me e mi dice: “tu. Sei quello che fa il programma heavy metal alla radio, vero?” io rispondo timidamente “si”. Lui mi dice, sorridendo: “domani me lo fai uno speciale sugli Iron Maiden, vero?” Io penso che domani gli faccio pure un monumento, se me lo chiede, ma mi limito a dire “ok”. Mi dice “sei uno tranquillo, non zozzarti con la nostra merda, capito?” e se ne vanno. Messaggio ricevuto: no merda.

Purtroppo accade che il mio percorso radiofonico termina bruscamente pochi mesi dopo: la radio infatti è gestita da Testimoni di Geova e un giorno si sintonizzano sulla stazione mentre va il mio programma. Fine dei giochi. Bisogna fermare la musica di Satana e chi la diffonde. Scappo a gambe levate con il motorino a tutta birra, portando con me i dischi prestati da negozianti gentili e da amici pazienti. Per poco non mi ammazzo su quelle curve, ma temo seriamente il linciaggio, e non sto scherzando.

Nel mio paese e in quelli limitrofi continua lo stillicidio di adolescenti: chi appeso ad un albero, chi a un lampione, chi con una spada nel braccio, chi schiantato ubriaco con la moto, chi si getta da un ponte, chi sotto un treno. Stranamente, sono tutti maschi tra i sedici e i ventun anni. Gli adulti non collegano il pesante disagio giovanile alle morti. Noi piangiamo in silenzio e portiamo fiori di nascosto sulle tombe, giacché alcuni parroci oltranzisti si permettono perfino di non ammettere i suicidi in chiesa né in terra consacrata. Questo non accade nel mio paese, dove il parroco è un uomo buono, avvinazzato, amante delle donne (e di qualcuna più amante che di altre) e comunista. Lui no. Lui capisce il dolore e in chiesa accoglie tutti dicendo “e chi sono io per giudicare? Il Signore saprà e perdonerà. Io sono solo un uomo”. Incontestabile. Sia per chi crede che per chi non crede.

A scuola sono un treno e i voti non vanno mai sotto l’otto e mezzo, a parte un sette in condotta fisso: ho un caratteraccio, sono irrequieto e non riesco a star seduto per più di un’ora. Le provano tutte, dalle note alle sospensioni. L’unica cosa che mi fa star fermo un pochino è la minaccia di telefonare a mio padre, ma regge fino a un certo punto: la natura è la natura. Decido di trovare una soluzione a modo mio: dico di essere malato e inizio a marinare la scuola da professionista. Nei giorni in cui c’era un compito in classe o una interrogazione il primo ad entrare ero io, facevo quel che dovevo fare, prendevo il mio 8 o il mio 9 e poi sparivo per dieci giorni. Funziona così bene che non arriva nemmeno una lettera a casa.

Purtroppo il vice preside, con passione della pesca anche lui, mi becca lungo un torrente a pescare trote e la bella avventura finisce, con botte dal vicepreside, botte da mia madre ma da mio padre no. Strano. Mi prende invece da parte e mi dice “ormai sei più grosso di me, hai 16 anni e sei quasi adulto. Se le cose non le capisci con le buone, non le capisci nemmeno con le cattive. Vedi tu che vuoi fare della tua vita”. Funziona. Inizio a fare il bravo. Nel frattempo sono diventato un mezzo dark per quanto improbabile data la mia stazza, e vado in giro come un corvo nero sul mio motorino. In paese praticamente sono un parìa ma chissenefrega: ho i compagni di scuola con cui sono discretamente legato, i soliti 4 vecchi amici del paese che non ho abbandonato e poi conosco dei ragazzi e delle ragazze più grandi in un paese vicino e formiamo una band. Magnifico.

Questi ragazzi hanno vent’anni o poco più e ci troviamo subito anche se sono molto più piccolo. Sono G., N. e C. Il primo direttamente da Parigi, il secondo dal paese, il terzo da Bruxelles. Divento la loro mascotte, oltre che il loro tastierista. Sono un gruppo di figli di emigrati in Belgio e Francia, ritornati dalle luci della “Ville Lumière” o della “Grand Place” al buio oscurantista del paesino. Ovviamente fumano come turchi, bevono come spugne ed hanno il bruttissimo vizio di uscire di notte ubriachi, nelle strade scure e avvolte dalla nebbia, recitando a squarciagola poesie dei simbolisti francesi. Insomma, una massa di pazzi. Chissà come, mi sento finalmente a casa.

Mio padre li vede un pomeriggio quando vengono a prendermi a casa per andare a fare le prove e mi dice: “questi sono i tuoi amici? Un frocio, un drogato e un ubriacone? Bella roba”. Ok, bene. Ricevuta la benedizione paterna, andiamo in piazza a mettere benzina, il che consiste nel racimolare circa duemila lire facendo colletta per andare a suonare nel paese vicino, in sala prove. La sala prove è la canonica di una chiesa, il cui parroco, stanco di suonare i Deep Purple con l’organo della chiesa, ci mette a disposizione la canonica. Senza vetri alle finestre. Senza porte. A gennaio suoniamo in cappotto e con i guanti, il che è impossibile. A marzo ci ritroviamo a fare le prove mentre le pecore ci entrano nella stanza e mordono i cavi. In più il prete vuole fare il secondo tastierista ma secondo lui siamo troppo new wave. Dovremmo essere più rock.

Ci mettiamo a discutere e finisce come al solito a vino rosso e panini con la mortadella fatti dalla mamma di C. Torniamo a casa mezzi sbronzi ma felici, in cinque in una 126 più gli strumenti e il serbatoio perennemente in rosso. A volte la benza finisce. Dopo una discussione assolutamente democratica, si delibera ogni santa volta che, siccome sono il più piccolo di età nonché il più grande di fisico, devo scendere e spingere la macchina. Lo faccio, impressionando un po’ tutti e sgranando rosari interi di bestemmie. A volte andiamo in città , la domenica. A volte finisce a botte, perché G. il francese è uno che attira le donne come le mosche, e a volte queste sono fidanzate e a volte i fidanzati non gradiscono e arrivano con gli amici. G. si sa difendere benissimo, era campione junior di kung fu a Parigi, ma contro tre o quattro, l’aiuto era sempre ben accetto.

Non so come facesse: era una calamita di magnetismo animale: una volta mentre stiamo seduti in un ristorante, aspettando una pizza, lui si alza e va in terrazza, dove c’è una ragazza che guarda di fuori. Si avvicina e le chiede “scusi, che ore sono?” lei alza lo sguardo e dice “sono le..” e lui le dà un bacio. E quella non solo non gli molla un ceffone, ma si lascia baciare eccome! Non capisco. Quando torna gli chiedo “senti, ma è la tua nuova ragazza quella?” e lui “mai vista prima d’oggi”. Continuo a non capire. “no aspetta, adesso tu mi spieghi come fai sennò qua divento scemo”. E lui, serafico “non c’è un trucco. Guardi negli occhi la ragazza, e gli fai capire che la vuoi baciare. Con lo sguardo. Se lei non vuole si vede subito, dal suo sguardo. Se invece vuole essere baciata, allora lo fai.

Semplicissimo”. Si, semplicissimo una sega. Per lui forse, che è belloccio, chitarrista e con la “erre” moscia. Io ogni volta che parlo con una ragazza che mi piace prima mi si annoda la lingua, poi mi si annoda il cervello e infine mi si annodano le budella. E a quel punto, la frase “vuoi uscire con me stasera?” diventa “ehmmmm…gnmmmm cnnn mzzz, sstssr?” e giù a sentirmi un coglione deficiente con la mia timidezza e le mie budella annodate. Fanculo.

—>>>to be continued

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