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Storia di un Femminicidio

Quando l’ho vista per l’ultima volta aveva un maglioncino rosso e al collo la sua kefiah con le strisce nere. La portava sempre. Mi aveva detto che tornava presto e con lo zaino in spalla era partita con il motorino.

Le avevo detto “attenta”, come facevo sempre, pensando che il maggior pericolo sarebbe stato, che so, un incidente, quella sua abitudine di tenere il casco un po’ slacciato, la sua mania di salutare tutti mentre camminava. Non aveva avuto tempo neppure di mangiare, la colazione appesantisce, mi diceva, perché aveva la preoccupazione della linea. Cose da ragazze, per me era bella uguale, e ci provavo a farle capire che l’importante era che stesse bene.

Avevamo fatto tanti sacrifici per farla studiare e stava quasi per finire, anima mia, e poi sarebbe stato bello aiutarla a progettare il suo futuro. All’università, dove la vita è più complicata, ma lei avrebbe fatto tutto ciò che era da fare perché era sveglia, determinata, forte, e nessuno poteva farle cambiare idea.

Mi aveva detto che il suo fidanzato era di malumore. Lui non voleva che lei andasse via. Nonostante lei dicesse che non l’avrebbe persa, che sarebbe tornata ogni fine settimana, per lui non c’era tregua. Gli aveva proposto il matrimonio, poi di avere un figlio, aveva tentato di metterla incinta e meno male che prendeva la pillola. Non demordeva, lei, convinta, assai tenace, il suo futuro era troppo importante. Prima l’indipendenza e poi tutto il resto. L’aveva scelto e noi a sostenerla.

Quando quel giorno uscì ebbi un presentimento. Mi aspettavo piovesse o che facesse vento, le dissi “attenta” ma non mi aspettavo quel disastro. Accadde in un momento, poi mi dissero, che lui la fece scendere e la accoltellò per strada. Lei fece forse in tempo a chiedergli “perché” e lui finiva di squartarla su quel marciapiede. Videro le compagne, alcuni conoscenti, nessuno riuscì a fermarlo. Poi si trafisse il cuore e si suicidò.

Quando raccolsero quel corpo pieno di buchi lì per terra c’era sangue che colava giù dal marciapiede. Respirava ancora, raccontarono, lei voleva vivere. Per lui non ci fu proprio nulla da fare. Incontrammo i genitori, brave persone, onesti lavoratori, disperati, che non sapevano che dire, un po’ a chiederci scusa e un po’ a odiarci perché quando un assassino prova a uccidere se sei una madre o un padre probabilmente pensi che la colpa è di quell’altra, ché ad assumertene un po’ la responsabilità diventa complicato e ancor più doloroso.

Mio marito non ebbe pietà alcuna. Glaciale, li guardò riconsegnandogli il disprezzo benché consapevole che l’amore sotto forma di possesso sia una costante educativa, viene insegnato a tutti, per cultura, assai sbagliata, e la paura di perdere una donna, come un oggetto di proprietà, innesca sempre dei meccanismi strani.

Ce la restituirono che respirava e lei respira ancora. Non studia più. Non può più muoversi. La più grande ferita le ha provocato una lesione al midollo spinale. E’ lì costretta a casa, combatte tra la vita e la morte, piena di conseguenze, ché lei stessa, quando ha un minimo di fiato, dice che era meglio fosse morta.

Chiede continuamente di porre fine alla sua non-vita, mentre la lavo, o l’accarezzo, quando suo padre con le lacrime le racconta il giorno e poi la notte, e non c’è spazio per l’odio, per la fatica, per la rabbia. C’è solo tenerezza e comprensione. L’abbiamo vista nascere e poi crescere quella creatura e poi in un attimo un “debole” se l’è portata via.

Non so lì sul momento cosa avremmo fatto o detto o chiesto se lui fosse rimasto vivo, ma è certo che conoscendo mio marito, così come conosco me, non avremmo chiesto pene severe, la morte, punizioni, il carcere, tutte quelle cose che fanno pensare che lo Stato faccia tanto quando non fa nulla e che non ci avrebbero restituito nostra figlia.

Sono sicura che avremmo chiesto perché questi ragazzi, giovani, ancora oggi crescono pensando che le donne siano una proprietà. Perché ancora vivono immaginando che quella cosa malata, l’egoismo, che loro chiamano “amore”, dia loro il diritto di controllare e impedire le scelte delle donne. Come è possibile che oggi esiste ancora chi immagina che una ragazza che voglia accedere ad una istruzione debba pagare con la vita questo suo desiderio.

Può essere l’università o anche un lavoro o l’autonomia economica. In ogni caso vedo queste figlie pagare con la vita e la salute il prezzo per la loro libertà.

Se ci sono ancora ragazzi o uomini che la pensano così, che non riescono ad accettare che le donne possano fare scelte autonome, è tutto troppo sbagliato. Da lì bisogna iniziare. Perché per ogni genitore che insegna ad una figlia a cavarsela da sola, a costruire la propria vita, ce ne saranno altri che non insegnano ai propri figli che amare è innanzitutto rispettare le scelte di quell’altra.

Mio marito e io ce lo siamo detti: avremmo dovuto insegnarle ad essere sottomessa? A sperare di dover dipendere economicamente da un uomo? Come è possibile che ancora oggi due genitori debbano chiedersi se non fosse stato meglio addestrarla alla sudditanza ché almeno, forse, sarebbe ancora viva. Non vogliamo neppure pensarci perché le nostre figlie non possono essere ostaggio di persone che non vogliono progredire. Non si può accettare quel ricatto.

Nostra figlia ha pagato con la vita, una vita compromessa per sempre, il prezzo per la sua libertà. Non l’ha ottenuta, è totalmente dipendente da noi, vuole morire. Noi speriamo almeno che questo serva a dare forza e spazio ad altre donne che facciano in modo che la nostra bambina non sia stata massacrata invano.

Se c’è un uomo che vuole impedirvi di fare qualunque cosa, fatelo per lei, lasciatelo subito. Lui non vi ama. Lui vi vuole morte.

NB: questa è la storia di una famiglia la cui mamma mi ha scritto per raccontarmi il suo dolore. Ho attualizzato (la storia risale a qualche anno fa), ho tolto i riferimenti e i dettagli troppo privati e ho generalizzato alcune cose per rispettare la loro privacy. Per il resto, qualunque riferimento a cose, fatti, persone è puramente casuale.

—>>>Scritto per noi da MenoePausa ricordando che per ogni donna morta ci sono tanti tentati omicidi che lasciano le donne disabili, mutilate, nel fisico o nell’anima, sfinite, da sole o con i propri familiari a tentare di ricostruire quel che rimane della loro vita. E tutto ciò in totale assenza di risorse che alle donne vittime di violenza vengono negate.

—>>>Leggi il Bollettino di Guerra. Sono #70 le vittime di violenza maschile, incluse quelle collaterali, uomini e bambini, dall’inizio del 2012.

Posted in Narrazioni: Assaggi, Omicidi sociali, Storie violente.