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# 39 – La chiamano ancora questione sentimentale

Dall’inizio dell’anno sono state uccise 39 persone (donne, bambini, vittime trasversali come i nuovi partner) che avevano una vita, dei sogni, delle famiglie e che sono state uccise perché qualcun altro ha deciso che così doveva essere.

Alle donne uccise vanno aggiunte tutte quelle che subiscono violenza psicologica, fisica, economica, per procura eccetera che per il semplice motivo di esser vive sembrano “miracolate” e quindi non degne di attenzione da parte dei media.

Poi ci sono le sopravvissute, quelle che dovevano morire ma che per strane circostanze sono riuscite a scampare ad un destino che gli era stato programmato da altri.

Una di queste è la donna che è stata accoltellata nel Beneventano. Secondo alcuni giornali si tratterebbe di una questione sentimentale. Lui, il suo ex, non si arrende alla fine della loro storia e decide di aspettare fuori l’abitazione presso cui la donna lavora. Quando la vede le si avventa contro con un coltello da cucina ferendola in diverse parti del corpo. Non so se abbia pensato di averla uccisa, o solo ferita, ma fatto sta che dopo si è impiccato.

Quest’uomo era stato già arrestato dai carabinieri in ottobre perché aveva inseguito la donna provocandole delle lesioni. Tanto per ribadire che si tratta sempre di un’escalation, di un rituale orribile e perverso, che se non disinnescato porta sempre al femminicidio.

A volte si pensa che denunciare equivalga a mettere fine a queste situazioni, e anche se è importantissimo e sempre di più dovrebbero essere le donne che denunciano, perché troppe sono le violenze celate, sfortunatamente non sono sempre dei freni.

Chi pensa che gli appartieni, che sei di sua proprietà, che sei un oggetto come può esserlo un’auto o una casa, non si fermerà davanti ad una denuncia, perché non concepisce il fatto che tu possa avere una vita propria, che possa respirare, vivere e amare senza di lui.

E non si tratta di malati mentali, di persone instabili, che agiscono per raptus, perché la loro visione delle cose è costantemente riproposta, avallata e giustificata dalla società intera.  Secondo voi chiamare un femminicidio una questione sentimentale può mai aiutare a comprendere la vera natura di questo omicidio? Se non chiamiamo le cose con il proprio nome come possiamo davvero credere di poterle risolvere? Porre fine al femminicidio innanzitutto, almeno per me, significa riconoscerne l’esistenza e quindi nominarlo.

Secondo la cultura maschilista, che è alla base del femminicidio, la donna può essere uccisa perché lascia il marito, il compagno, disonora la famiglia, oppure perché difende qualcuno da una molestia.

A Cavriana la sera del  25 febbraio un’imprenditrice viene uccisa da un suo operaio. Si pensa ad un movente legato ai soldi ma oggi, l’uomo, parla di molestia nei confronti di una bimba di 6 anni. L’imprenditrice l’avrebbe colto sul fatto e lui per difendersi l’avrebbe uccisa.

Secondo alcuni giornalisti, cito testualmente “è difficile comprendere la strategia della confessione di Hu Lifei, che, forse, si è sentito accusato ingiustamente dalla madre della bimba e ha reagito con una rabbia feroce”.  Ammesso che fosse davvero innocente, perché reagire così? Per me la reazione è eccessiva e  l’essere accusati ingiustamente non può essere una giustificazione, altrimenti metà della popolazione sarebbe già morta.

Ma è certo che per questi uomini si troveranno delle scappatoie. Si ricorrerà alla perizia psichiatrica, perché per la società patriarcale non è concepibile rimettersi in discussione, non può assumersi le sue responsabilità, il suo essere corresponsabile di ogni violenza agita, quindi se ne lava le mani e scarica tutto sui singoli individui che poi verranno bollati come pazzi.

Io non ci sto a chiamarli pazzi, folli, fuori di senno. Sono persone che pensano che le donne siano dei corpi che gli appartengono e su cui hanno veto. Non arrivano a pensare questo da soli, no, questa sarebbe follia, ci arrivano attraverso un lungo percorso che ci accumuna tutt@: io la chiamo educazione alla violenza. Ti dicono che tu uomo puoi picchiare, sbraitare, insultare qualunque donna, perché sei forte e sei il padrone di casa e dei suoi abitanti. Insegnano invece a te donna a sopportare questi raptus, li chiamano così, questi nervosismi che si innescano appena apri bocca, appena ti esprimi, appena respiri perché devi capire, devi esser paziente, perché è ciò che una brava donna fa.

Fortunatamente non tutt@ accettano questi dettami, perché quando conosci la violenza, quella vera, per com’è, allora non puoi non interrogarti su cosa ci sia sotto e perché ancora oggi non viene affrontata come si deve. Perché oggi come 50 anni fa ci ritroviamo il delitto d’onore?

Cosa non è cambiato? Per quanto mi riguarda la cultura, le sue basi. C’è una finta libertà in giro e su più fronti. Più che libertà parlerei di concessioni. Possiamo metterci la gonna, evviva, possiamo fare sesso, yuppi, possiamo lavorare, olè, ma fino ad un certo punto, entro delle regole ben precise che se si rispettano è bene, siamo delle gran donne, wonder woman super sexy a cui fanno gli elogi tutt@, ma se deviamo, anche di poco, siamo delle mamme dissimorate, figlie irrispettose, donnacce, puttane, terroriste etc.

Lo stesso vale per gli uomini, non c’è dubbio. Anche a loro la cultura ha assegnato dei ruoli, delle vie a senso unico, che o le si accetta o si è tacciati di alto poca virilità, disonore del genere, tradimento.

Eppure in entrambi i casi ci sono le persone che non ci stanno, che si ribellano, che urlano che NO non ci stanno, che disertano e che se devono lottare lo fanno per qualcosa per cui davvero vale la pena resistere: la libertà per tutte e tutti di essere ciò che si vuole, come si vuole, nel modo in cui si vuole nel rispetto delle diversità che caratterizzano ciascun@ di noi.

Ecco, ritornando al discorso di prima, se si può dire no è ovvio che si può dire anche sì. Ci sono uomini e donne che decidono di aderire a questa cultura, per davvero i più svariati motivi e generalizzare non serve a nulla. Penso che la scelta vada registrata e poi caso per caso contestualizzata. Sicuramente in tutte queste scelte la cultura ha il suo peso, quindi è lì che si deve lavorare. Si può fare tantissimo per impedire che si parli ancora di questioni sentimentali quando vi è stato un femminicidio, si può fare tantissimo per impedire che ogni donna che denuncia una stupro debba poi essere messa allo gogna con la scusa che tutti devono potersi difendere (certo, questo non lo metto in dubbio, ma il modo in cui ciò avviene nei processi di stupro per me non è accettabile), si può fare tantissimo per non far sentire le donne che vivono una situazione di violenza sole,  si può fare tantissimo per impedire che ogni uomo che uccide una donna sia definito pazzo, perché se del giustizialismo non me ne frega nulla, del recupero sì. Se lo Stato e noi tutt@ non chiamiamo per nome la violenza contro le donne, se non vediamo ciò che ne è alla base, non possiamo aiutare nessuno e ci limiteremmo solo a contare le donne che muoiono ogni dannato giorno e gli uomini che in un modo o nell’altro verranno giustificati, ma anche condannati all’irrecuperabilità e appena potranno faranno anche peggio.

Per questo continuo a pensare che l’unico vero rimedio al femminicidio sia il cambiamento della cultura, dei termini, dei rapporti. Lottiamo perché questo avvenga e forse smetteremo di contare le vittime di quello che è da tanto un bollettino di guerra.

Posted in Omicidi sociali, Pensatoio.


One Response

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  1. frapa says

    Parole Sante !!!! e una grande lotta alla violenza è l’accoglienza: andiamo a fare volontariato nei centri antiviolenza per le donne, denunciamo ogni sopruso, molestia sul lavoro, boicottiamo i mass media che minimizzano questi delitti e le pubblicità che insultano le donne. Siamo nel 2012 o nel 1912??