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Donne: ti riconoscono solo se “collabori” con lo Stato!

Ne avevamo accennato qui. Lasciate perdere le parole intrise di retorica del Corriere (banale, come sempre) che sposta l’attenzione verso contesti malavitosi e addebita la faccenda alla ‘ndrangheta.

Di fatto quel che so è che ogni giorno una donna viene ferita, uccisa, massacrata, stuprata, perseguitata, e accade in ogni angolo della penisola. So che l’onore, il cui rispetto veniva imposto per legge con un articolo apposito che legittimava il delitto d’onore, è ancora motivo per cui molti uomini ammazzano figlie, ex mogli, feriscono uomini, imbastiscono litigi furibondi con chi osi guardare donne che ritengono di proprietà, si vendicano sui nuovi partner rendendoli oggetto di stalking, aggressioni, talvolta omicidi.

La ragione implicita resta il fatto che questi uomini ritengono le donne di loro proprietà e dunque immaginano di poterle punire o di punire i trasgressori ovvero quelli che violano la proprietà medesima. Così come farebbero per chiunque riuscisse a penetrare la loro abitazione, rubare la loro auto, infrangere un codice fatto di regole non scritte e di una mentalità profondamente sessista.

La faccia opposta di questa medaglia è la punizione per le donne, reputate responsabili di qualunque cosa, di cambiare idea, di dire di no, di scegliere un amore invece che un altro.

Simona incontra Fabrizio su facebook. Si conoscono, dice l’articolo che si amano ma può anche essere si trattasse di qualunque altra cosa. Padre e fratello della ragazza uccidono e fanno sparire il cadavere del ragazzo. Così almeno dice il pezzo. Simona prima tace e poi collabora e racconta tutto. Per amore, dice il corriere, come vittima di una composizione familiare che la costringe ad amare chi non vuole e a restare con chi non ama più. Sicchè la donna è libera di amare e rivendicare la propria scelta di liberazione solo se collabora con lo Stato per far segnare qualche punto contro una presunta cosca della ‘ndrangheta. Le donne che combattono contro uomini che le violentano quotidianamente ma che per lo stato sono ligi cittadini, che paghino le tasse o meno non importa, purchè non disturbino moltissimo, invece non possono contare su questo genere di collaborazione. Quella violenza lì è accettabile.

E anche la retorica attorno le pentite della ‘ndrangheta  per le quali si raccolgono firme affinché siano ricordate l’otto marzo è veramente strumentale. Le donne lottano sempre, contro qualunque potere, dentro e fuori casa, contro qualunque forma di oppressione, ma il premio morale, per così dire, andrebbe solo a quelle che collaborano con la magistratura a danno delle cosche o a quelle che forniscono una ragione per perseguitare gli immigrati urlando allo stupro in vista di un rom o di un musulmano.

Posso raccontarvi una storia, ché l’ha vissuta una mia amica tanto tempo fa e in questo senso lei ha le idee molto chiare:

in sicilia fare antimafia è un tutt’uno con la battaglia contro una mentalità patriarcale. Perché la mafia tiene in vita i valori del clan, la famiglia come elemento imprescindibile, il volere del padre che non si può tradire mai, il capo, i capi, le donne che devono essere femmine a sostegno dei loro uomini in galera, boss assassini, gente che ha buttato nell’acido picciriddi e uomini disobbedienti, che non ha esitato a sterminare le famiglie, donne incluse, dei pentiti, tanto per sfatare il mito che la mafia non ammazza donne e bambini. Cazzate. La mafia e così ogni altro potere o lobby consolidata che ha come scopo quello di fare soldi sfruttando la gente sottomessa e obbediente alla santa patrona della paura e al santo padre dio denaro non guarda in faccia nessuno.

Se dici no alla mafia dici no all’autorità, anzi agli autoritarismi in generale, ti trovi senza paracadute sociale, sei fuori gioco, sotto embargo economico, non puoi contare su nessuno. E se la tua famiglia è pari a loro o comunque attinge alla mentalità bigotta italica/arabeggiante lo scontro avviene dentro e fuori. Perché sei femmina che alza la testa, perché non stai zitta quando ti viene ordinato, perché devi superare ostacolo dopo ostacolo per poter essere considerata almeno una persona. Tanto per iniziare. Di diritti puoi cominciare a parlare poi. Dipende ovviamente dai contesti in cui nasci e cresci ma anche se i tuoi contesti non sono mafiosi, e quelli della mia amica certamente non lo sono mai stati, ché la sua famiglia era antifascista e stava a fare lotte contadine da due secoli, quella mentalità così radicata diventa un linguaggio che non puoi sfuggire.

Lei ha lottato contro la mafia e per questo ha ricevuto riconoscimenti e solidarietà. Ha lottato per se stessa contro soprusi privati e violenze maschili e per quello ha ricevuto supporto a malapena dalle persone che le volevano bene. E questo la dice lunga a tal proposito.

Se – per esempio – da femmina vai a parlare con uno in divisa, un uomo dello “Stato” per dirgli che devi denunciare un marito che fa parte di una cosca mafiosa allora stanno a sentirti. Se vai e dici che quell’uomo ti massacra di botte notte e giorno e c’è possibilità che t’ammazzi allora non interessa a nessuno. Hanno le mani legate, non possono fare niente, se non ti ferisce in concreto nessuno offre una mano. E non è di quella mano che in ogni caso ci sarebbe bisogno perché la cosa grave è il fatto che manca il riconoscimento sociale.

I contesti che disapprovano una persona che denuncia un elemento di una cosca mafiosa sono assai inferiori di quelli che contestano una donna che denuncia di aver subito violenze da un uomo. Nessuno è solidale. C’è molta omertà, la parentela dell’uomo che ti picchia è perfettamente incline a non vedere e non sentire e tu puoi morire senza che nessuno abbia a cuore la tua vita.

Lei ha condotto due battaglie parallele e si liberava dall’una e dall’altra costrizione, una pubblica e una privata. L’antimafia le è costata sangue e sforzo ma almeno è stata riconosciuta. La battaglia privata per cui lei pure aveva rischiato di essere uccisa dopo essere stata bistrattata da un ex marito, la sua – di lui – famiglia, le persone contattate per denunciare, se l’è dovuta svolgere da sola e senza aiuto. E ad un certo punto lei ha capito. Per sopravvivere doveva comportarsi esattamente come si sarebbe comportata per sopravvivere alle pressioni di una cosca, di un clan. L’ultima volta che lui si fece vedere lei fu quasi uccisa. Poi si recò da un medico e fece certificare ferite, tutto quanto, e con quello, che diceva chiaro e tondo che era stato un tentato omicidio, era andata dalla famiglia dell’ex. Aveva sventolato quei documenti davanti al loro naso e detto che ne aveva dato copia allo stesso medico e ad un avvocato. Dovevano tenere buono l’ex marito perché altrimenti la denuncia sarebbe andata d’ufficio e lui finiva in galera. Linguaggio da femmina di panza, per l’appunto, ché non “lo voleva rovinare” ma se lui avesse osato una sola volta ancora avvicinarsi a lei era fottuto.

Se avesse avuto una telecamera sono convinta che l’avrebbe filmato e poi avrebbe minacciato di divulgare le prove su youtube. Il fatto è che quella Lisbeth Salander di Sicilia non è certamente l’unica e come lei ce ne sono molte altre per le quali nessuno raccoglie firme e alle quali nessuno dedica encomi.

Perciò l’otto marzo, che per noi è tutti i giorni, dato che è giorno di lotta va dedicato alle battaglie di ciascuna, dentro e fuori, ché di encomi per collaborazioni con la magistratura affinché loro infliggano i loro bravi colpi ad altri in una gara a chi ce l’ha più grande, a quale potere conta di più, le donne non hanno bisogno. Piuttosto hanno bisogno di diritti. Primo fra tutti: il diritto di vedersi riconosciute le lotte che compiono, quelle anonime, ovunque, sempre.

Posted in Omicidi sociali, Pensatoio, R-esistenze.