Torino. Ieri. Manifestazione No Tav. Arrivo in treno, mattino presto, dopo due giorni di iniziative e chiacchiere tra donne e persone meravigliose. Dormo niente. Mi aspetta un amico, cornetto e caffè. Si passa a prendere altri amici e poi si parte per Susa. Zaino in spalla, qualche maglione in più che non fa male. Non fa poi così freddo dopotutto e in ogni caso ne vale la pena.Lungo il percorso in macchina seguiamo Radio Blackout che racconta delle perquisizioni e dei fermi preventivi. Il piano del Ministro alle premonizioni è quello di fermarti per punirti già solo per la tua esistenza. Vediamo lungo il tragitto posti di blocco e tanti compagni e compagne sottoposti a perquisizioni. Poi sono costretti a lasciarli proseguire perché stiamo andando a manifestare, a sostenere una lotta importante realizzata da un movimento di persone che esigono di poter decidere su tutto ciò che deve essere realizzato sul loro territorio.
Case con tetti di pietra, camini, borghi da favola, ruscelli, boschi, montagne e campanili altissimi come quelli che ci facevano disegnare a scuola da bambin*. Nelle scuole siciliane disegnavamo paesaggi che appartenevano alla geografia piemontese. Mi vengono in mente i Savoia e quella brutta faccenda dell’unità d’Italia. Ora mi sento unita a questa gente. Unita per davvero. Per scelta.
Parcheggio, lontano, inizia la salita, ripida, per arrivare al punto di incontro a Giaglione. Si vedono a distanza le bandiere No Tav, i berretti, le facce di tanta gente di montagna che sono diverse da quelle di città. Le donne abituate a inerpicarsi su per la montagna con le gonne e le scarpette comode. Siamo tutti black bloc, è uno dei loro slogan, e li vedi i black bloc, quelli evocati dalla stampa e dal ministro, i quali per giorni e giorni hanno chiamato la sciagura, la tragedia, gli incidenti, creando tensione su tensione per giustificare atteggiamenti repressivi. Uomini, donne, ragazzi, ragazze, giovani, anziani. Sguardi vivaci, gente forte, intera, senza fronzoli e sbavature. Gente vera.
L’obiettivo è la rete da tagliare. Una rete abusiva, come abusivo è lo spazio che hanno occupato per il cantiere della Tav. Tante simboliche cesoie attraversano il sentiero lungo il quale marciamo, tutti e tutte, compatti. C’è la Samba Band che batte i tamburi e balla e fa rumore allegro e ribelle. Si respira aria buona e tutti camminano senza fermarsi. Siamo tantissimi, non so dire quanti, migliaia sicuramente perché la fila di gente occupa sentieri, terreni, boschi, su, giù. Siamo dappertutto.
Il primo tratto è superato e siamo vicini alla rete da tagliare. Arrivano le cesoie, quelle vere. In prima fila ci sono tante donne che tagliano la rete. C’è il legal team. Accanto anche tanti giornalisti, decine di telecamere e fotografi e cronisti che aspettavano incidenti, possibilmente il morto, perché senza morto i giornali necrofili non sanno cosa dire, non vendono, non sanno attrarre click sui loro siti, non sanno fare informazione. Fanno solo sensazione, inventano la violenza dove non c’è violenza, la evocano per tenere alta la tensione e inventano notizie dove non c’è notizia. Cialtroni. Operatori di meretricio a mezzo stampa.
Qualcuno con la telecamera urla “taglia più in alto” e uno del movimento No Tav risponde che questa è una lotta seria “non siamo mica a fare show”. Vaglielo a spiegare ai “giornalisti” che esistono perfino lotte che non possono essere mercificate. Lotte reali, non invenzioni mediatiche o gare d’indignazione indotta sul nulla. Lotte che infatti vengono osteggiate da destra e da sinistra, sempre che il pd possa essere definito di “sinistra”. Lotte che vengono criminalizzate da testate di destra e da testate giornalistiche che oramai hanno assunto una specie di forma/partito per cui tutto ciò che non riescono a controllare lo distruggono (vedi Repubblica).
Per fare foto e riprese del taglio della rete gli operatori tv, i fotografi, i giornalisti si arrampicano in alto mentre la gente di montagna urla che non è il punto adatto, ché vengono giù sassi e terra ed è così che i giornalisti sollevano tanta inutile polvere che riempie gli occhi e le narici, quasi a rappresentare una metafora della loro funzione.
Di fatto, vedendo che via via che si andava avanti non accadeva nulla di “violento”, di quei giornalisti non è rimasta neanche l’ombra. Immagino già le telefonate di richiesta ritiro delle truppe dalla redazione “non succede niente? neanche un pedardo? uno scazzo con la polizia? niente di niente? allora non c’è notizia, tornate indietro…“. Dei veri professionisti, senza dubbio.
Arriviamo alla seconda rete e non si può tagliare perché è di metallo pesante. L’elicottero della polizia che ci ha monitorato tutto il tempo continua a infliggerci il suo rumore. Bisogna aggirare l’ostacolo e cominciamo a percorrere sentieri che ci portano in alto, sempre di più, ed è dal punto più alto che vediamo l’intera disposizione della polizia, schierata in tenuta da guerra, con cellulari e blindati, mezzi a perdita d’occhio, gruppi ovunque, tra i boschi, sui sentieri, sopra e sotto i ponti, prima e attorno al cantiere, nascosti e palesi, stanno tutti lì e sono tantissimi, un intero esercito a spese dei contribuenti per fermare un movimento di gente disarmata che compie un atto d’amore infinito nei confronti della montagna, della terra, di quel paesaggio meraviglioso, del diritto alla sovranità territoriale.
Un atto d’amore che lo vedi dalle piccole cose, a partire dal compagno che mi porge il cestino di mandorle e cioccolata “prendi, tieni, ti dà energia!” e poi un altro che marcia per chilometri e chilometri in salita senza fermarsi e sa già che alla sera dovrà andare a lavorare in pizzeria e poi quella gente di montagna che ride, riposa un attimo, si diverte, trova il tempo di soccorrerti per farti attraversare il ruscello, e poi gli amici che ti afferrano per farti fare salti di due metri perché è importante arrivare alla meta e arrivarci insieme, uniti, senza che nessuno si faccia male.
Un atto d’amore fatto di fatica e solidarietà e responsabilità collettiva, che la vedi ogni minuto la preoccupazione che chi ti sta vicino non scivoli mai, che non metta un piede in fallo, non si perda. Nessuno deve restare indietro, ché è una regola della montagna. Così arriviamo dopo ore e ore di cammino alla baita dove tutto è festa perché siamo lì e siamo tantissim* e nessun@ è tornato indietro, si è fermat@ o si è lasciato intimidire dai vari blocchi e da quelle divise nere nascoste dietro gli alberi.
Il movimento si riunisce ed è Alberto Perino che dice che gli obiettivi sono stati raggiunti e che la manifestazione è stata un grande successo, ed è verissimo, tant’è che i giornali non ne hanno parlato. Sono le 15.30 del pomeriggio, bisogna tornare indietro prima che faccia buio, sono tutti d’accordo perché è un movimento maturo in cui c’è rispetto reciproco tra le varie componenti e in cui non si demonizza o non si esalta nessuno. “Siamo tutti black bloc“, appunto. Così si ottiene che non ci siano realtà sovradeterminanti e sovradeterminate.
Vedo le compagne di Torino, le abbraccio e parliamo. Tra poco c’è il Fem Blog Camp e Torino diventa in questo tempo la mia città. Riposiamo un po’. Siamo content*, soddisfatt*. E’ andata benissimo e respiro aria pura. Il movimento No Tav è ossigeno rispetto alla litigiosità e all’incapacità di altre realtà nazionali di ragionare per obiettivi e non per ombelichi. Mi raccontano della Libera Repubblica della Maddalena, il presidio attivo che era stato realizzato attorno al cantiere. Mi raccontano del momento in cui fu violata, sgomberata, offesa, sottratta. “Guarda, lì ci lanciavano le pietre e là ancora, vedi? Lì ci sparavano i lacrimogeni ad altezza d’uomo…“. Vedo, si. Vedo che tra i boschi hanno segnato un itinerario della repressione e della sottrazione di libertà individuali e collettive e guardo la faccia di Perino e di altre persone che stanno ancora lì e che non hanno intenzione di rinunciare. “Sarà dura“, la lotta, urlano e “via dalla Val Susa“, e la “Val Susa non si tocca“, e “siamo tutti black bloc” e applaudiamo e un pezzetto di Val Susa ora mi appartiene perché l’ho calpestata anch’io per difenderla e non per offenderla.
La Samba Band si dispone davanti uno dei blocchi della polizia e comincia a rullare tamburi. Suoni ribelli di gente che ha vinto e che vince ogni minuto, fiera, orgogliosa, di tanto percorso fatto per sancire un diritto a fronte di una tristissima barriera di corvi neri armati fino ai denti che stanno lì solo per farci male, per incutere terrore, per intimidire, per reprimere. Tristi nella loro posa stanca, con il fuoco acceso perché perfino il loro culo si raffredda e poi sbracati nel bosco, casco in mano e a fumare in branco perché restano comunque distanti da noi anche quando fanno cose che sembrerebbero evocare un pizzico di umanità.
Patetici mentre restano in fila ai due lati della strada che avevano sottratto al transito e che aprono per permetterci di passare. Ridicoli mentre insistono in quella posa autoritaria ché noi stiamo a schiena dritta dopo aver fatto chilometri per ore e loro sembrano spezzati con una espressione paralizzata in volto. Una specie di dead men walking rovesciata dove noi siamo i vivi e loro sembrano abbastanza morti, cadaveri di una istituzione che non riesce a rappresentare se stessa se non imponendo la violenza, finanche quella psicologica.
Qui si impara il significato vero della parola “dignità” e qui ancora si apprende il senso della condivisione di beni comuni, beni pubblici, collettivi che non possono e non devono essere privatizzati da speculatori che non sanno fare altro che rubare alla gente. Rubare e rubare per realizzare opere inutili e ad oppormi a questo furto sono arrivata anch’io.
La Val Susa non si tocca! la Val Susa ora è anche un po’ mia e mi interessa che ne abbiano rispetto.
Mi interessa. Tanto. L’amo anch’io.
Loro invece no…