Segnaliamo e condividiamo questo post delle sorelle di Sguardi sui Generis di Torino. Buona lettura!
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Domenica 3 luglio arriva, atteso, l’assedio della Val Susa. Arriva dopo una settimana di terrorismo psicologico sui maggiori quotidiani nazionali volto a spargere paure e timori tra le persone. La Stampa di qualche giorno fa, per esempio, intimidiva i cittadini con i suoi titoli cubitali del tipo: «I pacifici cittadini non devono salire» oppure «si preparano i violenti da ognidove». La gente della Valle – come quella proveniente da fuori e solidale alla causa No Tav – tuttavia è abituata a riconoscere le menzogne di carta e non si lascia ingannare. Anche questo, in fondo, è il significato del grido ripetuto: La Val Susa paura non ne ha! Non ha paura dei contingenti schierati e neppure delle minacce degli scribacchini, schierati anch’essi dalle più disparate forze politiche. Non teme classificazioni, distinzioni e limitazioni ideologiche. Ha soltanto voglia di esserci, di partecipare e di lottare.
Arriva così la giornata di ieri, carica e forte di una presenza di numeri e di spirito che i giornali di oggi non sanno né contare né descrivere e, ancor meno, riescono a capire. Arriva, accompagnata dal ricordo di un lunedì mattina – quello precedente – in cui il fumo dei lacrimogeni oscurava il sottobosco dei vigneti della Valle. In cui una pinza di oltre tre metri lavorava senza visibilità a pochi centimetri dai corpi delle persone che difendevano il presidio della Maddalena, mettendone così a rischio l’incolumità. Arriva portando con sé l’eco dei passi svelti delle fughe nei boschi – per ore, sotto il sole a picco – incalzati dal lancio fitto di gas lacrimogeni. Arriva dopo le immagini del campeggio devastato, delle tende tagliate e degli oggetti personali riempiti di piscio ed escrementi da parte delle forze dell’ordine, delle ruspe e dei deserti che emergono dalle loro operazioni, delle roulotte ribaltate, della cucina popolare presa a calci. Arriva con la notizia – totalmente oscurata dai media – di una signora investita e uccisa in una stazione di servizio dalle manovre di un blindato della polizia. Arriva, portando con sé tanti altri ricordi e immagini depositati nei cuori della gente e nella terra della Valle in oltre vent’anni di lotta popolare. Una resistenza che ha impedito e impedirà la costruzione di un opera dannosa e inutile.
Ieri è stata una giornata importante in cui si è dimostrata, ancora una volta, la determinazione No-Tav. A chiunque oggi è chiaro che scavare e lavorare in Val Susa non sarà possibile. Di fronte al dato di realtà – una realtà scomoda e che fa paura – non si trovano armi migliori che goffe delegittimazioni, teoremi paranoidi incentrati sulla distinzione buoni/cattivi e – come ovvio – la promessa di una repressione giudiziaria durissima. I cliché e i déjà-vu a cui si attinge si riducono a pochi argomenti a cui può essere utile sollevare alcune obiezioni sia di natura meramente logica che di stampo più marcatamente politico.
Il primo argomento esibito con pedanteria quasi ossessiva da tutti i media mainstream è quello delle infiltrazioni di una frangia di violenti – i famigerati black bloc – che spaccherebbero il movimento in una parte buona e una parte cattiva. Quella buona – manco a dirlo – pacifica, colorata e legittima; la cattiva, al contrario, violenta e illegittima. Si pretende che questo schema abbia un senso senza neppure soffermarsi sulla complessità di ogni categoria politica. Il nostro paese, ad esempio, ha partecipato a tutti gli interventi militari degli ultimi anni che hanno causato migliaia di morti civili. Coloro che hanno supportato questi interventi e ne hanno osservato le conseguenze standosene seduti comodi sui divani di casa sarebbero non-violenti? Il nostro paese, per fare un altro esempio, è diretto responsabile – insieme ai partner europei – delle migliaia di cadaveri, uomini e donne annegati senza soccorsi nel mediterraneo. È questa una politica legittima? Questi controesempi (se ne potrebbe fornire un elenco pressoché interminabile) mostrano la complessità che si cela dietro a quelle parole che oggi ci vengono proposte come categorie granitiche che spiegano tutto.
L’assurdità dello schema buoni/cattivi, tuttavia, non necessita neppure di troppa sottigliezza analitica per scoprire basi di cartapesta. La narrazione tossica che viene proposta racconta la storia di una maggioranza di pacifici idioti e acefali continuamente agita da una minoranza di cosiddetti «professionisti della violenza». Ma si può continuare a trattare come una massa di inconsapevoli migliaia e migliaia di persone che decidono di impegnare il loro unico giorno libero in una lotta civile in cui credono da anni? Si pensa davvero, dalle testate dei maggiori quotidiani come dai vari gabinetti della politica, che questa gente sia tanto deficiente? Può una democrazia – o qualcosa che si definisce tale – considerare i suoi cittadini così mentecatti? O forse dovrebbe più onestamente accettare il fatto di non riuscire a dire e a capire ciò che vogliono i suoi cittadini?
Che dire poi della minoranza dei cattivi. Le contraddizioni sono tanto lampanti da offendere standard minimi di capacità logica. Questi professionisti infatti sarebbero sempre pochi, isolati dalla gente per bene, alieni ai contesti in cui improvvisamente piovono dal cielo. Eppure, poi, ce li si ritrova dappertutto, invincibili e forti, capaci di tenere in ostaggio qualsiasi protesta si dia nel mondo. Di fronte a questo quadro è possibile trarre soltanto due conclusioni. Se si accetta che le due premesse sono vere – ovvero che questi pochi alieni si muovono nel mondo con tanta capacità di azione – bisognerà allora riconoscere a questa minoranza lo statuto di una sorta élite. Un gruppo dotato di capacità cognitive e pratiche superiori alla media (la media di quelle masse che – sempre stando al teoremino – saprebbero così bene dominare e manipolare) a cui sarebbe allora più saggio affidarsi che contrapporsi.
Al contrario si può avanzare il dubbio che le due premesse (maggioranza buona e minoranza cattiva) non siano vere. Che siano false entrambe, che non esista questa supposta distinzione. Una buona regola di pensiero – per cui si potrebbe scomodare la figura del cosiddetto «rasoio di Occam» – suggerisce, qualora ci si imbatta in tentativi di comprendere il mondo, di eliminare le ipotesi artificiali e cervellotiche per saldare il proprio ragionamento su assunti più lineari. Più chiaramente: per introdurre nel ragionamento il minor numero possibile di elementi inverificabili e accessori. Se, infatti, si accetta l’ipotesi complottistica delle infiltrazioni dei cattivi bisognerà rispondere a una serie di domande del tipo: in che modo la minoranza controllerebbe la maggioranza? Perché quest’ultima non dovrebbe essere capace di liberarsi di ipotetici intrusi? Perché, sempre la suddetta maggioranza, tornerebbe a casa felice dopo una giornata come quella di ieri? Perché fischierebbe a ogni lancio di lacrimogeni? Perché distribuirebbe limoni e acqua a tutti coloro si siano avvicinati maggiormente agli agenti schierati? Ma non sono i cattivi quelli davanti? Etc, etc…
L’ipotesi buoni/cattivi rende inspiegabili i comportamenti reali delle persone nelle situazioni di protesta e di lotta. Di fronte a tali e altri presunti misteri (naturalmente taciuti dai media che non possono scoprire la propria idiozia con eccessiva sfacciataggine) converrebbe forse provare a ragionare a partire da altre ipotesi. É, ad esempio, tanto improbabile pensare che uomini e donne decidano di mettersi in gioco in modi diversi e reciprocamente solidali per una causa comune? Non di agire della violenza gratuita e a-relazionale (questo sarebbe lo scontro per lo scontro di cui si va vaneggiando), ma, piuttosto, di cercare di rendere efficace la forza collettiva. Alla luce di questa ipotesi, a ben vedere, molti comportamenti appaiono di gran lunga più comprensibili. Il signore anziano occupa le retrovie battendo con un bastone sul guard rail mentre il più giovane si avvicina maggiormente alla recinzione semplicemente perché è meno rapido e agile del secondo. La ragazza si sporge dal ponte perché – beata lei – possiede un casco che ne protegge la testa, mentre un’altra si stanzia qualche metro più indietro perché è sfornita di protezioni e segue l’azione con lo sguardo vedendo se qualcuno ha bisogno di sciacquare gli occhi. Nessuno se ne va, ognuno fa la sua parte secondo le proprie possibilità fisiche e psicologiche.
La resistenza al dolore e ai lacrimogeni è differente, la paura non è per tutti uguale, le esperienze sono differenti, le capacità fisiche mutevoli. Persino il grado di convinzione non è il medesimo tra le persone che assediano la Valle. Queste e altre sono le distinzioni reali che assegnano ruoli e posizioni differenti durante la lotta. Nessuna separazione metafisica tra buoni e cattivi, violenti e non-violenti, armati e disarmati. Tutti e tutte assediano la Valle e non se ne vano fino a sera. Questo è il dato che non si è voluto sottolineare perché contraddice palesemente i teoremi che cercano, disperatamente, di minare la determinazione del Movimento No Tav.
Il racconto delle infiltrazioni violente viene inoltre colorito con dettagli grotteschi sulla provenienza estera dei cattivi black bloc. Si rincara la dose sottolineando come molti – tra cui i cinque fermati dalla polizia – non fossero nativi della Valle e dunque infiltrati, gente che con la Tav non centrerebbe un bel niente. Anche su questo punto, tuttavia, è necessario operare un po’ di pulizia logica. Quando si sponsorizza la Tav, questa viene descritta come un’opera volta a tutti, portatrice di progresso e benessere decisamente extra-valligiani. Per Chiamparino, ad esempio, almeno stando alle sue dichiarazioni di qualche giorno fa, l’alta velocità si presenta come uno strumento indispensabile della storia. Armato della più ottocentesche delle categorie filosofiche – quella di progresso – l’ex sindaco di Torino sembra quasi attribuire alla Torino-Lione un valore universale. La litania pro Tav, d’altra parte, non fa che ripetere che un gruppuscolo di valligiani viziati e capricciosi non può certo ostacolare la costruzione di un’opera che riguarda il futuro di tutti. Quando, però, a dire no alla Tav questi “tutti” cessano di essere una figura retorica utile alla propaganda e si presentano in carne ossa, improvvisamente li si accusa di non centrare più nulla con la questione.
É il caso di mettersi d’accordo. Delle due l’una: la Tav riguarda solo la Valle oppure riguarda tutti. Non si può sostenere che l’opera sarebbe utile per chicchessia e poi dire – smentendosi – che, se chicchessia non è residente in Valsusa, deve farsi i fatti suoi e basta. Ogni volta che si palesa l’eterogeneità del movimento no-tav, imprevedibile e incontrollabile, si vuol far credere che la protesta non appartenga legittimamente a nessuno. Sostenere – arrampicandosi sugli specchi – che la protesta è legittima e che, al contempo, non sono legittimi coloro che protestano è un modo solo un po’ confuso e sofistico di delegittimare tutto il movimento. Leggendo certi articoli apparsi oggi viene quasi in mente l’azzeccagarbugli manzoniano! Dopo aver tartassato l’intero paese elogiando l’utilità nazionale dell’opera (si sono forse scordati della pubblicità progresso in arrivo?) ecco che tuonano contro un ragazzo di Pescara, un meccanico di Maranello, un disoccupato di Venezia, un fattorino di Modena e una studentessa di Parma (così Repubblica e La Stampa ci descrivono gli arrestati) colpevoli di essere a Chiomonte pur «non centrando nulla con la Valle». Insomma, ma chi riguarda la Tav? Non sarà forse che ieri – come in molte altre occasioni – sono le persone stessa a voler decidere cosa ha a che fare con le loro vite e cosa no? Che sia questo ciò che in fin dei conti non va giù a nessuno, né a destra né a sinistra?
Un ulteriore questione su cui porre l’attenzione è quella dell’organizzazione della protesta che viene chiamata violenza. Il repertorio di immagini e formule utilizzate per descrivere le azioni di assedio condotte ieri dai manifestanti è variegato e bizzarro. I giornalisti danno sfoggio di un po’ di creatività e dell’unico margine di libertà di cui sembrano disporre: infiocchettare in modi diversi un copione già scritto. Sorprende sempre un po’ notare la grandezza e la convinzione di titoli che sembrano annunciare la scoperta del secolo e che poi ti propongono articoli triti e ritriti. La cronaca ha davvero così poca memoria da non notare i propri déjà-vu? E, d’altronde, come dovrebbe essere il mondo visto e raccontato dalla parte di coloro che vogliono che mai nulla possa cambiare se non una ripetizione noiosa e stucchevole? Il tempo omogeneo e vuoto del potere in cui non succede mai nulla, infatti, non può che affidarsi al cronista come suo unico misero narratore. Figura triste, governata dalla pigrizia del cuore e da qualche misera ambizione. Passioni negative riversate copiosamente sulla carta stampata.
Là dove i giornalisti si sbizzarriscono nel descrivere ciò che etichettano come violenza, la politica istituzionale si schiera compatta nella condanna. Si citi come unico esempio la posizione del Presidente Napolitano. Fermare, isolare, colpire, perseguitare, arrestare i violenti. Chi più ne ha più ne metta con le minacce forcaiole. Qualche editorialista più raffinato attinge a tutta la propria erudizione per affermare, pur tuttavia, le stesse ovvietà (che delusione professor Galli!). Si è già detto sopra della complessità delle parole, ma qui non si intende fornire una proposta analitica. Interessa, piuttosto, mettere in evidenza una questione elementare. L’unica, tuttavia, a contare qualcosa. La Tav è oggetto di un significativo conflitto civile e politico in cui si affrontano/scontrano due posizioni nette che, nel tempo, non hanno trovato una mediazione convincente per entrambe le parti. Questo è il dato da cui è necessario partire. Forse a qualcuno piacerebbe fosse andata diversamente, ma di fatto le cose stanno così. A questo punto le due posizioni, che entrambe vogliono avere la meglio (per nobili motivi una e per ignobili profitti l’altra), devono trovare strategie per vincere. Questa è la politica.
Puntualizzazione necessaria viste le esternazioni del signor Virano (sempre che affermazioni tanto interessate debbano seriamente essere prese in considerazione!) La politica, appunto, e non la morale. Il movimento No-Tav non è un movimento di anime belle, di giusti e puri, fondato su una legittimazione morale da difendere o perdere. È un movimento di uomini e donne dalle condotte e convinzioni morali ovviamente differenti e che è davvero poco interessante sondare. La sua legittimità è politica e tale dev’essere la sua valutazione. Domenica 3 luglio, dunque, ci si trova nella seguente situazione: bisogna individuare una strategia per impedire che il cantiere da poco avviato (avviato solo grazie alla militarizzazione massiccia della zona) possa lavorare nel tempo. Si decide di assediare la zona, avvicinandosi in corteo da diversi punti della Valle. Assediare una zona non significa mettersi ai lati e salutare gli agenti schierati tenendo in mano palloncini colorati. Significa, piuttosto, far capire che della porzione di terra contesa non è possibile disporre a proprio piacere. Non enunciarlo, declamarlo, ma proprio renderlo chiaro, effettivamente chiaro!
Data questa premessa si possono valutare le scelte del Movimento No-Tav. Come mostrare l’inaccessibilità della Valle se non cercando di rendere vane le recinzioni militari di ogni cantiere? Se la posta in gioco appariva troppo pesante, la contro-parte poteva tranquillamente ritirare i suoi uomini e dichiarare la resa. In tal caso la giornata si sarebbe trasformata in quella festa per famiglie che tutti invocano come l’unica possibilità d’azione no-tav. Per quale motivo ad arrendersi dovrebbero essere i no-tav? E perché se non si arrendono sono violenti? E per quale motivo un essere umano dotato di buon senso dovrebbe affrontare migliaia di uomini armati di tutto punto senza proteggersi e organizzarsi? Perché la lobby si tav non manda i poliziotti a presidiare il cantiere con palloncini colorati anziché con gas tossici a tonnellate? Semplice: perché non sarebbe efficace. Perché, allora, si pretenda che il movimento no-tav disponga di un’ unica scelta legittima che consisterebbe in un assedio colorato di palloncini e volti sorridenti? L’esempio dei palloncini è patetico, ma si basa proprio sull’immaginario stucchevole che pretende di ridurre oltre vent’anni di lotta popolare a una sfilata di famigliole imbranate. Immaginario patetico che tocca il parossismo quando invoca il binomio donne e bambini per evocare una sorta di innocenza inconsapevole violata dalla realtà del conflitto.
Curioso che le donne siano sempre accostate ai bambini. Perché sarebbero loro a dovervi badare anche durante i cortei? O perché, come gli infanti, sono considerate un po’ deficienti e ben si prestano a costruire lo stereotipo di un Movimento vittima di una minoranza violenta? Oppure perché la storia della colombella da proteggere va più o meno sempre bene? È curioso come il potere riesca a perpetuare le sue violenze e le sue esclusioni in ogni occasione e con ogni mezzo. Ci sentiremo raccontare che carabinieri e poliziotti difendono le donne native valsusine dalle infiltrazioni di forestieri cattivi e violenti? Non stupirebbe poi molto, dal momento in cui molte dichiarazioni apparse sui quotidiani di oggi lambiscono già il confine oltre a cui il discorso si fa nonsense, distacco dalla realtà. La realtà di un Movimento fantastico che ha lottato ieri, l’altro ieri, prima ancora e che certo lotterà in futuro.
Laboratorio Sguardi sui generis
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