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Violenza, femminicidio, laicità: a proposito della sentenza 265/2010 della Corte Costituzionale

di Stefania Cantatore (Udi di Napoli)
 
La sentenza 265/2010 della Corte Costituzionale riguarda la materia confusa del cosiddetto contrasto alle violenze sessuate, la stessa che si sostanzia in  una legislazione ordinaria complicata da modifiche, attuate per decretazione spesso più attenta all’effetto mediatico che non al reale contrasto ai reati cui si riferiscono leggi e modifiche: parliamo del più che flebile contrasto  del femminicidio.
Si dice, nella sentenza, che  quelle norme che obbligano alla custodia cautelare nei reati di violenza sessuata e femminicidio, ivi compresi quelli considerati nell’ambito della pedofilia, non sono di natura irrinunciabile.

La principale  fonte della sentenza, la Carta Prima, dice tutto sull’autorevolezza di indirizzo politico che questa costituisce e costituirà. È  questo il carattere di ogni sentenza  espressa dalla Consulta, che istituzionalmente ha sempre l’ultima parola. Le decisioni che l’organismo adotta, ed indica al paese, per queste ragioni, rivestono una responsabilità oggettivamente unica nel controllo democratico.
La Costituzione non è però, davvero, uno strumento che stabilisce la propria priorità sui diritti umani, ed anzi nel suo testo è implicita la priorità che questi hanno su ogni fonte legislativa, anche la più autorevole. In questo senso, senza alcun dubbio, le fonti delle sentenze sono, con pari dignità, sia la carta prima che le carte dei diritti umani.

La nostra organizzazione socio-politica, favorisce per molti versi l’impunità dei crimini verso le donne ed i bambini, non ostacola l’espressione di questi, per altro trascurando l’uso dei normali mezzi d’indagine previsti per altri reati ( è di questi giorni l’acquisizione di registrazioni interne ad un appartamento, per dimostrare le vessazioni subite da un’anziana da parte della badante. Su richiesta della vittima, non si potrebbe fare altrettanto per le “violenze indimostrabili” o “frutto delle fantasie delle donne” ?)

Se la situazione contestuale, aggiunta alla farragine delle norme che regolano il contrasto alle violenze, è tale da creare l’impossibilità delle cittadine e della prole a difendersi, se la distribuzione delle risorse è tale da non consentire l’attuazione delle istanze di allontanamento, se il tenore della comunicazione mediatica costruisce un sentire comune “di irrilevanza del danno subito dalle vittime”, non si prefigura forse la contestualizzazione di una violazione costante del diritto all’integrità fisica e psichica di donne e bambini?

Si tratta quindi della violazione di diritti umani, cioè quelli che, con la legge Costituzionale, si pensa debbano determinare il  giudizio delle sentenze della Consulta.
Le misure alternative al carcere, nella fase precedente il giudizio, erano ampiamente già applicate, così come per taluni soggetti vengono escluse aprioristicamente , misure che definire alternative, è stato sempre un eufemismo. Perfino dopo il giudizio di colpevolezza i rei di violenze sessuate, si sono visti applicare “pene alternative”, o anche misure di semilibertà che hanno favorito il contatto con le vittime stesse o con altre potenziali vittime.

Un poco noto caso riguarda un condannato per molestie al figlio che, scontata una pena più che simbolica, non in carcere, lavora ora a diretto contatto con minori a rischio.
Questo significa che a una legislazione carente e farraginosa si aggiunge “una personale saggezza del giudice” che è sostanzialmente il cosiddetto principio dell’equità interpretativa, spesso in ossequio alla cultura sommersa condivisa.

Una domanda che sicuramente i giudici della Corte avevano modo di porsi riguarda la concreta possibilità di attuare le misure alternative.
Cosa avrebbero dovuto fare i giudici costituzionali, di fronte al quesito del tribunale di Belluno, sull’irrinunciabilità della custodia carceraria come da decreto 11/2009? La risposta sarebbe tutta affidata alla saggezza misurata sui diritti delle vittime, come su quelli dei colpevoli. Saggezza  che ai giudici non è mancata in passato per altre materie, e che forse per questa sentenza è stato difficile esprimere.

Per governi come quelli Italiani, tanto tiepidi nel decidere di stare dalla parte delle vittime, quando donne e bambini,  questa sentenza può voler dire che “ci si è provato inutilmente”, e poi, come sempre, prendersela coi giudici e non con la propria malafede.
Ai giudici si chiedeva un’aggiunta di saggezza, unita a quella loro riconosciuta.
 
Questa è certamente una critica ai Giudici e al Governo, ed è semplicemente e laicamente ispirata alla libertà dai dogmi, anche quelli civili, uno dei quali è sicuramente quello di stare da una parte o dall’altra nella “difesa della democrazia”, magari ponendosi ciecamente dalla parte dei giudici, di un partito o di un pensiero. Anche magari dalla parte della Democrazia in Italia, che ancora per la donne non è qui e alla quale non è bastata la Costituzione.   


Stefania Cantatore (Udi di Napoli)


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