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La malattia come strumento di potere

Il post sulla suocera, come era immaginabile, ha sollecitato altri commenti e tra questi ce n’è uno che vi sottoponiamo perchè è scivoloso, perfettamente in linea con tante narrazioni al limite tra lo stereotipo e la complessità da esplorare che ci piace condividere.

C’è la coppia, il figlio mammone, la famiglia intesa come clan, come luogo escludente, che espelle i nuovi arrivati, nuora e nipoti compresi, e c’è la madre che da un letto di malattia tiranneggia e domina.

Spesso ci troviamo a sentire di situazioni invertite, di uomini malati che tiranneggiano la famiglia perchè vanno accuditi e perchè a loro tutto sarebbe dovuto. Uomini che pretendono, ruggiscono se non vengono serviti, mentre fuori c’è tutto un mondo che spinge la molla della "colpa" sulle donne che sono obbligate a prendersi cura di lui. Uomini che impongono persino la propria depressione, la propria "malattia" di disperazione, quel dolore che neppure sanno gestire, alle donne che interrompono una relazione e che finiscono troppo spesso per essere vittime di quell’egoismo, uccise, massacrate, stuprate, picchiate in nome di un "bisogno" che risiede nella testa dei loro carnefici.

A volte – sebbene quasi esclusivamente per malattie tangibili e socialmente legittimate e riconosciute (cancro, malattie cardiache, leucemia, mali ereditari, etc), rispetto alle quali non viene consegnato il fardello della "colpa" e della "vergogna" per sintomi spesso addebitati a chi li avverte dei quali in quel caso nessuno avrebbe considerazione e rispetto – capita che quel ruolo sia interpretato da una donna che assume la posa della matriarca e che dall’alto del piedistallo concesso a chi può alzare la voce in nome di una malattia smette i panni della vittima sacrificale e osa quello della carnefice che tutto fagocita e tutto mortifica.

Il perchè è presto detto: la paura di essere abbandonata, la capacità di suscitare negli altri quel senso di utilità di cui hanno bisogno e se giochi a consegnare medaglie al valore e disconoscimenti ai disertori sei comunque al centro dell’attenzione e tutto il mondo ruota attorno a te. Un piccolo mondo egoista gestito a suon di ricatti psicologici, di piccole molestie quotidiane che vanno cercate nella mancanza di autonomia, nell’appiattimento a quell’unico luogo sicuro che è la casa e la famiglia e nel disprezzo profondo per se stesse, nell’incapacità ad accettare la propria condizione sputando in faccia la frustrazione a chi prova a sopravvivere in quella dimensione di doppia schiavitù che è il ruolo di cura.

Saranno residui dell’educazione infantile ma chissà perchè quando siamo malate immaginiamo che quello sia il momento in cui possiamo "pretendere" tenerezza, affetto, attenzione, cura. Qualche volta la malattia è una condanna perchè se sei una persona autonoma e intelligente devi conciliarla con te stessa e diventa materia di conflitto e di crescita, per quanto difficile possa essere. Altre volte la malattia è un ricatto, un’arma mai vissuta in modo laico ed è in quella fase che la persona malata fa più male a se stessa che agli altri. Mentre gli altri, comunque, soccombono.

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Questa immagine contrasta con quell’altra che ci viene imposta dall’ipocrita pietas "cristiana", quella che sulla malattia ha creato un business di processioni e pellegrinaggi nei luoghi dei "miracoli" e che ha sviluppato tutto un settore della medicina che non serve a "curare" o a "prevenire" ma a speculare sul dolore altrui. L’immagine che ci viene rinviata è quella del bambino indifeso, bisognoso di aiuto, che dovrebbe suscitare istinto materno e che negli anni settanta è stata in qualche modo parodiata con la "posseduta", ovvero una "malata" che dal suo letto di dolore bestemmia, sporca, rutta, pretende, ordina, picchia, tanto da spingere i genitori a chiamare il clan degli esorcisti. 

Una esasperazione necessaria che in un certo senso solleva interrogativi sulle modalità di comportamento di una persona che è malata: perchè deve assumere la posa da vergine maria composta perfino in punto di morte? Perchè deve essere così felicemente proiettato in un aldilà al quale in fondo nessuno crede? Perchè una persona malata non ha il diritto di essere "cattiva"?

E se si libera la cattiveria e l’umano egoismo di una persona malata allora si libererà il sano egoismo di chi dovrà avere cura di lei/lui, in un rapporto laico, di reciproco rispetto dei bisogni, semmai di collaborazione e talvolta anche di rinuncia all’incarico di assistenza perchè la "cura". generalmente imposta come obbligo da svolgere per le donne, non deve essere un obbligo per nessuno, tantomeno per chi lo vive come costrizione. Perchè le rivendicazioni fatte da chi è malato/a diventino strumento di pressione verso chi dovrebbe garantire servizi e strutture (lo Stato) invece che frustrato strumento di dominio e di potere sulla famiglia.

Eccovi il racconto di Silvana:

La mamma non è sempre la mamma

Vi racconto una storia al contrario. Dopo 20 anni decido finalmente di
farla finita con il mio matrimonio. Io figlia quasi unica, lui con una
famiglia patriarcale alle spalle, di un’unica sorella munito, due
fratelli e un padre. Inchiocciati tutti sotto le ali di una mamma che
ha fatto della malattia il suo principale strumento di potere. Mammà
non si può arrabbiare. E quindi cosi mammà ha gestito in ombra famiglia
e soldi. Prima i pochi che c’erano. Poi i tanti che sono arrivati per
un’attività che ha inchiocciato tutti i pulcini. Era subdola per come
sapeva gestire anche gli assetti societari.

Il marito raccontava quel
che decideva ma l’ultima parola era sempre la sua. Il figlio, mio
marito, totalmente concentrato a far crescere l’azienda di famiglia.
Distratto da quella che era la nostra famiglia. Due figli che ho tirato
su io come ho potuto e saputo, con identificazioni assoluta verso
quelli che sono i miei modi di pensare e di essere. Ad un certo punto
lui, consolato dai cospicui profitti della sua azienda, annoiato dalla
stasi che dà la ricchezza, decide di volgere lo sguardo verso me e i
figli e non ci trova. Nel senso che stavamo da tutt’altra parte.
L’accusa: tu non mi hai saputo rappresentare quando io ero assente per
dare una sicurezza economica alla famiglia.

Insomma non ci avrei saputo
fare; ho fatto il padre che non era ma secondo lui dovevo fare di più
tipo" mamma ci compri il gelato?" no cari, lo chiediamo prima a papà.
Ridicolo. Si accorgeva di averne una di famiglia sua quando notava che
i figli non lo consideravano.

Unica regista: la madre. Che non è mai
direttamente entrata in merito alla gestione della mia famiglia e della
mia casa, ma ha fatto di più. Ha tenuto legato a sè il figlio che aveva
più affinità con la capacità di far riscattare la sua famiglia dalla
povertà. Ci è riuscita alla grande.

Ora mi sono finalmente separata. La
responsabilità è attribuita ad una relazione che io ho instaurato
quando il mio matrimonio era già a rotoli. Io e lui sappiamo che non è
cosi. Ma a lui fa comodo dirlo. Anche perchè cosi facendo non ha
trovato alleati soltanto nella sua famiglia ma anche nella mia dove
finanche mia madre mi accusa di non aver saputo aspettare prima di
mettermi con un altro. Lo sostengono tutte le mie persone care, esclusi
i miei figli che hanno capito e sono con me.

Rimpianti? Nessuno. Anzi
uno: di non averlo mollato prima cosi da poter dare ai miei figli un
padre libero dalle gonne di mammà.

Posted in Corpi, Pensatoio.