Suggerivo già QUI di leggere il libro della Klein "Shock Economy" per capire come si impone il neoliberismo, con il suo sistema di speculazioni e di privatizzazioni, sfruttando le tragedie e i disastri naturali. Ho trovato alcuni articoli che raccontano un po’ di cose. Ancora analogie. Ancora strumenti dei quali è necessario dotarci per capire il presente. Buona lettura.
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Da qui: «"Shock e sgomento" (Shock and awe)
sono azioni che generano paure, pericoli e distruzione incomprensibili
per la popolazione, per elementi/settori specifici della società che
pone la minaccia, o per i leader. La natura, sotto forma di tornado,
uragani, terremoti, inondazioni, incendi incontrollati, carestie ed
epidemie, può generare "Shock and awe".»
(Shock and awe: Achieving Rapid Dominance (Shock and awe: come ottenere rapidamente il dominio), la dottrina militare per la guerra d’Iraq.)
Shock economy è un saggio della giornalista canadese Naomi Klein, pubblicato nel settembre del 2007.
Il libro studia gli effetti e le applicazioni delle teorie liberiste di Milton Friedman e della Scuola di Chicago in diversi Stati del pianeta, dagli anni 60 fino al 2007. La tesi principale sostenuta dall’autrice è che l’applicazione di queste politiche (che prevedono privatizzazioni, tagli alla spesa pubblica e liberalizzazioni dei salari) sia stata effettuata sempre senza il consenso popolare, approfittando di uno shock causato da un evento contingente, provocato ad hoc per questo scopo oppure generato da cause esterne.
Tra questi shock l’autrice annovera le torture ed il regime di Pinochet in Cile nel 1973, il crollo del muro di Berlino e l’instabilità economica in Polonia e Russia all’inizio degli anni 80, l’inflazione inarrestabile in Bolivia e la guerra delle Falkland in Gran Bretagna negli stessi anni, la guerra in Iraq e la distruzione di New Orleans per opera dell’Uragano Katrina in tempi più recenti.
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naomi klein
Il mondo alla rovescia del libero mercato
Non c’è stata nessuna rivolta delle élite, ma una vera e propria controrivoluzione.
Intervista con l’autrice di «Shock economy», in Italia per presentare il suo libro.
La privatizzazione dei beni comuni e dei servizi sociali sarà più graduale che in passato, mentre maggiore attenzione sarà dedicata al conflitto di interessi. Ma è consolatorio affermare che stiamo assistendo al declino del neoliberismo
di BENEDETTO VECCHI
L’uscita di Shock economy (Rizzoli, pp. 620, euro 20,50, il manifesto del 15 settembre) ha avuto una critica stizzita del premio Nobel per l’economia Joseph Stiglitz, che ha riconosciuto a Naomi Klein il merito di denunciare l’«estremismo» dei neo-con. Allo stesso tempo, però, Stiglitz ha sostenuto, sul «New York Times» del 30 settembre, che quelle dell’attuale amministrazione statunitense sono solo degenerazioni, perché l’economia di mercato è il migliore strumento, se usato bene, per promuovere il benessere collettivo. Dunque, per Stiglitz, il problema non è il modello sociale e economico che il neoliberismo propone, quanto le persone che lo realizzano.
«Non credo – afferma Naomi Klein – che il problema siano gli errori umani. Il neoliberismo è stata una vera e propria controrivoluzione. Possono pure cambiare gli uomini, ma gli obiettivi rimangono sempre gli stessi: muovere una guerra di classe contro i lavoratori e privatizzare i servizi sociali».
L’intervista che segue è avvenuta a Roma, lasciando all’intervistatore l’amaro in bocca. Tante le domande da fare, poco il tempo a disposizione.
Nel tuo libro descrivi l’ascesa e l’affermazione del neoliberismo come un prodotto da laboratorio. Da una parte, la scuola di Chicago con Milton Friedman che «dava la linea». Dall’altra alcuni esperimenti pilota per poi applicare quelle dottrine nel Nord America, in Europa…
Negli anni Cinquanta e Sessanta Milton Friedman era considerato un nostalgico di un’economia di mercato che non esisteva più. Il pensiero economico dominante era di tipo keynesiano. Le tesi della scuola di Chicago erano considerate l’espressione di un estremismo ideologico a favore del libero mercato fuori dalla realtà. L’economia statunitense era prospera grazie all’intervento statale e alla «collaborazione» tra sindacati e imprese. Tutto sembrava andare in un’altra direzione da quello che sosteneva Friedman. Certo la sua apologia del libero mercato era sicuramente più aderente agli interessi delle grandi corporation, ma nessun manager sarebbe intervenuto per sostenerlo. Allo stesso tempo, però, Friedman ha ricevuto ingenti finanziamenti da fondazioni prestigiose, nonché dal governo per continuare le sue ricerche. Le teorie economiche della scuola di Chicago non erano solo espressione di un’ideologia, ma anche di precisi interessi economici, quelli del big business.
Molti studiosi o analisti spesso descrivono il neoliberismo come una rivolta delle élite per sottrarsi al controllo dello stato. Non sono d’accordo, perché la storia della scuola di Chicago può essere considerata la cover story di una controrivoluzione, di una guerra di classe contro i sindacati e i diritti sociali dei lavoratori.
Tu sottolinei che l’insicurezza e i disastri ambientali sono usati come grimaldello per imporre politiche neoliberiste. Non credi, però, che proprio l’insicurezza possa diventare la spinta per un rafforzamento del welfare state? In fondo, lo stato sociale nasce anche per risolvere lo «shock collettivo» che aveva colpito gli Stati Uniti e l’Europa negli anni Trenta e Quaranta?
Gli shock collettivi possono essere usati per introdurre politiche neoliberiste se gli uomini e le donne sono disorientati, soli, se cioè sentono la loro condizione come precaria. In Italia, sono all’opera movimenti sociali che si battono contro la precarietà dei rapporti di lavoro, per i diritti dei migranti, contro la guerra. Il problema è se riescono a dare continuità alla loro azione, perché solo un loro rafforzamento può aiutare nella resistenza alle politiche neoliberiste.
Prendiamo Vicenza: il progetto di ampliare la base militare statunitense ha incontrato l’opposizione di gruppi, associazione, centri sociali. A Vicenza sono state evocate pessime prospettive per il suo sviluppo se i lavori saranno bloccati. Finora, la presenza dei movimenti sociali ha creato le condizioni affinché il ricatto sia stato rifiutato da parte della popolazione. Prendiamo la precarietà dei rapporti di lavoro. Ci sono movimenti che si battono contro di essa e per estendere anche ai precari i diritti del lavoro. Finora sono riusciti ad organizzare una parte del lavoro precario. Il passo successivo è di coinvolgere sempre più uomini e donne, riuscendo a depotenziare il ricatto a cui sono sottoposti molti lavoratori e lavoratrici. Credo, cioè che i movimenti debbano darsi un’organizzazione stabile, meno effimera per rafforzare la loro azione.
Nei miei viaggi di lavoro incontro uomini e donne che sentono moltissimo questa urgenza politica di dare continuità e forza alla loro azione politica. Possono forse peccare di ottimismo, ma mi sembra che molti movimenti si stanno muovendo in questa direzione.
Per quanto riguarda la tua domanda, anche io credo che bisogna sviluppare un altro tipo di organizzazione sociale. Non ritegno però che questa nuova organizzazione sociale debba essere introdotta dall’alto. Deve essere infatti sviluppata dal basso.
Nel tuo libro scrivi che il neoliberismo si caratterizza non tanto per l’occupazione dello stato, ma per la privatizzazione di alcune funzioni che gli competono, dalla difesa nazionale alla sanità alla formazione scolastica. C’è stato poi lo scandalo della società di «contractors» Blackwater in Iraq e molti analisti hanno denunciato come folle la privatizzazione della difesa nazionale. Stiamo assistendo al declino del neoliberismo? Oppure sono solo scosse di assestamento?
Il caso dell’uragano Kathrina è emblematico. Nei primi giorni dopo l’inondazione di New Orleans i media statunitensi hanno puntato l’indice contro le politiche di disinvestimento dell’amministrazione Bush per quanto riguarda la protezione ambientale. Appena le acque hanno cominciato a ritirarsi, gran parte dell’establishment liberista ha visto nell’uragano la mano divina che consentiva di cacciare gli abitanti poveri e gli afroamericani per lasciar spazio alle imprese private. Non credo dunque che il neoliberismo sia giunto al capolinea. È ovvio che lo scandalo della Blackwater qualche problema lo pone per i neoliberisti. Ma nei media mainstream non viene criticato il modello neoliberista, bensì l’operato di una singola impresa, in questo caso la Blackwater. Tutt’al più viene invocata una maggiore sorveglianza sull’operato di un’impresa privata che svolge una funzione statale, pubblica. Stiamo assistendo a un mutamento delle politiche neoliberiste. Ci sarà maggiore attenzione al conflitto di interesse, che negli Stati Uniti e anche qui in Italia è giunto al parossismo. Oppure, l’applicazione delle politiche neoliberiste sarà più graduale. Affermare però che siamo alla crisi del neoliberismo è un azzardo analitico autoconsolatorio.
In Italia c’è molto interesse per le primarie del partito democratico negli Stati Uniti e alla competizione tra Hilary Clinton e Barak Obama. Possono i movimenti sociali condizionare gli esiti delle primarie nel partito democratico?
E’ strano che lo chiedi a me che sono canadese. Non sono molto interessata al fatto che Hilari Clinton rappresenti gli olds democratics e Obama i news democratics. E trovo strano che un italiano sia interessato al conflitto tra Hilary e Obama.
La politica statunitense ha da sempre condizionato quella italiana. E poi tu vivi in un osservatorio privilegiato come è il Canada. Tuttavia ciò che mi interessa capire è quale rapporto – di conflitto, di cooptazione – i movimenti sociali negli Stati Uniti voglio intrattenere con il potere politico e la politica istituzionale…..
Il processo elettorale statunitense è molto complicato e consuma tempo, energie e soldi. Se un movimento sociale prova a condizionare l’esito di primarie o di una competizione elettorale rimane quasi sempre intrappolato nei meccanismi politici americani. Lo ha fatto Ralph Nader e non è andato molto bene. Lo ha fatto Move On, rischiando di diventare solo una componente del partito democratico.
Negli Stati Uniti c’è stato un appuntamento che i media hanno quasi del tutto ignorato. Mi riferisco al primo social forum statunitense a Atlanta. Centinai di gruppi, associazioni, migliaia attivisti si sono incontrati per conoscersi e discutere sul che fare. I pochi giornalisti che sono andati ad Atlanta sono rimasti meravigliati, perché vedevano uomini e donne che discutevano di povertà, di emarginazione, di diritti dei migranti, di mancanza di lavoro, di diritto alla sanità e all’istruzione pubblica, di pacifismo, proponendo iniziative di lotta e alternative praticabili al neoliberismo senza aspettare che il partito democratico presti loro attenzione. In altre parole, penso che i movimenti sociali devono sviluppare la loro iniziativa, organizzarsi, sviluppare una sorta di contropotere senza attendere l’esistenza di un candidato che prometta di rappresentare le loro proposte o che il loro punto di vista entri nell’agenda politica di un qualche partito.
I movimenti sociali, almeno qui in Europa, non godono di buona salute. Ci sono state importanti mobilitazioni contro la precarietà in Francia in Italia. Il movimento pacifista inglese ha continuato a portare in piazza centinaia di migliaia di persone. Eppure sono innegabili le difficoltà dei movimenti sociali. Non credi che queste difficoltà derivi anche dal fatto che il movimento dei movimenti, per usare un’espressione a te molto cara, non riesca a svolgere una lettura critica del mondo attuale e dunque a sviluppare forme di lotta e di organizzazione adeguate?
Concordo. Anche negli Stati Uniti i movimento sociali antiliberisti. sono in difficoltà. Secondo me, in Nord America, ma credo che questo possa valere anche per l’Europa, le difficoltà derivano dalle conseguenze dell’attacco alla Torre Gemelle. L’11 settembre ha cambiato il mondo. Il problema è capire come lo ha cambiato. C’è stata la guerra in Afghanistan, poi in Iraq. Guantanamo. Le crisi economiche. Non riusciamo però ancora a cogliere il senso pieno di quello che è accaduto dopo le Twin Towers. Ci vorrà tempo per capirlo. Spero di contrinuire, come molti altri, a capirlo. Mi piace pensare che questo libro sia un piccolo contributo a capire come è cambiato il capitalismo.
IL MANIFESTO
26 OTTOBRE 2007
Un doppio movimento tra critica all’economia e della politica
B. V.
La ricostruzione dell’ascesa del neoliberismo svolta da Naomi Klein in Shock economy è affascinante. Si potrebbe dire che la giornalista canadese inizia là dove era terminato il suo precedente lavoro, il reportage giornalistico sull’emergere dell’«economia del marchio» che fu pubblicato a ridosso delle manifestazioni di Seattle. E se in quelle pagine trovano spazio la denuncia dei villaggi-prigione dove si producono computer, televisori e jeans per le maggiori multinazionali, in questo libro l’attenzione si concentra invece sulle strategie comunicative e politiche per imporre il modello neoliberista nelle società del Sud e del Nord del mondo. Le tecniche usate solo quell’amplificazione dell’insicurezza e della precarietà fino a quando la paura si trasforma in panico. Shock economy è anche la documentata narrazione della conquista dell’egemonia della Scuola di Chicago. Non è dato sapere se Milton Friedman abbia mai letto le opere di Antonio Gramsci, ma i «Quaderni del carcere» sembrano il testo imprescindibile per comprendere, come ci sollecitano a fare da alcuni anni sgli studi postcoloniali, la diffusione delle teorie neoliberiste. Il libro di Naomi Klein è utile anche quando, spietatamente, sottolinea come i dati del fondo monetario internazionale e della Banca mondiale siano state le armi rivolte contro la resistenza dei movimento operaio organizzato. Nel frattempo, le privatizzazioni favorivano le imprese che intervenivano a favore dei candidati in linea con i loro interessi. L’autrice dice chiaramente che il conflitto di interessi non è un’anomalia, ma uno degli elementi costitutivi del capitalismo contemporaneo. L’elenco di esponenti dell’amministrazione di George W. Bush che siedono nei consigli di amministrazione delle imprese che ricevono commesse dagli stessi ministeri dove operano le stesse persone arrivano fino alla vicepresidenza degli Stati Uniti. Per non parlare di altri paesi, compreso il nostro. Il conflitto di interessi è dunque espressione di quella sussunzione del politico da parte dell’economico. Il cambiamento del modo di produzione ha imposto così la mutazione della costituzione formale. L’opposizione al neoliberismo deve dunque operare un doppio movimento. Da una parte trovare le adeguate forma di lotta e di organizzazione contro l’attuale modo di produzione. Dall’altra elaborare una analisi su come è cambiata la forma-stato. È questa la cruna dell’ago che i movimenti sociali devono passare per cambiare la realtà. E quindi: critica all’economia politica e critica della forma-stato. Ogni scorciatoia è destinata a trasformarsi in un vicolo cieco. È già accaduto nel recente passato, quando una parte dei movimenti sociali ha accettato di comportarsi come un’opinione pubblica rispettosa delle regole. E’ accaduto quando un’altra parte dei movimenti ha sperato che qualche governo amico aiutasse a mettere le cose sul giusto binario. Errori che sarebbe diabolico ripetere ora che assistiamo alla formazione del partito democratico che vuol stabilizzare il sistema politico.
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