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Donne di Palestina, femminismi e miti occidentali

http://i140.photobucket.com/albums/r10/grafichebandite/gaza40.jpgSegnalo da leggere un documento del collettivo femminista Rossefuoco di Torino. E’ una delle tante posizioni di donne che si pongono in maniera diversificata in rapporto all’aggressione israeliana a Gaza.

Trovo che il documento sia sicuramente preciso in
quello che vuole dire ma secondo me sottovaluta e sminuisce in maniera
degradante le complessità e le analisi laiche che tante donne hanno fatto in questi
giorni. Trovo la descrizione delle vicende e della politica a Gaza abbastanza "rassegnata" e appiattita su Hamas e trovo la definizione del ruolo delle donne dentro Hamas abbastanza enfatico.

Non mi è mai capitato di scrivere che le donne di Hamas, quelle che fanno la guerra con un velo o si fanno saltare in aria per diventare martiri, sono costrette da qualcuno in queste scelte. Esattamente come non lo dirò delle donne dell’esercito israeliano o di quelle che si arruolano nell’esercito italiano per raggiungere un obiettivo a loro modo emancipatorio. Ma non dirò neppure che queste donne rappresentano per me un modello di riferimento. Non sono le mie personali eroine della resistenza palestinese, non quelle che investono in una dimensione intrisa di fondamentalismo.

Una cosa è la legittima difesa, un’altra è la dimensione contemporanea della guerra santa. Lo dico sapendo tutto quello che c’e’ da sapere. Ognuna delle parole d’ordine che sono alla base della nostra militanza contro la guerra, contro le politiche di Bush, del governo israeliano, contro l’aggressione del medio oriente, contro tutto quello che sappiamo e anche di più. Le donne che vivono in Palestina maturano delle scelte che scaturiscono dal contesto nel quale vivono. Le donne in guerra per necessità imbracciano il mitra, uccidono, possono scegliere varie forme di lotta. Io ho il dovere di schierarmi ma anche di analizzare e dire con chiarezza quale tipo di lotta, quale pratica, o meglio, quale cultura ispiratrice di ogni pratica è quella che io voglio sostenere proprio in termini culturali. E credetemi se vi dico che il principio ispiratore non è la distinzione tra lotta machista violenta e non violenta. La guerra è violenza anche nei respiri. Comprendo perfino i motivi per cui una donna che vive in uno stato di costante oppressione possa decidere di farsi saltare in aria. 

Ma Hamas è il vaticano con il mitra in mano e i
kamikaze come armi umane. La resistenza che nessuno ama far vedere è quella che fa meno rumore. La lotta delle donne è quella che portano avanti ogni
giorno, casa per casa, nella quotidianità, mentre tentano di sopravvivere e di nutrire i propri
figli tra una bomba e l’altra. Continuare a sottolineare con enfasi il ruolo
"militare" della resistenza toglie meriti a chi li ha: le donne. Continuare a descrivere il ruolo delle "donne di hamas" fino ad eleggerle a "miti" rivoluzionari – opponendosi ad una colonizzazione culturale ma producendo fascinazione per figure eroiche che disegnano una iconografia per ambienti militanti occidentali –  a modello di riferimento delle resistenze e delle lotte delle donne palestinesi, francamente mi sembra davvero eccessivo e tendenzialmente forse rivela un desiderio idealista e fideistico – descritto con lucida consapevolezza, certo – di riconoscimento di ragioni fortemente identitarie che da femministe laiche forse dovremmo mettere in discussione.

Dopodichè sono d’accordo nel dire che le
religioni e le culture tutte in genere esercitano gradi diversi di oppressione
per le donne. Ma io non ne sostengo nessuna e non per "purismo laico". Solo perchè producono un danno alla mia vita che è anche quella alla quale non posso rinunciare ed è quella che fondamentalmente è motore personale che mi porta alla lotta collettiva. Il personale è politico e io non posso prescindere dal mio "personale", mai.

La chiamata alle armi – non possiamo storcere il naso perchè gli uomini arabi urlano versi per allah, ma dobbiamo continuare a stare "uniti" nella lotta a pugno chiuso senza se e senza ma – è per quello che mi riguarda fuori questione. Personalmente combatto le battaglie nelle quali credo. E se devo combatterle con persone che non mi piacciono allora scelgo il modo per esserci che sia il più chiaro e personale possibile. Esserci con il proprio portato di diversità non significa sottrarre aiuto ai palestinesi. Nessuno parla di questo. Significa
dare aiuto senza snaturarci e trovare un modo attraverso il quale portiamo di
noi tutto, comprese le nostre storie che non possono e non devono essere negate.

Ecco perchè lo striscione delle femministe e lesbiche del corteo del 17 è stato
eccezionale per le parole, il posizionamento e la definizione chiara di
genere. Siamo con la lotta delle donne palestinesi a partire dal nostro essere femministe e lesbiche. E ammetterete che già il solo definirsi parrebbe una provocazione per quella componente "non laica" che non nutre grandi simpatie ne’ per le femministe ne’ tantomeno per le lesbiche. Per essere da supporto alle "donne palestinesi" dobbiamo restare noi stesse. Non mettiamoci il velo al cervello, per favore. La nostra lucidità sarà utile a noi e alle altre donne. Perciò: se sulla base di queste considerazioni io non posso esserci con i miei "se" e i miei "ma" e vengo considerata una specie di militante disertore/a, pazienza. Fare il soldato non mi è mai piaciuto. Fare la militante credente che molla le verità (LE e non LA verità, che non ne esiste mai UNA sola) per ricercare ragioni di fede, ancora meno.

Ps: a proposito di femminismo post-coloniale e in dimensioni teologiche sto leggendo di femminismo e islam, femminismo e religione ebraica, femminismo cristiano. Appena ne so di più scrivo la sintesi di ciò che ho letto.

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