Skip to content


Virtualizzazione dello spazio pubblico e blog delle donne

Testo dell’intervento fatto da enza panebianco nell’ambito dell’iniziativa "I beni comuni delle donne", a cura del Server Donne (http://www.women.it ) durante la quale è stata presentata la Biblioteca digitale delle donne:

>>>^^^<<<

Lo spazio pubblico è quel luogo al quale tutt* hanno diritto
di accedere. E’ un luogo per il quale dovrebbe essere garantita la gratuità e
la non esclusione nei confronti di nessun*.

Lo spazio pubblico, inteso come bene comune, è sicuramente
un luogo che le donne ambiscono ad attraversare, contaminare, occupare, a
seconda di quali sono le pratiche che loro vorranno utilizzare per raggiungere
il proprio obiettivo.

Il web però non è esattamente un luogo accessibile a tutte.
Prima di tutto perché non è gratis e dunque ci discrimina se siamo povere,
precarie, non in grado di pagarci uno dei tanti abbonamenti adsl. (per la crescente femminilizzazione della povertà le donne sono maggiormente penalizzate e discriminate)

Non è però sufficiente neppure pagarsi una connessione. Per
esserci devi pagare pegno comprando uno spazio da un provider per farci un
sito, oppure diventando funzionale a progetti di commercializzazione del social
network avviati da altri. Mi riferisco a quelle piattaforme blog che impongono
la presenza di spazi pubblicitari google adsense o a quell’enorme bacino di
utenza che è facebook.

Di fatto la nostra presenza in rete è comunque “utile” ai
business e sottrarsi diventa difficile e a volte impossibile.

Il web non è una piazza che si può squattare ed è oramai
vana l’illusione di poterlo utilizzare come muro sul quale lasciare i nostri
graffiti, come si penso’ ai tempi dell’open publish della primissima indymedia.
Concetto oramai superato dal fatto che chiunque può aprire un blog.

Il web è quasi del tutto uno spazio privato, di pochi, altro
che pubblico. Il web è uno spazio nel quale c’e’ chi si appropria dei beni comuni.

Di contro la rete ha la qualità di aver messo in evidenza
quanto sia fuori luogo il vincolo del copyright sui contenuti disponibili. Ha
reso anche più stridente la contraddizione insita nelle argomentazioni di molte
donne che si riferiscono ai beni comuni in teoria e poi vincolano con bollino
siae le proprie opere scritte, filmate, in virtù, credo di una cattiva
informazione. Sanno infatti poco o nulla su tutto il settore delle
autoproduzioni, sulla filosofia del copyleft, sulla pratica dei saperi liberati
e soprattutto sull’esercizio reale della condivisione come metodo e come
scelta. Non sanno forse che il diritto d’autore viaggia braccio a braccio con
tutto il mercato dei brevetti che monopolizza vite, conoscenze, persone. Non
sanno che si tratta di un monopolio che arricchisce pochi e impoverisce tutti
gli altri e le altre. Non sanno che esistono licenze alternative (Creative
Commons
) a tutela di chi ha realizzato le opere, che impediscono un uso
commerciale della stessa produzione e che invece ne consente la diffusione tra
chi vuole fruirne singolarmente favorendo così la pubblicizzazione dell’opera e
molto spesso anche l’incremento delle vendite (e parliamo di libri, musica,
video). Vi rimando comunque ad un testo che ho scritto qualche tempo fa e che
parla proprio di beni comuni (Da consum-Attori a Produttori: autoproduzioni e beni comuni) e ad un glossario che vi può essere utile alla comprensione della materia della quale stiamo parlando (Glossario no copyright).

Ha reso evidente anche quanto sia inefficace
l’individualismo. Pensate ai tanti siti e blog di donne che restano lì fermi
senza mettersi in “rete” con altre. Attendendo soltanto che le altre arrivino
in visita per esporre i loro salotti buoni. Pensate alla regola che stabilisce
che la visibilità di siti e blog dipenda esclusivamente dal rank. Ovvero dal
numero di preferenze, citazioni, link che un sito ha ottenuto e che ne
stabiliscono il grado di popolarità. Pensate anche che ad una qualunque ricerca
su google per via di questo malsano principio accade che i siti di donne che
non sono linkatissimi non appaiono mai nella prima schermata del foglio di
ricerca. Quando avete pensato questo capite anche che uno dei motivi per cui le
donne non riescono in web a far passare i propri contenuti è perché non si
valorizzano a vicenda, perché non si linkano quasi mai. Linkarsi regala forza.
E’ un trucco semplice che però scatena l’antico conflitto dello scontro tra
identità e della inutile competizione tra singole individualità.

Quello che succede di buono è anche che in rete vi sono alcune
realtà intese come beni comuni che operano per creare delle zone liberate.
Penso a luoghi di donne come women.it, o penso a luoghi misti come
autistici/inventati, e altri gia’ descritti nell’abc della femminista
tecnologica
. Sono spazi dove nessuno impone la pubblicità sulle tue pagine e
dove la libertà di esserci ed esprimere le proprie opinioni è veramente un
diritto. Sono luoghi che comunque pagano pegno per occupare spazio web anche se
scelgono di pagare luoghi eticamente compatibili.

Per avere uno spazio realmente pubblico, fruibile, libero,
dunque, come sempre avviene, è necessario risalire a ritroso tutta la scala che
dallo spacciatore di hosting porta al fruitore. Quando pensiamo allo spazio
pubblico quindi bisogna concentrarsi non solo sul luogo che attraversiamo ma
anche su chi lo fornisce, su chi ha avuto l’appalto per ripararlo, su chi lo
realizza, sui mezzi impiegati per realizzarlo – preferibilmente open source
linux, software libero e non software proprietario – e su chi – per finire – ci
guadagna.

La stessa cosa fareste se si trattasse di uno spazio reale.
Ci sono scelte quindi coerenti con la nostra esigenza di uso collettivo (e
quindi di uso Corresponsabile) degli spazi pubblici e ci sono anche scelte di
attraversamento che potremo definire strategico quando si tratta di andare a
fare blitz di disturbo in luoghi che sono vere e proprie nazioni stracolme di
individui che è irragionevole lasciare in balìa di chi occupa la rete per
appropriarsene o di chi la possiede già, di chi veicola una cultura fascista,
sessista, razzista, integralista, omofoba, contro le donne, priva di buon senso
e per niente laica.

In questo senso lo spazio pubblico è quello che ciascuno di
noi vuole farlo diventare. A partire dai luoghi “liberi” che noi riusciamo a
ritagliarci e dal livello di contaminazione che riusciamo a realizzare in posti
che nascono per commercializzare la socialità e l’amicizia, per esempio, e mi
riferisco a second life, facebook. Così come ci sono quei luoghi che offrono
spazio gratuito per i blog, ti chiedono un pagamento per lo spazio "pro", e
comunque anche se lo usi gratis sfruttano il numero di accessi che gli procuri
per essere appetibili rispetto al mercato pubblicitario. Tanto per citarne uno:
Blogspot che è del gruppo google e che come tanti altri servizi di questo
genere tiene i log di chi lo usa, ci scrive, lo frequenta, commenta, non
garantendo privacy a nessuno.

Se proprio si vuole usare un gruppo di quelli commerciali
per lo spazio blog almeno usiamone uno che è a piattaforma linux come wordpress
e che è una roba piccolissima rispetto al grande colosso rappresentato da
google.

Personalmente vi consiglio di usare – ricordandovi di
contribuire alle spese di mantenimento ai server ogni tanto – i servizi offerti
da Autistici – Inventati: caselle di posta, mailing list, siti, forum e da un
paio di anni anche i blog. Perché è un bene comune, misto e occupato da tante
donne. Vi consiglio il "server donne" (women.it) che offre allo stesso modo account mail,
spazio siti e volendo mille altre cose.

Bello sarebbe se si pensasse di inventare una piattaforma
che riassumesse i criteri che ho in qualche modo elencato e che fosse pensata e
gestita da donne.

E qui arriviamo all’altro punto – quello in cui parlo delle
cose trasversalmente positive che derivano dallo spazio pubblico virtuale – che
ci tenevo a trattare prima di parlare in maniera più approfondita di blog.

La rete, in un modo o nell’altro, influenza la nostra
modalità di relazione. Persino quando siamo in presenza di modelli gerarchici e
verticali, come quelli che ci obbligano a dipendere dagli spazi offerti da chi
fa soldi sui nostri contenuti (google e dunque blogspot e youtube, oppure
facebook, etc etc), chi ci “ospita” (non a scopo filantropico naturalmente) non
sta lì a pensare a quali sono i contenuti che veicoliamo in rete. Questo in
qualche modo fa venire fuori quel caos all’interno del quale stranamente è più
facile cambiare le parole d’ordine (penso alle tag, ai tag cloud, al web
semantico) ed è più facile dunque che vi sia una rappresentazione non
edulcorata di quello che esiste in realtà.

In poche parole a google del vaticano non gliene può fregare
di meno e dunque ospiterebbe pur di far soldi qualunque cosa senza stare a
sindacare sulle virgole. L’unica cosa della quale gli frega è la montagna di
guai legali che potrebbero derivare da cause di diffamazione, richieste di
risarcimento danni, complicità nella diffusione di materiale pedopornografico.
Ultimamente hanno deciso di vietare su youtube la pubblicazione di materiale su
contenuti a base di sesso e di alcune espressioni di violenza. Non so se il
divieto si riferiva ad alcuni video nazisti (quelli dei 99 fosse, nazirock
band) che sono stati tolti solo su segnalazione di tanti.

La stessa cosa sta accadendo su facebook dove c’e’ gente che
si sta muovendo per ottenere la chiusura di tanti gruppi razzisti e con grande
difficoltà ogni tanto riesce a vederne chiuso uno. Dal canto suo facebook non
censura i contenuti sulla base della diversità delle opinioni perciò si tiene
tranquillamente nickname come “ebreo coprofilo merdoso” che gravitano al suo
interno.

Stessa cosa dicasi per tutto il materiale sessista presente
in rete che di fatto crea discriminazione e diventa veicolo di una cultura che
giustifica spesso la violenza contro le donne o la pretesa di controllo dei
nostri corpi.

Personalmente ritengo che ottenere la chiusura di gruppi non
aiuti noi ad ottenere libera cittadinanza nel web ne ci aiuta a veicolare i
nostri contenuti a prescindere dalla modalità con la quale lo faremo.

Ad ogni modo, dicevo, che questo caos ci da modo di
introdurre delle nuove parole d’ordine che volente o nolente influenzano la
comunicazione in rete.

Gli strumenti di accesso alla rete poi ci obbligano anche a
rivedere i nostri metodi di interazione in termini reali. Perché la tecnologia
sviluppa strumenti sulla base di una richiesta oltrechè indurne una.

Mi spiego: esistevano i siti. Gestione chiusa e unica,
responsabilità unica, gerarchia, attribuzione di ruoli. Poi sono nati i modelli
alla indymedia: gestione aperta e collettiva, metodo del consenso per le
decisioni alternative a quello a maggioranza utilizzato nei collettivi politici
militanti di tanti contesti reali, open publish per imprimere un nuovo e
rivoluzionario concetto: quello del farsi media invece di dipendere dai media.

Poi venne il telefonino che fa le fotografie e anche i video e dunque nacquero (non so se effettivamente
la successione di eventi sia questa) un milione di spazi offerti persino da
grosse testate come repubblica, per far diventare protagonisti con una foto o
un video chiunque volesse dire qualcosa. Accadde così che la tecnologia ancora
una volta offrì spazi per le individualità all’interno di community. Il famoso:
fare rete senza che nessuna identità venisse omologata. Allo stato attuale anche
il nuovo progetto di indymedia italia è ritagliato su questa scelta. Ci sono
varie indymedia locali e una pagina nazionale che in realtà è uno spazio
che pubblica i feed dei siti locali e non solo quelli. Ci si trovano anche i
feed di altri progetti affini e tra questi anche i blog di noblogs della
piattaforma autistici inventati.

La stessa cosa viene fatta da women.it, magazine online del
server donna che tiene in feed alcuni spazi di donne. Lo stesso e in maniera
assai capillare e diffusa vale per Il paese delle donne online womenews.net.

La risposta tecnica all’esigenza di esprimersi
individualmente e comunque di mettersi in rete con una componente collettiva
diventa dunque proprio quella della rete, della pagina che aggrega contenuti
che vengono da altre continuando a produrne di propri.

È la risposta che non nega le differenze, non entra in
competizione, non chiede alle altre di somigliare ad una pseudo maggioranza ma
offre, per capirci, un “portico”, un luogo di attraversamento per tutt@ senza
dettare regole sulle pratiche da portare avanti.

Le reti possono essere ovviamente diversificate e a più
livelli. Non troveremo mai una rete – voglio sperare – che aggreghi la
mussolini alle ragazze del collettivo figlie femmine. Ci sono differenze che
vanno ribadite, anzi sottolineate perché la comunicazione è importante, il web
è una piazza, lo spazio che lì occupiamo è un mezzo e i contenuti che vi
inseriamo sono veicolo di cultura.

Noi siamo responsabili di ogni messaggio che veicoliamo.
Siamo responsabili dunque anche di ribadire delle differenze defraudanti, che
non ci arricchiscono neppure sotto la lente dell’amore per la complessità, ma
che ci impoveriscono e anzi minacciano di schiacciarci e se potrebbero ci
censurerebbero e ci manderebbero al confino solo per aver scritto “il corpo è
mio e lo gestisco io”.

Dal modello di interazione delle comunità digitali possiamo
prendere esempio per realizzare sul piano reale spazi collettivi orizzontali,
con una idea precisa del fine che vogliamo raggiungere e con il rispetto pieno
per le differenti pratiche che ciascuna vorrà utilizzare.

Ogni idea e ogni pratica viene manifestata da un blog. Il
blog è un sito prefabbricato. La formula che uso sempre per spiegarlo è questa: "un sito è come una casa. Per
costruirla dovete acquistare un terreno, costruire le fondamenta, fare
i muri, metterci gli infissi, rifinire con la rete elettrica, quella
idraulica etc etc fino ad ottenere una casa che potrete abitare.

Un blog è un po’ come un appartamento in residence. C’e’ una impresa
edile che ha costruito le case, di varie forme e dimensioni. Vi lascia
però la possibilità di personalizzare i vostri spazi come volete pur
mantenendo la stessa struttura di base. In ogni appartamento voi
trovate il necessario per cucinare, dormire, fare la doccia, andare al
cesso. Qualunque altra cosa vi serve bisogna che la cambiate da voi.
Potete tenervi l’appartamento così com’e’ o cambiare la doccia con una
bella vasca da bagno, per esempio".

È semplice da usare e per chi ha difficoltà a farlo online
c’e’ l’abc della femminista tecnologica con cenni che vi possono
servire a iniziare. In attesa di una versione 1.1 del manuale d’uso sappiate
che ogni tanto si organizzano workshop nei quali io e/o altre possiamo
condividere la nostra conoscenza sulla materia.

Alla base della conoscenza che mi piace condividere c’e’ la
grande consapevolezza che è importante modificare il linguaggio di
comunicazione di queste questioni se si vuole superare il gender digital
divide. L’approccio alla tecnologia da parte delle donne non risulta complicato
solo perché le donne studiano meno le materie informatiche. È complicato anche
dal fatto che la tecnologia non è neutra ma sessuata, studiata secondo finalità
che non ci riguardano e comunicata con un linguaggio per addetti ai lavori che
non ci somiglia perchè rappresenta un approccio alla tecnologia che non è il
nostro o almeno quello di tante di noi.

La nostra finalità è differente, gli obiettivi e le priorità
lo sono allo stesso modo e il nostro approccio è diverso. Abbiamo più senso
pratico. La tecnologia ci serve e allora impariamo. Come riusciremmo a imparare
la riprogettazione di una lavatrice pur di non chiamare un tecnico per
risparmiare soldi quando si rompe.

Perciò mi piace dire che il computer non è un’arma atomica,
un ordigno infernale. È soltanto un elettrodomestico. C’e’ un tasto on/off e
poi c’e’ un programma di gestione che ci permetterà di usarlo. Se vogliamo
risparmiare sui soldi del tecnico possiamo smontarlo (da qui il termine hacker,
smontare fare da se’, smanettare), imparare ad aggiustarlo e se ancora non ci
piace il software che ci hanno propinato possiamo studiare per modificarlo, integrarlo o inventarne uno.
Difficile, lo so, ma possiamo fare una cosa alla volta. Non ci corre dietro
nessuno. Meglio questo che dipendere da altr*.

In questo momento ci sono un po’ di smanettone che hanno
varcato la soglia della rete e che sono diventate voce femminile, con una
attenzione al genere, soprattutto nel mondo dei blog militanti.

Ed eccoci all’ultimo capitolo: i blog e le donne.

Ce ne sono di vari tipi. I blog nei quali si raccontano di
amori drammatici, di poppate all’alba al neonato, di opinioni sull’ultimo libro
letto, di pezzi di mondo che si stanno visitando. Tanti contenuti comunque
ricchi e belli che anche inconsapevolmente impongono quel concetto di
personale/politico che noi conosciamo bene che ribalta e sconfigge il senso del
generico finto “neutro” imposto dal linguaggio maschile.

Poi ci sono una serie di blog venuti alla luce negli ultimi
due anni (ne trovate molti esempi tra i link di Femminismo a Sud alla voce Femminismi/Attivismi o sul summary dei blog di noblogs alla categoria gender, sex, e in altre categorie) gestiti da donne che hanno una finalità puramente militante di
diffusione di contenuti di vario tipo, che agiscono in maniera virale per
comunicare notizie di eventi femministi e ne raccontano la cronaca, vi pubblicano le foto, senza aspettare che
lo faccia una fonte di informazione ufficiale per loro. Si torna a quel farsi
media che assume nuove forme e anche parole diverse. Sono le donne a parlare e
il loro/nostro linguaggio è diverso. Si parla di battaglie gestite con
creatività, si parla di opposizione al machismo, di una comunicazione mirata e
poi di mille altre forme di occupazione dello spazio pubblico reale e virtuale
in maniera utile all’obiettivo di quel momento. Si convocano manifestazioni,
presidi, sit in, assemblee anche all’ultimo minuto.

È una pink gang virtuale che ha scelto come inno la
malarazza siciliana, e che non usa il bastone come le donne indiane da cui
prendo il nome, per fare giustizia contro uomini oppressori e violenti dai
quali neppure la legge le difende, ma per offrire una lettura diversa e
necessaria del presente e per
presidiare la rete. Presidio utile a combattere contro detrattori e amici di
stupratori che diffamano via web le donne stuprate e utile ancora per osservare
e stigmatizzare comportamenti virtuali e linguaggi sessisti.

E’ una virtual pink gang alternativa alle forme blande di
opposizione al razzismo e a quelle inesistenti contro il fascismo perché loro
sanno che sono le ronde leghiste e quelli che si ispirano a modelli fascisti
che vogliono controllare i loro corpi.

Alternativa e diversa da quella partorita dai tanti luoghi
al maschile in cui tanti opinionisti improvvisati parlano delle nostre
questioni con il paternalismo buonista di chi ci dichiara libere mentre pianta
una bandierina colonizzatrice sulla nostra testa e sul nostro utero.

Alternativa e diversa perché discute di sesso, di
contraccezione, di corpo, di vita e non lo fa in maniera accademica. Perché sta
rivoluzionando i termini del confronto stesso tra le femministe e perché esige
un posizionamento radicale poiché ritengono che i tempi non siano adatti a
modalità mediate.

Poi ci sono blog che si incrociano più spesso con donne che
invece usano la mediazione perché è giusta e utile al loro scopo e penso a chi
agisce all’interno dei luoghi nei quali ci si occupa di donne maltrattate.
Posti che hanno esigenza di interloquire con le istituzioni senza confondersi
con esse.

Per terminare la carrellata descrittiva delle presenze di
donne nella rete non posso non dire che ci sono altri spazi web che sono
espressione di donne più classiche e che in genere non identifico in blog
perché insistono nella struttura tecnica del sito monogestione, verticale e
gerarchico, esattamente come sul piano reale forse agiscono in associazioni che
sono pensate e gestite allo stesso modo.

A parte queste ultime dunque – che comunque si confrontano –
non sempre e non con facilità certo – con i femminismi esistenti sul piano
reale, la rete, il web è attualmente espressione piena della varietà dei
femminismi. Mi riferisco all’italia. Mi riferisco ai blog.

Collettivi e tante singole entità usano il blog con
consapevolezza e conducono una battaglia virale di comunicazione che lotta per
modificare il linguaggio e le modalità sessiste che si trovano spessissimo in
rete.

Perciò nasce il progetto “la rete non è neutra” che vuole
raccogliere la spinta che viene da queste energie e vuole fungere da osservatorio
per comportamenti sessisti che negano l’esistenza di corpi sul piano virtuale.
Quello delle donne, delle lesbiche, delle e dei trans, dei gay.

I blog delle donne sono tanti e per il modo con il quale
stanno contagiando di significati e codici di linguaggio differenti la rete
dovrebbero essercene di più. Molti di più.

Mi raccomando apritene uno. E fate che sia un piccolo-grande
bene comune per tutte noi.

—>>>La splendida immagine della donna che cammina su un mondo di uomini è tratta da uno dei tanti manifesti (quello che si riferisce alla iniziativa valorizzarsi tra donne per un futuro vivente) resi disponibili dalla biblioteca digitale delle donne

Posted in Fem/Activism.


2 Responses

Stay in touch with the conversation, subscribe to the RSS feed for comments on this post.

  1. antonio says

    salve, sono un siciliano che ha molto apprezzato questo articolo (in realtà tutto il contenuto del blog) riconoscendo in esso la volontà e la forza con cui le donne del sud siano capaci di reagire e combattere contro l’ambiente in cui si trovano a vivere, è ora di far valere i propri diritti in qualsiasi campo a partire da quello politico. concludo augurandomi che attraverso questo blog possiate dar voce a tutte quelle persone che rimangono vittime del sistema, sistema che ad oggi và a tutti molto stretto.

    a presto….

  2. claudio says

    http://www.ossblog.it/post/4599/linux-perche