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Siamo qui per stupirvi! [titolo provvisorio: prologo e primo capitolo]

Prologo

Carolina aveva una ruga sulla fronte. Le veniva sempre con i brutti pensieri. Stava a guardare quella faccia di minchia di piùzza dalla voce stridula e non riusciva a pensare a niente di buono. Nessuna ragione per tornare indietro. Più la guardava e più sentiva nelle orecchie l’eco fastidioso di quelle parole, le sillabe, la voce, quella orrenda voce che non la faceva più dormire tranquilla da mesi. Dieci mesi per l’esattezza: tanti quanti ne erano serviti per stanare quella gran buttana.

Numero uno

Carolina viveva a Palermo, proprio dentro la Vucciria. Si svegliava con i rumori del mercato e si addormentava con i prezzi della droga nelle orecchie. Era assuefatta all’odore della pescheria e a quello fortissimo delle spezie che la famiglia dello Srilanka del piano di sotto usava anche a colazione.

La casa era traballante, tutta spaccata di dentro e di fuori. Ogni tanto si ritrovava in compagnia di qualche bella famiglia di topi. La proprietaria accoglieva questa notizia simulando una grande sorpresa. Tutto di quella casa per lei era una sorpresa. La cosa fondamentale era darle i soldi dell’affitto a fine mese. Il resto – i ratti, l’acqua che mancava, le pareti che venivano giù con un soffio – accadeva per caso. Ma Carolina non si lamentava. Stava in una grande casa nel quartiere che preferiva e almeno i topi si potevano risolvere con un gatto.

Si era trasferita in quel quartiere appena un anno prima e dopo un po’ aveva deciso che le serviva anche un telefono. Di quelli che si potevano usare di notte per chiamare un’amica e parlarci o che si potevano sbattere in faccia a chi proprio non si voleva stare a sentire. Una cosa così, insomma.

Il numero di telefono era veramente uno sfizio, facile da ricordare e da dire: 3456543.

Carolina lavorava in un ristorante della zona buona della città, vicino al teatro Massimo.

Il proprietario del locale era uno della Tunisia grasso e brutto. La toccava sempre. Usava la scusa delle comunicazioni di lavoro importanti da fare in privato. Lei diventava rossa e non diceva niente. La sua famiglia le aveva insegnato quel trucco per sopravvivere. Bastava farsi i cazzi propri e andare avanti. Le cose per cui valeva davvero la pena arrabbiarsi erano altre. Così Carolina si faceva palpare dal tunisimo grasso e si sorbiva anche gli sguardi allusivi e sfottenti di camerieri e lavapiatti. Il cuoco no, non faceva nulla di male. Lui sembrava uno davvero per bene. Le metteva da parte pietanze succulente e la osservava ammirato come se aspettasse un premio che prima o poi lui sapeva che sarebbe arrivato.

La paga era decente. Carolina poteva pagarci l’affitto e mantenersi. Tutto in nero, senza contratto, ma a lei andava bene lo stesso. Del resto non aveva alternative.Nessuna possibilità di scelta. In una città come quella, andavano avanti solo gli amici degli amici. La sua unica vera amica faceva la cameriera e le aveva procurato quel posto e Carolina non si aspettava niente di meglio. Lei veniva da una famiglia concreta, che triturava i sogni prima ancora di vederli nascere.

Suo padre le aveva insegnato i valori veri della vita. Ogni tanto la rimetteva in riga perché così lei capiva meglio e la madre le diceva di non lamentarsi perché era sempre meglio soprassedere. “L’importante è la salute!” – diceva.

Carolina di salute ne aveva tanta e tutto sommato la sua vita era felice. Dodici ore di lavoro, gli amici, la casa, il gatto, i vicini di casa, gli odori, i sapori. Poi c’era sempre il mare e il sole, per lei irrinunciabili. Trascorreva così, a fare la lucertola, l’unico giorno libero della settimana. Un bagno, un po’ di sole buono per la pelle e poi di nuovo a casa.

La Vucciria era un bel posto per viverci. Carolina poteva tornare a casa a qualunque ora sicura che nessuno la disturbasse mai. Bastava portare un po’ di rispetto e sorridere a tutti allo stesso modo. Quel quartiere amava i suoi figli e lei si sentiva al sicuro. Erano come lei e di certo a nessuno sarebbe mai venuto in mente di farle del male. Il suo lavoro si svolgeva dalle cinque del pomeriggio alle cinque del mattino successivo. Erano dodici ore filate durante le quali lei buttava sangue per guadagnarsi il pane. Qualche volta aveva mal di schiena e allora si fermava a riprendere fiato. In quel caso si avvicinava, quasi a soccorrerla, il padrone del locale e la afferrava per la vita con le dita grassocce e pesantemente inanellate. Così lei si risollevava in fretta liquidandolo con un sorriso. Meglio il mal di schiena che quel porco addosso. La notte arrivava a casa sfinita e dopo una doccia non le restava altro da fare che crollare a letto. Dormiva bene, senza interruzioni. Non la svegliavano i rumori, le urla, le saracinesche dei negozi e le voci del mercato. Il gatto le si accoccolava a fianco e, sicuro di essere l’unico uomo nella sua vita, la riscaldava a lungo con il corpo.

La vita di Carolina era così. Non c’era tempo per un amore migliore. Nessuno che potesse condividere i suoi ritmi. Anche le amiche man mano la abbandonavano per via di quella storia che lei non poteva mai uscire con loro la sera. Anzi qualche volta la andavano a trovare al ristorante e si sedevano a prendere una pizza sperando che lei potesse fermarsi a salutare o al limite anche solo a intercedere per farle pagare meno.

Carolina l’ho conosciuta così, osservandola giorno per giorno, sera dopo sera in quel ristorante dove andavo a mangiare qualcosa con i miei colleghi dopo aver chiuso l’ultima pagina del giornale. Mi gustavo il suo sorriso e andavo a prendermi un po’ del suo immancabile buon umore. Pensavo di non fare nulla di male. Non pensavo di rubare a qualcuno con l’aria idiota del cliente qualsiasi. Non mi sentivo mai in colpa. Non mi veniva proprio in mente che dall’alto della mia professione di giornalista avrei potuto fare qualcosa di più. Non me ne rendevo conto e davvero in quel momento pensavo che le inchieste dovevo farle in mondi lontani dal mio.

Quella donna era solo una che mi portava da mangiare e che vedevo spesso in difficoltà. La guardavo quando quel viscido le si avvicinava e la toccava. La vedevo bene quando sentivo gli altri mortificarla perché le era caduto un bicchiere o perché non andava abbastanza in fretta. Mi dispiaceva vederla sudata, stanca. Non per lei, no. Ma perché io andavo in quel posto per rubare un sorriso, una battuta intelligente. Per godere di quella presenza sinuosa, di quel corpo chiaro, di quegli occhi arguti.

Lei era alla mia altezza, si. Ma non abbastanza da considerarla un essere umano.

Carolina doveva stare al ristorante per me.

Un bel giorno lei cambiò. Era una variazione impercettibile a chiunque, ma io me ne resi subito conto. Il suo sguardo era un po’ spento, quasi rassegnato. La stuzzicavo spesso quando veniva a portarmi da mangiare. Le porgevo, come avveniva di solito, la battuta cui doveva seguire la sua pungente e ironica risposta. Invece niente. Lei mi faceva un sorriso e basta. I suoi occhi azzurri si fecero man mano sempre più opachi. Anche la sua pelle mi parve cambiare colore, tanto che un giorno le chiesi come mai non andasse al mare ad abbronzarsi un po’. Lei mi fulminò con lo sguardo e fuggì via come una saetta. Questa faccenda mi mise davvero di malumore e allora chiamai il suo datore di lavoro. Gli dissi che Carolina non rispondeva alle mie domande e che mi aveva guardato male. Lui la prese per un braccio e la trascinò in un angolo della sala del ristorante. Lo vidi mutare espressione e diventare davvero orrendo. Le diceva cose sicuramente terribili a distanza di pochi millimetri dalla sua faccia. Ogni tanto la sporcava di saliva e lei abbassava il viso per tentare di salvarsi da quell’alito, da quegli insulti, da quell’uomo. L’ho vista spesso girarsi dalla mia parte e non capivo se mi stava guardando con odio o con dispiacere. Fatto sta che dopo pochi minuti la vidi arrivare con un limoncello offerto dalla casa, così mi disse, e con le sue scuse. Mi confermò con tono davvero dispiaciuto che non voleva essere scortese e che le dispiaceva molto avere lasciato interferire i suoi problemi con il lavoro. Disse proprio così: si era trattato di una interferenza. Non ero io ad averla stufata. Non ce l’aveva con me. Potevo stare tranquillo. Da quel momento il suo sorriso per me sarebbe stato assicurato.

Carolina mi sorrideva tutte le sere. Tirava fuori il suo repertorio di magnifiche battute anche quando non le davo il via. Ci faceva ridere di gusto e si allontanava sculettando con la sua battuta d’uscita di scena: “Siamo qui per servirvi e per stupirvi!”

Io non sapevo della sua misera paga. Non sapevo delle norme che regolavano il suo lavoro. Non mi interessava nemmeno. Per me l’essenziale era che lei entrasse in scena e io potessi vederla esibire, sudare, anche morire possibilmente. Perché una cameriera non è solo quella che ti chiede che vuoi mangiare e poi ti serve e ti sparecchia. Una cameriera è anche quella che deve intrattenerti, renderti felice, farti sentire a tuo agio, non farti pensare mai alla solitudine, alla frustrazione, ai problemi della vita. Carolina queste cose le sapeva fare benissimo e per questo io continuavo a mangiare in quel ristorante. Pagavo per averla. Le lasciavo grandi mance. Almeno ero convinto di lasciarle a lei: anche se un po’ sapevo che i camerieri dovevano consegnare tutto al datore di lavoro. Era lui a fottersene una parte e a suddividere il resto tra i colleghi. Ma la mia coscienza era a posto. Io pagavo e lei doveva esserci per me.

Carolina dietro ogni sorriso nascondeva qualcosa di pessimo. Così, stracolmo di buone intenzioni, le chiesi di nuovo se avesse altri problemi che “interferivano” con il lavoro. Lei non disse niente ma dopo un attimo mi passò un bigliettino con il suo indirizzo di casa e il numero di telefono. “Vieni a trovarmi stanotte dopo il lavoro…” – mi attirò.

Pensai che per le cameriere fosse normale invitare uomini in casa piuttosto che uscirci la sera come fanno le donne diurne.

L’invito placò la mia ansia e superai così la tentazione di farla sgridare di nuovo per avere tutta la sua attenzione. Il locale chiuse alle tre e mezza di notte e io aspettai per più di un ora che lei finisse di rassettare e pulire pavimenti, cessi, posate e bicchieri. Si trattava del lavoro fuori scena che i camerieri facevano prima e dopo lo spettacolo del servizio ai tavoli. Roba noiosa durante la quale potevano spegnere i sorrisi e mostrare la stanchezza senza paura di ferire la sensibilità di nessuno.

Carolina arrivò all’indirizzo e appena mi vide seduto al volante fece cenno di scendere dall’auto. Non capivo perché avevo dovuto incontrarla lontano dal ristorante, come fossimo una coppia clandestina. Mi convinsi però che il capo le avesse proibito di intrecciare relazioni intime con i clienti.

Carolina si fermò davanti al portone di casa e mi guardò severa da testa a piedi procurandomi un grandissimo imbarazzo. Non mi ero mai sentito così stupido e recuperando orgoglio dal ricordo che avevo del mio aspetto semplicemente dissi: “ Io mi chiamo Rosario.”

Lei, indifferente, si voltò a cercare le chiavi di casa. Non le interessava proprio niente di me. Il suo sguardo mi scivolava addosso senza restare impigliato in nulla che la affascinasse.

“Ma come mai mi hai invitato a casa tua? – chiesi sforzandomi di usare un tono simpatico. E immaginavo che lei mi rispondesse che lo aveva fatto per conoscermi meglio o perché si era sentita attratta da me.

“Il mio orario di lavoro è finito e io non ti devo più risposte ne’ buone maniere.” – rispose fredda lei.

Appena entrati mi condusse in camera da letto. Era una bella stanza con le pareti bluastre e una finestra con le persiane di bambu’. Al centro del letto troneggiava un gatto persiano. Carolina gli dedicò molte attenzioni prima di allontanarlo dalla stanza. Poi cominciò a spogliarsi e senza una parola si fece più vicina. Mi annusò la camicia, il collo, le mani.

“Si, mi vai bene. – disse – Spogliati!”

Eseguì senza fare domande. Ero imbarazzato e anche arrabbiato per il modo in cui mi stava trattando. Però ero anche molto eccitato e lei mi attraeva come una calamita. La sua bocca mi prese e mi lasciò più volte. Continuava a esercitare il suo olfatto e premeva le labbra sulla mia carne, come per assorbirne il sapore. Misurava i miei muscoli con le mani e solo per un attimo mi lasciò fare, o almeno così credetti. Lasciò che mi avvicinassi a toccarla e con un gesto ordinò che usassi la lingua per darle piacere. Tremava, si divincolava come una anguilla che resiste e vuole scappare via. La sua carne parlava di parole certe, decise. Sapeva di un sapere ereditato, mai svelato. Quella carne mi nutriva e quel liquido mi dissetava. Lei, infine, urlò. Così provai ad incontrare quel piacere prima che finisse, prima che fosse troppo tardi. Già lo era perché Carolina strinse le gambe e mi segò ogni intenzione. La guardai disperato, chiedendo pietà. Ma lei fu irremovibile. Mi spinse lontano a mano aperta e si avvolse al lenzuolo.

“Vestiti e vattene. Non scordare di chiudere la porta…” – mi torturò.

Provai a pensare qualcosa di intelligente da dire. Un gesto da fare. Forse una carezza. Ero paralizzato dalla delusione, dal dolore, dalla miseria di quel momento. Io non ero niente. Non ero più niente. Lei invece si era presa tutto.

Fuggii via mentre il gatto si affrettava a riprendere il suo posto. Provai a dire un buonanotte che non ebbe mai risposta. Rimasi sveglio per tutta la notte con il sangue che ribolliva e le domande che non trovavano risposte. L’unica cosa chiara: potevo rivederla al ristorante. Si, certamente potevo.

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Continua —>>> [qui prologo/primo capitolo, secondo capitolo, terzo capitolo, quarto capitolo, quinto capitolo, sesto capitolo]

[e.p.] 

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