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Siamo qui per stupirvi! [sesto capitolo]

Numero sei [qui prologo/primo capitolo, secondo capitolo, terzo capitolo, quarto capitolo, quinto capitolo, sesto capitolo]

Si alzò il vento e la sabbia cominciò a coprirci i vestiti, a sporcare il suo viso. La trascinai in macchina. Poi le chiesi di quella strana faccenda che si era lasciata sfuggire in spiaggia. Rispose che era tutto uno scherzo. Sua madre stava benissimo e non ne volle più parlare. Nel frattempo mi trascinava giù in un vortice di paranoia. Dentro quell’ossessione per la operatrice della Light.

Quella notte mi lasciò a letto da solo. Lei continuò a chattare e quando la raggiunsi per chiederle di stare un po’ con me mi disse che non aveva voglia di vegliare sul mio cadavere. Io respiravo appena e senza dire niente infilai i pantaloni e poi la camicia. Buttai l’occhio verso di lei per spiarla mentre ricambiava con l'indifferenza. Speravo mi fermasse e invece disse solo: “Non sbattere la porta!”

Obbedii all’ordine. Ma quasi scardinai la portiera dell’auto. Poi mi lasciai sentire sulla strada, l’acceleratore in fondo, per punirla della sua freddezza. Non la cercai per un paio di giorni. Ovviamente non lo fece neppure lei. Cambiai ristorante persino. Così il tunisino dovette barattare una cameriera con una decina di clienti. Ero tentato di dirglielo. Magari l’avrebbe licenziata. Lei valeva meno dei soldi che portavamo io e i miei colleghi. Però adottai la linea soft. Si mangiava arabo o tipicamente palermitano in maniera alternata. Una sera parfait di mandorle e quella dopo gelo di mellone.

All’africano dissi una bugia. Che il lavoro ci teneva impegnati fino a tardi. Così lui offrì la  disponibilità dei suoi schiavi per aspettare i nostri comodi. Già immaginavo l’odio sputato in faccia da Carolina. Lei guadagnava uguale, qualunque fosse l’orario di chiusura del locale. Allora dissi che no, in quelle particolari sere in redazione andavamo avanti a panini. Certo speravo che l’arabo non conoscesse il palermitano e che in particolare non si scambiassero l’elenco dei clienti.

Che idee mi passavano per la testa. A Palermo si vantavano di avere Vip seduti ai tavoli. Noi non eravamo così importanti. Il nostro segreto era salvo. Ai miei colleghi però dovetti lasciare una spiegazione e poi ancora una perché li volevo complici. Se io ero il solo a non andare, Carolina avrebbe sicuramente capito che si trattava  di un modo per attirare la sua attenzione. Per farmi desiderare. Ma lei non mi desiderava mai. Si prendeva la mia compagnia senza affezionarsi. Poteva fare a meno di me. Io invece senza di lei ero povero.

Una sera la vidi uscire dal locale in compagnia. Con lei un uomo con le mascelle grosse e gli occhi piccoli. Due spalle enormi, il culo secco e le gambe filiformi, sproporzionate rispetto al resto. Mi venne un brutto sospetto e lo guardai in mezzo alle cosce. Volevo misurargli il pene. Se contava venticentimetri era lui: il tizio della chat. Carolina mi distolse da quella ridicola posa, io con lo sguardo fisso sul gonfiore di quell’uomo, e con un meraviglioso sorriso mi introdusse a quella singolare conoscenza. Si chiamava Matteo e tutto sommato sembrava un essere buono. Chissà perché lo immaginavo con le corna e una coda.

Venticentimetri voleva incontrare Carolina e quella gli aveva dato appuntamento proprio lì dove sapeva che sarei stato anch’io. Un bel triangolo di imbarazzi che solo lei era in grado di gestire. Ci portò nella sua casa e scoprimmo un erotomane piuttosto timido intento a ripulirle il computer di immondizia varia, scarti di connessione, roba inutile che a suo dire rallentava solo la velocità della macchina.

Quel gioco perverso si trasformò in una perfetta e civile conversazione tra simili. Matteo era persona intelligente, solo aveva la voce e una dizione da uomo di malaffare. La sua espressione però era mansueta. Da uomo impacciato, a volte timido. Mi restava la curiosità di capire quale fosse la reale misura del suo strumento. Così lo chiesi con un certo sarcasmo e Carolina rispose per lui. Anche lei aveva mentito con quella foto falsa e quella descrizione da disinibita pornostar.

“Tutti noi ci presentiamo agli altri con misure esagerate. Sempre migliori, eccessivi rispetto a quello che siamo realmente.” – precisò.

L’altro rise ed era visibilmente compiaciuto. Fu a quel punto, quando intercettai uno scambio di sguardi, una complicità che mai Carolina mi aveva restituito, che sentii forte uno spillo ferirmi al petto. Fu così caldo, quasi bollente, una fiammata che veniva dallo stomaco e mi riempiva gli occhi. Mi sentivo bruciare e mi lanciai ad aprire una finestra mentre lei mi sfiniva di moine e di risate.

Quel Venticentimetri si godeva la parte migliore della mia donna. E non potevo dire “mia” perché lei non me lo avrebbe mai permesso. Ma insomma lui se la prendeva e io non avevo mai diritto a niente. Con me era come se le rubassi pezzi di vita interi. Invece io li prendevo in prestito e li restituivo con gli interessi. Quando potevo considerarla se stessa? Quando stava con me o in quel preciso istante, con quel fenomeno da sessualità scaccolata, come fosse una cosa solida da espellere senza soffiarsi il naso. Con le dita grasse infilate dentro le narici a tirare fuori cadaveri di merda spacciati per liquido seminale. Sperma stantìo nella tastiera appiccicosa. Questa era l’immagine che andava e veniva nella mia testa.

Così Carolina si serviva della mia gelosia. Il mio ruolo somigliava a quello di un potente afrodisiaco. Una porzione di frutti di mare, un goccio di olio al peperoncino, una leccata di vino bianco. Vedevo tutti i venti centimetri vestiti in doppio petto, con la cravatta a righe e i pantaloni in taglio classico venire avanti spavaldi come le forcelle di un rabdomante. Cercavano liquidi. Saliva, urina, melma vischiosa impastata e fradicia. Tutto era sfatto, liquami di cadaveri. Doveva essere così per forza. Senza di me immaginavo lo schifo, la morte. Io solo sapevo di unguento profumato.

Continuai a pensarla tra le braccia di quel mostro e la intuivo a godere, domata, graffiata, come mai era successo con me. Soffrivo di un dolore intenso, tanto da togliermi il respiro. Ero gravemente malato e avevo bisogno di cure. Continuavo a chiedermi perché mi fossi invischiato in una storia che mi sfiniva e lei continuava a ridere e la vedevo avvicinarsi a quell’uomo e attirare a se’ quella faccia troppo piena di mascelle e sussurragli parole all’orecchio.

Avvenne tutto in un momento che mi lanciai su di lei e la afferrai per i capelli. Volevo schiacciarle la faccia contro il muro e invece la attirai per morderle una guancia. Matteo rideva pensando forse ad uno scherzo. Carolina si divincolò a strattoni e mi spinse lontano. Le risate erano finite. Restava solo la mia umiliazione. Venticentimetri rilanciò un appuntamento per l’indomani e lei confermò. Allargò le braccia per sottolineare il dispiacere e gli sorrise. Lui fece cenno che no, non era successo niente. Andava tutto bene. Restavo io che avevo rovinato la serata. Colpevole di aver distrutto l’atmosfera.

Mi aspettavo una scenata. Una reazione, un rimprovero, qualche insulto. Invece lei mi abbracciò forte e poi disse calma che se avessi osato ancora  metterle le mani addosso me le sarei ritrovate mozzate. Un uomo senza mani. Questo sarebbe stato il mio destino per volontà di quella donna. La sua era una giustizia personale fatta di sharìa senza attenuanti. Ma questo l’avevo già detto. Chissà perché avevo pensato di essere esente dalla sua area di controllo. Invece no.

Poi mi trascinò sotto la doccia. Senza faticosi contorsionismi. Finimmo un sesso riparatore. Il sonno ci salvò dalle parole.

 

[e.p.] 

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