Skip to content


Siamo qui per stupirvi! [secondo capitolo]

Numero due [qui prologo/primo capitolo, secondo capitolo, terzo capitolo, quarto capitolo, quinto capitolo, sesto capitolo]

Quella sera stessa tornai al locale. Ero tentato di dire tutto al tunisino. Di spiegargli che quello non era certo un comportamento da tenere con un cliente. Lei era stata troia due volte: prima perché mi aveva invitato a casa sua e poi perché mi aveva fatto sentire un coglione. Lui avrebbe sicuramente adottato giusti provvedimenti per punirla, farla ravvedere. Stavo pensando a quelle opzioni quando lei venne fuori dalla cucina e mi rivolse uno dei suoi sorrisi più belli. Mi sciolsi in uno sguardo tenero e mi sentii avvolgere dall’afa.

Lei si avvicinò con sicurezza e ne percepii l’odore dolce, di muschio bianco. I miei colleghi mi videro arrossire, poi balbettare e iniziarono a prendermi in giro. Carolina disse qualcosa di carino sugli uomini timidi e mi sfiorò una mano.

Quella donna mi faceva sangue: a litri. Era una trasfusione preziosa. Dimenticai che solo la notte prima mi aveva svenato.

La serata non cambiò tenore. Lei continuò a riempire bicchieri dalle sue vene e me li serviva con contorno di allusioni. Così cominciai a pensare che avevo frainteso ogni cosa. Che la notte prima in realtà lei mi aveva amato. Che forse non aveva capito che per me serviva altro tempo. Mi convinsi che le avrebbe fatto piacere rivedermi e la aspettai sotto casa.

Lei non sembrò stupita e questo mi fece ben sperare. Però l’atteggiamento era di nuovo cambiato.

“Sarà stanca. – pensai – In fondo che cazzo voglio da questa povera donna. Si fa il culo tutto il giorno. Ha perfino la forza di dedicarmi tanto tempo mentre lavora. Ora è naturale che sia sfatta, che abbia esaurito l’allegria.”

Lei non disse niente e mi guidò nuovamente in casa sua. Di nuovo il gatto. Di nuovo il suo profilo dai riflessi rossi. La guardavo incantato e non riuscivo a credere che quel corpo sarebbe stato quasi roba mia. Per una notte. Ancora una.

Carolina non parlò. Osservava solo che io obbedissi. Indovinai i desideri e mi lasciai dominare dai suoi occhi severi. Ora desiderava che la accarezzassi piano. Facevo scivolare le mani attento a non inciampare mai. Temevo una sua reazione. Avevo il terrore che tutto finisse . Non volevo andare via. La toccavo inseguendo i suoi movimenti e la velocità del suo respiro. Era una scommessa. Dovevo vincerla. Nel frattempo lei individuava il suo obiettivo. Allontanava le mie mani e mi faceva entrare. Toccava la mia testa, le dita sulle labbra, sugli occhi, a misurare ogni reazione.

Io non avevo più vita. Niente cuore. Niente cervello. Ogni mio atomo era smarrito. Lei non mi perdeva di vista ma io non ci feci caso. Pensavo mi guardasse per amore. Invece aspettò che fossi colmo per buttarmi fuori.

Provai a trattenerla. Mi agrappavo come se fosse l’unico appiglio per non precipitare. L’unica alternativa alla morte. Lei mi cacciò via con un calcio potente. La lasciai avvolta nel suo lenzuolo, il gatto a sorvegliarla, che prendeva sonno. Rimasi in piedi, sulla porta, a spiarla. Con la mano uccisi quello che restava del mio orgoglio. Il gatto a farmi da testimone e io lì, in piedi, a sporcare il pavimento con quella melma rifiutata. Carolina si voltò a mortificarmi proprio mentre le infangavo la casa. Non disse niente. Io fuggii via.

Ero frastornato. Consumato dall’ansia, dalla paura. Non mi ero sbagliato. Ma continuavo a non capire. La cameriera era diventata un’ossessione. Cominciai a pensare a quello che c’era da fare per immobilizzarla. Bisognava renderla inoffensiva. Era pericolosa.

Al ristorante mi lasciava intendere che tra noi c’era una meravigliosa intimità. Nel suo letto invece era così lontana. Io ero stanco dei sorrisi in pubblico. Desideravo la sua parte estranea. La volevo intera. Arrendevole, schiava, finita. Doveva morire per me. Così io sarei stato libero.

La mattina dopo decisi che l’avrei chiamata. Mi rispose con un soffio. Un suono pronunciato senza corde vocali. Le dissi che volevo vederla di giorno, prima che lei andasse al lavoro. Il telefono concluse con un impietoso click. Provai a richiamare ma quella troia non rispondeva. Allora mi precipitai sotto casa sua e trillai il campanello fino a quando Carolina non aprì ogni ingresso. Poi tornò a morire a letto. Il gatto stava a guardia del cadavere e io decisi di recuperare l’orgoglio dove l’avevo perduto.

Pronunciai il nome della morta ad alta voce e lei rispose soltanto con un: “Ma che cazzo vuoi? Lasciami dormire…”

Saltai sul letto e le presi la testa fra le mani. Lei mi afferrò un braccio e se lo avvolse attorno al corpo come fosse una coperta. “Dormi con me…” – mi ipnotizzò.

Rimasi a scaldarla con gratitudine. Immobile, quasi senza respirare, attento a non far rumore. Rinunciai a vivere per morire con lei. Giusto per qualche ora. Poi squillò il telefono. Ma questa volta non ero io a chiamare.

Carolina si rianimò. Afferrò la cornetta  e dopo un paio di secondi, appena il tempo di sentire l’altra voce, si mise a urlare come una vecchia in lutto al cimitero. Anzi si sforzava e le venivano le vene di fuori come quando la mia ex moglie doveva partorire. Quella figlia era stata la mia rovina. Nata lei, fuori io.

“Io non voglio niente. Ha capito?” – fece la cameriera. Dall’altra parte devono aver insistito perché lei cambiò faccia e cominciò a dire che non ne poteva più, che ogni mattina era la stessa storia. Tutte le mattine a sentire quella voce di merda. Sempre la stessa proposta che lei regolarmente rifiutava. Quella era la ragione principale del suo malumore. La signorina della Light, una compagnia telefonica che da qualche settimana aveva cominciato a torturare tutti gli utenti in possesso di una linea telefonica per proporgli il contratto “più vantaggioso del secolo”.

Carolina, stremata, finì la voce e staccò l’apparecchio. Così la rividi consumata e io non ero calmo perché la volevo forte, spavalda, persino arrogante. Ebbi la tentazione di serbare quell’appunto per il tunisino. Lui avrebbe preteso che lei tornasse quella di sempre: una che incassava le umiliazioni senza lasciare trasparire la sofferenza, una che si faceva mortificare senza far sentire in colpa nessuno, una che restituiva sempre l’idea di forza che lasciava tranquilli tutti. Di fragilità in un ristorante non si sapeva che farsene. Lo stesso valeva per la vita. Lei doveva lasciarsi dominare senza lamenti, senza fare quella faccia da troia sfiorita. Per un attimo finsi di essere il tunisino e la trattai male. “Ma smettila!” – rimproverai e mi feci uscire di mano uno schiaffo potente.

Lei si accasciò. Pochi secondi dopo era lavata, vestita, truccata e profumata per andare a lavorare. Un’altra serata per me.

Soddisfatto tornai al giornale. I colleghi starnazzavano e mi rifilavano battute d’ogni genere. Non ero stato per nulla discreto e a pensarci bene neppure mi dispiaceva. Carolina era una donna molto sensuale. Intelligente, brillante. Per quanto io non sapessi proprio niente di lei, ero certo che fosse più che una semplice cameriera. Così mi piaceva pensare. Questioni di rango. Se destava il mio interesse doveva essere per forza qualcosa di più di una serva. Iniziai a pensare alla sua casa. Una rapida indagine mentale per scoprire qualche indizio che rivelasse la sua vera identità. Una principessa in incognito. Una nobildonna caduta in disgrazia. Una laureata in attesa di collocazione migliore.

A me piacevano le donne infinite. Quelle tutte da scoprire. Femmine dalle mille vite che ne rivelano una per volta, come una caccia al tesoro con tracce sparse  e confuse che portano ad un’altra lei e poi un’altra e ancora una. Perché le donne non possono andare a spasso impunemente. Non vestite di miseria. Non senza un filo di reazione. Ancora odio quelle che fanno le vittime.

Ero curioso. Dovevo saperne di più. Glielo chiesi quella sera stessa.

“Ma tu, sei davvero una cameriera?”

Mi infornò con un’occhiata.

 “No. Sono un’agente della Cia in incognito.” – mi prese per il culo. Le venne una risata. Di quelle sue, belle e contagiose. Risero tutti. Lo feci anch’io, come se avessi orchestrato quella gag. Come se ci fosse una vera sintonia.

Quella notte decisi di non andare da Carolina. Volevo restituirle la ferita.  Ero tentato di raggiungerla ma la strategia era un’altra. Mi avrebbe chiamato lei. Mi avrebbe pregato di tornare, con la voce rotta di pianto, con gli occhi pieni di gratitudine, con le mani a tentare inutilmente di afferrarmi. Io sarei andato, l’avrei guardata con sufficienza e poi mi sarei lasciato amare senza concederle niente. Giusto qualche smorfia di flebile approvazione per rincuorarla di una sega orale ben fatta, di una acrobazia interessante e un cenno di ossequio ottocentesco al suo immancabile “Siamo qui per servirvi e per stupirvi!”.

 La notte mi passò alla guida dell’auto, a fare passa e spassa sotto casa sua. Tenevo il cellulare pronto per ogni evenienza. Provavo a chiamarmi a casa per vedere se funzionava. Al ventesimo passaggio indugiai sotto le sue finestre e decisi di spegnere il motore. C’era la luce accesa. Forse non era sola. Quella puttana si era portata a casa un altro fesso. Rimasi ad aspettare l’altro. Volevo leggergli in faccia la delusione. L’orrore della sconfitta. Quell’espressione che viene fuori dopo un’infangata nel torbido. Invece crollai di fatica. Le inchieste mi sfiancavano sempre. Perciò mi occupavo della pagina politica del giornale.

Mi risvegliai che era quasi giorno. Sentii bussare forte sul finestrino. Carolina guardava arrabbiata e continuava a chiamarmi. Pronunciava il mio nome per la prima volta. Buttai giù il vetro.

“ Ma che stai facendo qui? Perché non mi hai chiamata?”

“Non volevo svegliarti!” – mi giustificai.

“Mi hai svegliata lo stesso. Mi ha citofonato tutto il quartiere per sapere chi minchia eri…”

“Perché, qui non si può parcheggiare?”

“No se hai la faccia da sbirro e occupi il posto degli spacciatori…”

Ero mortificato. Non solo non ero riuscito a tenere fede al mio proposito ma avevo fatto davvero una gran cazzata. Per fortuna che Carolina la conoscevano tutti e si erano segnati che forse io ero amico suo, altrimenti mi avrebbero cacciato via a pedate nel culo. Lei mi scortò in casa sua e in silenzio cominciò a preparare il caffè. Ebbi il tempo di spiare nei suoi scaffali, tra i suoi oggetti. C’era una enorme quantità di scatole colorate di differente grandezza, un posacicche con i resti di una canna, un pacchetto di sigarette, uno di cartine, qualche libro.

“Non leggi molto, vero?” – la offesi.

“Non ho tempo per leggere…” – e mi scagliò la tazzina piena di caffè contro.

Si arrabbiava per una stronzata. Era intrattabile. Pensai a mille modi per dirle che doveva smetterla di trattarmi in quel modo. Ma chi cazzo credeva di essere? Come si permetteva, che diritto aveva di sputarmi sopra senza alcun rispetto? Io volevo Carolina. La volevo dolce. Mi uscì fuori un “Mi dispiace!” senza senso. Lei scrollò le spalle come per dire “Oramai il danno è fatto!”. Poi mi cacciò via con la scusa che doveva dormire.

 

[e.p.]

Posted in Autoproduzioni, Corpi, Narrazioni ultimate, Omicidi sociali, Precarietà.