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Siamo qui per stupirvi! [quarto capitolo]

Numero quattro [qui prologo/primo capitolo, secondo capitolo, terzo capitolo, quarto capitolo, quinto capitolo, sesto capitolo]

 
“Rosario, posso disturbarti?” – era lei al telefono. Mi chiamava alle undici del mattino. Io ero al giornale. Lei a quell’ora, di solito, dormiva.

“Si Carolina, sono contento di sentirti.” – e tirai fuori un tono fasullo, di quelli entusiasti a forza.

“Lascia stare. Volevo sapere se puoi passare da qui. Devo parlarti…”

“Vengo nella pausa pranzo. Posso restare un ora.”

“Va bene. Ti aspetto.” – click.

Rimasi a guardare il telefono per una decina di minuti. Non capivo il senso di quella telefonata. Cosa doveva dirmi? Aveva scoperto che ero un minchione e voleva mandarmi a fare in culo? Mi desiderava a tal punto da non riuscire ad aspettare fino a notte?

Già la immaginavo, nuda, con i riflessi di luce filtrata dalle persiane. Con i capelli morbidi e il corpo accogliente. L’idea di lei in versione film porno mi passava subito, non appena pensavo alla sua maniera silenziosa di eccitarmi. Giocava con le labbra a sfiorare le mie. Il suo gioco era dare non dare. La sua tortura era far sentire. Il calore delle sue dita. I brividi di una intrusione fatta in punta di piedi. Lei toccava i sensi, non il corpo. E io volevo solo sentirla gemere, vederla leccare qualcosa, afferrarla, riempirla e finire. Che pena! Quella donna non sapeva recitare proprio per niente. Neanche per farmi un favore. Pensava solo a se stessa. Di certo non avevamo visto gli stessi film. Ma non avevo il coraggio di proporglieli. Come facevo a dirle che godevo meglio se vedevo qualcosa di simile alle immagini che già avevo in testa?

I miei sensi non erano così attivi. Non come i suoi. Non lo erano più. Forse non lo erano mai stati. Per lei era diverso. Carolina non guardava la televisione.

Mi aspettava al balcone. Stava fumando una canna. Era in piedi con la testa chinata indietro, occhi chiusi, ad assorbire il sole. La raggiunsi in fretta. Provai ad abbracciarla. Lei mi passò la canna. Poi mi invitò a sedere in una zona inesplorata della sua casa: la terrazza. Era uno spazio piccolo con una ringhiera colorata di rosso. C’era una grande pianta di marijuana e un paio di sedie di vimini. Il piccolo tavolo di ferro battuto completava l’arredo da giardino.

“Potevo portare la crema abbronzante!” – feci dell’ironia. Mi scappò una risata.

“Si certo. Intanto tieni gli occhiali da sole e se vuoi ti faccio pure un po’ di vento… Vuoi una bibita ghiacciata che ti fa refrigerio?” – si vedeva che mi stava prendendo per il culo. Mi fece sentire un imbecille. Lei non abbassava la guardia. Era sempre pronta e all’attacco. Troppo aggressiva. Stronza di una donna.

“Va bene, sono serio. Che volevi dirmi?” – la interrogai incazzato.

“Te la ricordi la signorina della Light?”

“Vagamente!” – e non aggiunsi che solo qualche giorno prima volevo imitarla per scassarle il sonno.

“La devo trovare…” – era decisa.

“Non ho capito.”

“Ridammi la canna e ascoltami…” – era insopportabile. Glielo dissi. Lei non se ne curò e continuò a parlare.

“Devo trovare quella gran buttana…” – esasperata. Giocavo a dare un nome alle sue espressioni.

“Ma che ti ha fatto?” – provai a chiedere.

Lei mi scaraventò un fiume di violenza, subìta e praticata. Così seppi di uno scambio di complimenti irripetibili tra le due signore, finito con un ricatto apparentemente senza soluzione. La solerte “gran buttana” stanca degli urli e intenzionata a portare a termine, a qualunque costo, il suo lavoro, aveva attivato una linea adsl con tariffa all inclusive sul numero di Carolina.

Così la cameriera aveva provato, ogni mattina, a tentare di capire con quale essere umano, fisico o virtuale, potesse parlare per fare sapere che fondamentalmente lei non era d’accordo, non aveva autorizzato proprio niente e che se trovava quella “gran buttana” l’avrebbe fatta pezzi.

Aveva trascorso gli ultimi giorni, così mi spiegavo il perché della sua eccessiva stanchezza, a sentire musichette irritanti in attesa di un contatto utile a farle fare quello che voleva fare.

Alla fine le avevano detto che doveva mandare una raccomandata con ricevuta di ritorno ad un numero di casella postale di una città lontana dove, se le andava bene, una cosa fatta di carne e sangue l’avrebbe raccolta e forse consegnata a una persona con nome e cognome e una faccia da poter spaccare.

Carolina era inferocita e dopo aver mandato la raccomandata aveva però deciso di trovare la “gran buttana” e farle sputare sangue fino a farla morire.

“E dopo che l’hai vista morta, sei sazia?” – la canzonai.

Era determinata. Non riuscivo a crederci. Mi stava davvero dicendo che voleva trovare una tizia di un call center qualsiasi per vendicarsi di uno sgarbo. Quella storia oltrepassava i limiti della follia. La cameriera voleva stanare una voce senza volto che di mestiere faceva il paravento delle responsabilità della Light. Non era sufficiente. Mi chiese di aiutarla ad aggiustare il suo vecchio computer per fare meglio le sue ricerche.

Dato che aveva l’adsl tanto valeva che la usasse. Ad ogni richiesta soddisfatta io sentivo che ce l’avevo più lungo. Era la misura del mio cromosoma. Di mestiere sapeva fare solo il principe azzurro. Proprio quello che interpreta il ruolo del salvatore della fanciulla quando il narratore si ferma al “vissero felici e contenti…”.  Quello che succede dopo non è affare del narratore e neppure il mio. Se Carolina si fosse abituata ad avermi attorno nella versione Blue Prince tuttofare, prima o poi gliel’avrei fatta pagare.

La mia ex moglie diceva che l’avevo sottomessa con le buone azioni. Allora non capivo e più tardi mi fissai sul principio che centellinare i favori sarebbe stato meglio che insegnare agli altri a cavarsela da se’. Così non potevano fare a meno di me e io avevo mille ragioni per rinfacciare la mia bonta’. Quel trucchetto funzionava al giornale, con i colleghi. Con Carolina invece non c’era mai stato verso. Non mi riusciva neppure di gettarle nel cassonetto la sua immondizia. Lei non voleva un principe e certamente non lo voleva azzurro. Carolina desiderava essere libera, senza dover dire grazie a nessuno, senza dover dare  a nessuno l’occasione per rinfacciarle nulla. Non c’era modo di prendere da lei un pezzo di orgoglio, una parvenza di riscatto. Non sulla sua pelle. Non sulla sua vita. Non sul suo letto.

“Stai con me perché ci vuoi stare. Non perché ne hai bisogno.” – suggeriva.

Era difficile. Perché io di lei avevo bisogno. Mi serviva che lei avesse bisogno di me. Non ero abituato a essere un uomo.

Così fui attento a soddisfare la sua richiesta senza omettere nulla. Lei non mi avrebbe permesso una seconda chance. Dovevo adattarmi a quella nuova regola. Metterla in condizione di fare da sola.

“Ho fatto una buona cosa, no?” – pregai che mi rassicurasse.

“Si Rosario. Hai fatto proprio una buona cosa. Che eroe! Clap clap.” – Simulava un applauso e mi sfotteva senza pietà. Stronza di merda. Ero nuovo di quel percorso. Stavo imparando anch’io. Avevo bisogno di conferme. Come minchia si fa a essere giusti per una che sta sempre in trincea? Non lo capivo. Però viaggiavo sempre con uno scudo. Quella bestia sparava a vista senza chiamare neppure “l’altola’, chivala’” di rito. Era una femmina in guerra dalla nascita. Mi ero innamorato di un soldato. Quella non era una relazione. Era un’impresa epica. Che culo!

 

 

[e.p.]

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