Skip to content


Dio non c’e’ piu’

        Prologo

1988 – In un paese della Sicilia al tempo della prima Repubblica.

***

Il proiettile si ficcò veloce in mezzo alla folla. Decine di testimoni immobili lo videro raggiungere la meta. A Totò gli si macchiò la granita di sangue rosso che gli sgorgava dal petto. Il titolare del bar che lo ospitava  aveva l’espressione infastidita di chi avrebbe dovuto sopportare giorni di cattivi affari. Il killer e il suo autista filarono via di corsa a cavallo di una moto. Il sangue di Totò aveva sporcato anche una lunga fila di mattoni neri di Corso Umberto. Dopo meno di un’ora sarebbe uscita la gente dalla Chiesa Madre. La domenica usavano fare in su e in giù per il Corso prima di tornare a casa. Perciò il padrone del locale, scambiatosi un muto segno di intesa con i presenti, risistemò Totò sulla sedia come se ancora stesse mangiando la granita e poi gettò tre secchi d’acqua su tutte quelle macchie di sangue che avrebbero disturbato la passeggiata domenicale dei paesani. Salvatore Russo, detto Don Totò,  di mestiere faceva il “mago”.
****                                                ****                                           ****
[[Potete continuare a leggere il racconto qui, via web, suddiviso in prima e seconda parte. Copiarlo in formato testo per godervelo offline. Scaricarlo in file pdf —>>> Dio non c'e' piu' – un racconto di Enza Panebianco – <<<—]]
****                                               ****                                           ****

1]
–         Mi tira la gonna da un lato, non è vero? – chiedevo al mio amico Antonio divorando l’unghia del mio pollice sinistro.
 –         ‘Cazzo vuoi che ne sappia io di come ti deve tirare la gonna. Levatela e facciamo prima… –  mi prese per il culo l’occhio fino.
Aggiustai tutto con una sacca a tracolla piazzata sul lato incriminato e alla fine uscimmo. Ogni volta era la stessa storia. Nonostante fossi più che adolescente, le mie gambe continuavano a farmi schifo. Ripassavo a memoria le dieci regole per non avere un collasso di cellulite sulle cosce e camminavo dritta con un solo obiettivo nella vita: volevo diventare una scrittrice. Ma non una di quelle che scrivevano romanzi rosa e neppure la solita scrittrice intimista autoanalitica che parlava di cose di femmine perchè tutto il resto le era precluso. Io c’avevo tutta una generazione di spaccaovaie alle spalle che continuavano a rompermi sulla scuola di femminismo, sul valore della differenza, sull’impegno sociale e politico. Non potevo mettermi a scrivere robetta senza importanza, senza la minima aderenza alla realtà, senza memoria di quello che in Italia a quei tempi era successo. Non potevo neppure parlare della realtà senza introdurre elementi che sottolineassero l’aspirazione ad emanciparmi sbandierando comunque l’orgoglio per la diversità. Vaglielo a spiegare che nella mia terra, a Nutera in provincia di Portella, tutte quelle storie io le avevo sapute per sentito dire e che mia madre ancora faceva la schiava della famiglia come le avevano insegnato sua mamma, sua zia, sua nonna e sua suocera. Perciò decisi che mi sarei occupata delle donne, del politico e del sociale ma alla mia maniera. Le donne, dove stavo io, avevano bisogno dell’acqua corrente e di non vedere più la fogna scorrere a cielo aperto vicino alle loro case. La loro ricerca di emancipazione dai bisogni stava tutta lì. Di lavoro poi neanche a parlarne. Non lo trovavano gli uomini, figuriamoci se potevano osare  trovarlo le loro mogli. Il problema più grave da noi era la mafia. Tutt’altro che un concetto astratto, sebbene fosse una questione non molto dibattuta in quegli anni tra i compagni e le compagne del centro nord. La mafia come questione principale che ci metteva tutti con le spalle al muro in attesa di una esecuzione che in un modo o nell’altro, prima o poi, sarebbe avvenuta. Le donne lottavano contro di essa o le sue conseguenze, ogni giorno, senza deroghe né vacanze. Così faceva a suo modo mia madre e così facevo anch’io. Mamma e papà non erano per fortuna così bigotti e seppur con grandissime resistenze alla fine avevano accettato che, dopo gli studi e dopo aver trovato un lavoro, io mi trasferissi in una casa in affitto per vivere da sola. Un affronto per ciascun genitore paesano. Un dispetto per mio padre. Un dispiacere passeggero per mia madre che si consolava venendo sempre a casa mia, a rovistare tra le mie cose e a rimettere a posto il disordine a mia insaputa. Per questo la gente pensava che ero pazza senza una morale. A me interessava il giusto e passavo volentieri sopra gli sguardi e i commenti tranne che per qualche stronzo che mi chiamava con un soprannome che viaggiava di bocca in bocca e che mi gemellava con quella pazzotica della vispa teresa. Io ero Maria, per i nemici e gli stronzi “Tresa”.
2]
Io e il mio amico Antonio quel giorno stavamo andando alla riunione del Movimento Antimafia. I suoi rappresentanti venivano apposta in paese dopo l’ultima esecuzione mafiosa avvenuta in Corso Umberto. Ci venivano a spiegare come fare a organizzare una grossa iniziativa di sensibilizzazione dell’opinione pubblica contro i delitti e contro l’omertà. Antonio questa cosa non la vedeva di buon occhio e poi sapeva che un esponente di questo Movimento si stava facendo strada in politica con amicizie di fascisti e loschi figuri dei servizi segreti. Il mio amico faceva su e giù dalla città di Portella, dove studiava all’Universita’, e così sapeva più cose di quante ne potessi sapere io. Alla riunione non c’erano più di quindici persone, sempre le stesse: i nostri compagni dell’associazione Controcorrente, quelli del Cac (Comitato per l’acqua e la casa), i ragazzi del partito comunista e vennero pure due tizi di un centro sociale di Portella che conoscevano Antonio. Poi c’era una donna adulta ed elegante che si presentava come Presidente del Movimento Antimafia e il suo subordinato aspirante fascista. Eravamo tutti lì ad ascoltare un grande piano di guerra e la cosa che veniva sottolineata più volte era che sarebbe arrivata la televisione e alcuni giornalisti dei quotidiani nazionali. La Presidente continuava a ripetere che sarebbe stato un grande corteo, con migliaia di persone che avrebbero sfilato per le strade di Nutera. Antonio fece notare che nessuno del paese sarebbe venuto al corteo, perchè la gente aveva paura e qui non eravamo a Portella con i suoi ottocentomila abitanti.
–         Dopo il corteo voi ve ne andrete e noi rimarremo qui e sarà ancora più difficile vincere la diffidenza della gente. – sentenziò il mio amico.

Io continuavo ad aggiustarmi la gonna con finta indifferenza.
–         Cosa proponete di fare? – fece con una smorfia indispettita la donna.
–         Lavorare sui bisogni della gente facendo capire chi toglie loro acqua, servizi, lavoro. Incidere in termini culturali. Non saremo di certo noi a fermare le ammazzatine per strada. Però possiamo lavorare per risultati a lunga scadenza che sono piu’ efficaci di un corteo. – concluse Antonio.

A furia di tirare io mi ero strappata l’orlo della gonna e a quel punto non mi restava che tentare di nascondere quello scempio con la sacca a tracolla che mi ero portata appresso.
–  Bisognerebbe fare entrambe le cose. – intervenne Rocco del Centro Sociale – Il corteo e i giornalisti servono a creare confusione sul territorio e quando ci sono: confusione e riflettori puntati su un posto, i mafiosi devono fermare i loro affari perchè la loro forza sta tutta nella invisibilità. Il lavoro lento e approfondito invece serve per obiettivi meno immediati. Io propongo di fare anche una serie di altre iniziative a Nutera per non lasciare i compagni da soli dopo il corteo.

Tutti sembrarono convinti da quella mediazione e quindi si passò a decidere la data del corteo e a dividerci una serie di compiti per andare avanti con il nostro lavoro. A me e Antonio toccò di andare a sentire i consigli comunali di quei giorni. Dovevamo prendere appunti perchè per la maggior parte si svolgevano di notte e senza nessuno che verbalizzasse. Durante le sedute, i membri del governo comunale, dichiaravano cose assai diverse rispetto a quelle che poi con calma scrivevano sul verbale. Seguire i consigli comunali era essenziale per capire dove dirigevano i soldi degli appalti di quel periodo e  il perchè c’erano tutti quegli omicidi in paese. La particolarità locale era data dal fatto che il Sindaco era parente stretto di uno dei principali boss mafiosi della zona e che molti assessori comunali erano stati scelti solo per difendere gli interessi di certe famiglie (mafiose). La scelta per quel compito era ricaduta su di noi, perché non avevamo problemi a rientrare tardi la sera e non dovevamo dare spiegazioni in famiglia.
3]
–         Non riesco a chiudermi la lampo del jeans… – mi lamentai con Antonio che al solito mi aspettava sdraiato sul divano.
–         Toglili Maria. Ma ce l’hai una cosa normale da metterti? La gonna ti tira, i jeans non si chiudono…
–         Ho capito, ho capito. Aspetta che mi sdraio sul letto e ce la faccio…
Chiusi la lampo trattenendo il respiro e mi rialzai soddisfatta cercando di simulare movimenti sciolti per andare dal mio amico. Mi facevano male tutte le ossa e l’andatura era davvero ingessata ma quei jeans mi stavano benissimo e mi facevano un culo pazzesco. Quando io e Antonio entrammo nell’aula del consiglio comunale si girarono tutti. Come previsto non c’era nessuno a verbalizzare la seduta e la gente che stava a sentire era tutta a segnare il territorio con la presenza e ad aspettare che fossero votate le delibere che avrebbero dato il via a certi appalti. Era splendido notare come dalla fessura di una porta si potesse vedere il boss mafioso nell’ufficio del suo parente sindaco intento a parlare al telefono con i piedi sulla scrivania come fosse lui il padrone. Peccato non potergli fare neppure una fotografia. Non riuscii a sedermi per tutta la sera. Colpa dei jeans. Stare in piedi, visibile, con la mia folta chioma rossiccia, non era certo il miglior modo di passare inosservata. Quanto ad Antonio: si sedette inutilmente. Era alto alto e con il cranio rasato. Era impossibile non notarlo. Il sindaco, Piero Gentile, era un medico laureato grazie ai baroni mafiosi docenti all’Università. Gli Assessori erano professionisti rampanti. Avvocati di sicura carriera in attesa di un incarico assegnato dal parente in età pensionabile e commercialisti che in paese si davano arie da principi dell’alta finanza. Tutti parlavano un dialetto storpiato in lingua italiana che a me e Antonio faceva molto ridere. Le cose che dicevano invece non ci sembravano per nulla comiche. Riuscivano a tenere in piedi una pantomima che durava ore e che era fatta di sottintesi, mezze frasi, allusioni, minacce velate. Di visibile c’era solo l’arroganza. L’argomento all’ordine del giorno era l’appalto per la metanizzazione di Nutera. C’erano gli scavi e l’interramento dei tubi da fare e dieci miliardi di lire in ballo. Il consiglio comunale avrebbe deliberato il via dei lavori e poi sindaco e assessori avrebbero assegnato l’appalto all’impresa che preferivano. Non c’era un bando nè concorrenti in gara. A Nutera si applicava alla lettera la licitazione privata, la scelta nominale, l’assegnazione dell’appalto a chi stava più simpatico e in definitiva pagava di più. Io prendevo appunti e Antonio vigilava memorizzando facce, espressioni, gesti, sguardi. D’improvviso si materializzò davanti a me un uomo sulla cinquantina, tarchiato, con le mani tozze e callose di chi lavorava da tutta la vita. Si intrufolò tra i miei appunti e fece segno di non capire la mia calligrafia poi, rispondendo al punto interrogativo che io avevo stampato sulla faccia, mi disse senza mezzi termini che scrivere era un lavoro da sfaticati. Mi mostrò le sue mani e prese a raccontarmi al ritmo di una cantilena quanta fatica aveva fatto, quanti sacrifici e che era un padre di famiglia.
–         Cercare lavoro non è peccato! – affermò infine.
–         Il lavoro è un diritto e non un favore. Il lavoro non si compra. – gli dissi d’istinto.
–         Compra? Io non compro niente, signorina. La buona fortuna va dove più le piace. – e mi guardò scuotendo la testa come se sapesse di stare parlando al vento.
–         Va bene, come dice lei. Ma la buona fortuna chi gliela può dare? – lo sfidai.
–         La buona provvidenza la può dare solo Dio…- rispose calmo.
–         E dio ultimamente si occupa di appalti e di metanizzazione? – ribattei sempre piu’ indispettita.

Il tizio rise di gusto e poi mi fece cenno di avvicinare l’orecchio alla sua bocca.
–         Signorina, in questo paese per chi non crede in Dio c’è la magia. – tirò fuori un sospiro perplesso e aggiunse – anzi c’era. Tante belle cose signorina. Scriva, scriva e poi lo legga attentamente. – e si smaterializzò così come era venuto.

Mi guardai attorno disorientata cercando di rintracciare gli occhi del mio amico alto e pelato. Me li ritrovai puntati addosso in una posa allenata come se non mi avessero mai perso di vista. Lo raggiunsi svelta e lui mi sorrise complice. In un attimo mi trascinò fuori dal Palazzo Comunale e subito allungò un mano arruffandomi i capelli.
–         Cazzo fai… ma perché siamo andati via? – chiesi schiaffeggiando la sua mano arruffona.
–         Era finito tutto, solo che tu non te ne sei accorta.
–         Finito? E che hanno deciso?
–         Niente. Hanno rinviato tutto a domani alla stessa ora.
–         Che palle, un’altra sera così…
–         Se vuoi posso venirci da solo, tanto la sostanza non cambia e la questione l’abbiamo già capita…
–         No no. Io vengo con te. Non ti lascio da solo in mezzo a quella gente tutta coppole e frasi sibilline.

Io avevo il broncio e continuavo a muovermi come fossi tutta d’un pezzo, indurita dal male che i jeans mi facevano alle ossa iliache. Per spostare avanti una gamba tiravo tutto il corpo appresso a quella. Antonio rise come solo lui sapeva ridere, con una scossa che gli partiva dalle viscere e si dilatava come le onde di un sasso nell’acqua per tutto il corpo.
–         A proposito di frasi sibilline… ma che ti ha detto il signor Bartoluccio? – mi disse in tono semiserio.
–         Chi e’ il Signor Bartoluccio?
–         Il tizio con cui ti sei intrattenuta piacevolmente a parlare…- e rideva senza riuscire a smettere.
–         Smettila di prendermi per il culo…
–         Ok, la smetto. E tu smettila di camminare ondeggiando. Mi stai facendo venire il mal di mare!
–         Non è colpa mia se i jeans mi hanno bloccato la circolazione.
–         Ah no? E chi ha deciso di metterli?
–         Cazzi miei…
–         No no. Cazzi nostri. – e si mise ad ondeggiare assieme a me con aria svagata e gli occhi sfottenti.

Onda su onda raggiungemmo finalmente casa mia e prima di cacciare via il pelato gli raccontai tutto.
–         Bartoluccio ha un’impresa edile. – mi chiarì subito dopo – e la cosa che ti ha detto sulla provvidenza e la magia, che c’è anzi c’era, è inquietante.
–         Perché sarebbe inquietante?
–         Perché l’unica persona che c’era e che c’entra con la magia, da queste parti può essere solo Totò Russo.
–         Non capisco.
–         Totò Russo era soprannominato il “mago” ed è stato ammazzato una settimana fa.
–         Che è stato ammazzato lo so, ma non sapevo che si facesse chiamare “mago”. Ma tu pensi davvero che ci sia un nesso tra le due cose?
–         Boh. Magari si o magari no. Chi può saperlo.
–         Ma il mago campava di magia?
–         Mia zia Nunzia dice di si. Ma sono solo chiacchiere della gente perchè non penso che lei abbia mai avuto a che fare con queste cose.
–         Sei libero domani mattina? – gli chiesi elettrizzata come se mi avesse folgorato un’idea.
–         Si, abbastanza. Perché?
–         Ho pensato che ci serve fare una rassegna stampa per dare un ordine agli omicidi che sono avvenuti in questo periodo.
–         Non ho capito cosa vuoi fare…- mi freddò il pelato lungo.
–         Voglio semplicemente fare una ricostruzione degli omicidi per tentare di capire chi sta facendo la guerra a Nutera e perché.
–         E lo vuoi scoprire con articoli di giornali?
–         No. Per ora voglio solo dargli un ordine temporale e voglio andare a dormire. Io domattina sarò in biblioteca, se ti va mi trovi lì. 'Notte.
–         Ok. Notte
4]
Non riuscivo a dormire. Mi giravo e rigiravo continuamente nel letto. Faceva un caldo infame e mi risuonavano in testa le parole di Bartoluccio e quelle di Antonio. Il “mago” io lo conoscevo solo per averlo visto sempre lì, sulla stessa seggiola e nella stessa posizione, al bar a mangiarsi la sua granita al limone. Pareva lo trattassero con rispetto e doveva passarsela abbastanza bene se aveva tanto tempo da perdere seduto a guardare il passeggio di Corso Umberto. La cosa che mi era ancora più nota riguardava l’esistenza di un “mago” junior con il quale avevo diviso il banco del liceo per un breve periodo. Si chiamava Marco ed era chiacchieratissimo. Non se lo cagava nessuno per via della ragazza con cui stava e di certe frequentazioni del padre. Lui tirava dritto ad ogni maldicenza e dava l’impressione di fregarsene in maniera definitiva e senza strascichi interiori. Era alto, moro, fine e con due occhi verdi che piantava addosso a quelli che passavano il tempo a sputtanarlo facendoli sentire merda pura. Incuteva rispetto e pareva averci una opinione precisa su tutti i figli di papà e di gente perbene che amavano tanto sbracarsi lontano da casa e  fingevano di voler catechizzare anche le formiche quando vi tornavano. Aveva una ragazza, di nome Sara: Una splendida donna che frequentava l’università quando noi eravamo ancora al quarto anno superiore. I capelli lunghi e neri come la pece e un volto solare con un sorriso pronto da dedicare a chiunque. Marco era invidiato e faceva parlare di sè e per questo io lo raggiunsi a fargli da compagna di banco quando entrò nella mia classe.  Evocare la me ribelle di quel tempo mi fece venire sonno. Mi addormentai con il sorriso e l’espressione di sfida con cui facevo l’anticonformista per caso da adolescente. Il giorno dopo decisi di indossare roba comoda che non mi facesse venire le convulsioni per il nervoso. Pantaloncini corti e leggeri e un top marroncino verdognolo. Andai veloce all’appuntamento con Antonio che mi mostrò tutti e trentadue i denti ancora prima che io lo raggiungessi. Si tolse gli occhiali da sole e rideva con le scosse. Le mani rivolte in su, chiuse a bocciuolo di rosa  che dondolavano avanti e indietro per dirmi un – Ma che fai?  – esagerato. Infine lo raggiunsi e lui non riusciva a smettere di sfottermi.
–         Se mi dici che hai tanto da ridere ti offro la granita… – chiesi contagiata dal suo buon umore.
–         Sembri una mutante… ah ah ah ah ah… con quella cosa color cacarella andata a male che hai addosso… – e proprio non riusciva a smettere di ridere.
–         Ho cambiato idea! La granita non te la offro che di questi tempi stare al bar non fa bene alla salute. – e punivo me stessa assieme a lui.

Il pelato si sforzò di fare una faccia seria e mi seguì in biblioteca. Stare in un bar di Nutera in quel periodo era comunque davvero diventato pericoloso. Quando arrivavano i killer sparavano senza guardare in faccia nessuno. Colpivano chi dovevano colpire fuori e dentro il bar. A mettersi di mezzo ci si beccava un proiettile. Era già capitato che avevano ferito un ragazzo allo stomaco e una donna all’orecchio un bel giorno che la piazza principale sembrava lo scenario di un film western. La gente continuava a dire che bisognava farsi i fatti propri che tanto si stavano ammazzando tra di loro. A chi chiedeva come mai allora fosse stata ferita gente che non c’entrava nulla loro rispondevano che dovevano starsene lontani da quei posti e soprattutto dovevano rispettare il coprifuoco. La maggior parte dei delitti veniva commessa nelle ore serali. I luoghi in quel caso potevano variare. Ogni via del paese era a rischio. Di giorno invece, fino a quel momento, la riserva di caccia era la piazza centrale attraversata da Corso Umberto e il bar. Non sempre lo stesso, no. I killer parevano guidati da una sorta di buon senso che agevolava a turno gli affari di ciascuno. Perciò la gente aveva chiaro che quando ammazzavano qualcuno al Bar del Corso, di lì a poco avrebbero ammazzato qualcun altro al Bar Sport. C’era chi smetteva di frequentare il bar dove era appena stato commesso un delitto e chi invece vi rimaneva ben sapendo che a quel punto erano molto poche le probabilità che potesse avvenire di nuovo la stessa cosa. Dopo il toto bar a Nutera si faceva volentieri anche il toto cadavere. Non era un segreto per nessuno che la guerra in corso avveniva tra più famiglie mafiose. Due per l’esattezza. Chi osservava il paese con attenzione e cercava delle risposte si rendeva immediatamente conto che da qualche anno si stava giocando una partita che aveva come premio quel territorio e tutti quelli che c’erano dentro. Io ero curiosa, volevo saperne di più e non rispettavo nessun coprifuoco. Le raccomandazioni apprensive di mio padre e mia madre a me entravano da un orecchio e uscivano dall’altro. Non ce la facevo a non farmi i cazzi miei. Ma per la gente io ero pazza, anzi “Tresa” e quindi tutto mi era concesso perché nessuno mi avrebbe mai presa sul serio. Era così. Come era sempre stato in ogni guerra. Agli uomini, dignitosi proiettili e alle donne, denigrazione e offese a sfondo sessuale. Oppure, ed era peggio, c’era la parlata tra uomo d’onore e padre della figlia snaturata che assicurava di riportarla con le buone o le cattive sulla retta via. Se le donne erano troppo indipendenti e non si sapeva a quale uomo appartenevano allora i “padrini” erano disorientati. Dovevano parlare con noi? Contrattare con la razza inferiore? Di certo, quando non era possibile la mediazione del padre e le donne diventavano pericolose per i loro affari, allora facevano di tutto per fermarle. La novità stava tutta lì: le donne non stavano più rinchiuse in casa con la museruola. Non avevano più paura di disobbedire al volere paterno. Il padre – suo malgrado – non era più quello che ricopriva il ruolo di mediatore. Il mio era così. Un pizzico mi risvegliò da quel torpore analitico. Il pelato mi dedicò un’occhiata preoccupata e poi attirò la mia attenzione su una serie di articoli di tale Saverio Spinello che avevano tutti lo stesso incipit.
–         Un altro uomo è stato ucciso dal fuoco di una lupara a pallettoni… –

Il suo modo di scrivere era davvero singolare e Antonio ripeteva all’infinito le frasi più comiche  per assaporarne il suono e il potenziale parodistico. Saverio Spinello in fondo era un romantico nostalgico e continuava a dichiarare, in linguaggio misto tra impiegatizio burocratico e da questura, che le morti erano tutte avvenute per lupara a pallettoni. Sarebbe stata una grande delusione per lui sapere che nel frattempo i killer erano scesi dai muli e cavalcavano moto di grossa cilindrata, avevano sostituito le coppole con caschi neri che nascondevano per bene il loro aspetto e avevano sostituito le lupare con dei favolosi Kalashnikov e con delle efficienti semiautomatiche. Gli scritti che mi sottopose Antonio ricostruivano la successione temporale degli omicidi delle ultime settimane. Il primo ad aprire le danze era stato il vecchio Totò Petrano. Secondo Spinello l’avevano freddato al tramonto davanti alla porta di casa mentre si godeva la pensione e il fresco. Poi è toccato a Francesco Rizzotto detto Ciccio. I pallettoni, recitava il premio Pulitzer Spinello, avevano sparpagliato pezzi di cervello per tutta la sua macelleria. Il terzo fu Saro Petrano, fratello più giovane di Totò. Lui lo ammazzarono mentre beveva un caffè dentro il bar Sport. Rocco Rizzotto, fratello di Ciccio, morì dentro la sua 127 celeste nella strada di campagna che portava al suo terreno. Filippo Cunsolo, genero di Saro Petrano, lo ammazzarono davanti al Bar del Corso. Peppe Baglio, che pare fosse legato ai Rizzotto, morì di lupara bianca. Un bel giorno sparì per non riapparire mai più. Franco Buscemi è morto dissanguato dopo che gli avevano sparato per sbaglio in mezzo allo stomaco. I soccorsi furono chiamati con calma e giunsero quattro ore dopo per “problemi tecnici”. Nunzio Vacirca fu massacrato da decine di proiettili davanti al Bar Sport. Sebastiano Aprile fu ritrovato, morto, con un buco in mezzo agli occhi e una pistola in mano. Forse aveva provato a difendersi. Totò Russo detto il “mago” fu ucciso da un colpo secco e deciso davanti al bar del Corso. Era seduto ad uno di quei tavolini con il ripiano di marmo chiaro e i piedi di ferro battuto a ghirigori in stile barocco. Non finì mai la sua granita al limone. Di tutti quelli che erano stati ammazzati in quel periodo, l’ultimo era quello che ci spiegavamo meno. Cosa aveva a che fare un “mago” con due famiglie mafiose che si scannavano per chissà quale ragione? Ne io né  Antonio sapevamo intuire una spiegazione. Totò Russo in realtà con tutta quella gente sembrava proprio non entrarci affatto. Ma allora chi lo aveva ucciso? E per quale motivo? Io e il lungo pelato uscimmo dalla biblioteca con quegli interrogativi e a me continuavano a girare in testa le parole di Bartoluccio della sera prima. In paese, quando non c’e’ la provvidenza, c’è la magia. Anzi c’era.
5]
Quella sera tornammo a riprendere appunti al Consiglio Comunale. Cioè: io prendevo appunti e Antonio apparentemente sfarfallava in giro a chiacchierare da uomo a uomo con i suoi pari. Certo era che non sapeva reggere la parte e a momenti sembrava davvero ridicolo nel voler imitare i toni e i gesti di quegli individui. Persino la sua parlata sembrava una parodia del “padrino” cinematografico. Io da lontano intercettavo il suo sguardo e gli facevo segno di toccarsi lentamente la pelata. Quel gesto lo avrebbe fatto apparire più maschio. Lui mi rispondeva a linguacce. Perdeva così quel centesimo di credibilità virile che si era faticosamente guadagnato. Quella sera non vidi Bartoluccio e ne fui parecchio dispiaciuta. Avrei voluto chiedergli cosa voleva dire con quella frase sulla magia che c’è anzi c’era. Con mia grande sorpresa invece vidi spuntare Marco tra le coppole anacronistiche e le facce che si parlavano tra di loro in codice. Mi vide subito e anzi pareva dirigersi proprio verso di me. Mi preparai ad accoglierlo con un atteggiamento serio e parole di cordoglio che non usavo mai con agio. Lui non mi diede il tempo di dire niente e mi strattonò furioso, anzi no, incazzato. Antonio da lontano chiese a gesti se avevo bisogno di aiuto e io risposi che no, era tutto a posto. Marco mi condusse fuori e a stento tratteneva l’urlo che sembrava esplodere in ogni parte del suo corpo. Stringeva forte i pugni e respirava a fatica. I suoi occhi verdi erano di fuoco e la sua pelle bruna era il manto nero che nelle favole protegge ogni creatura che violentemente agisce nel buio. Era cambiato, più grande e io non lo incontravo da tempo, da quando lo vidi camminare mano nella mano con la sua donna per superare la soglia della chiesa che li avrebbe fatti marito e moglie. Si era costruito una vita tranquilla fatta di studio, lavoro e famiglia. Tutto per darsi una dimensione di vita normale alla faccia di chi lo vedeva solo come figlio di un truffatore delinquente. Quando il mio vecchio compagno di banco aprì la bocca, ne uscirono suoni disarticolati e spaventosi.
–         Calmati Marco, che ti succede… che vuoi dirmi… mi stai facendo preoccupare.
–         Maria state facendo una stronzata.
–         Che stronzata? Di che parli?
–         Perché state organizzando un corteo contro la mafia proprio ora?
–         Perché tuo padre è morto nell’indifferenza più totale e la gente si è più preoccupata di sistemarlo e ripulire, per non dare noia a nessuno, che di soccorrerlo.
–         Si lo so. Ma a voi che ve ne frega? Era mio padre e in questo momento io non posso credere che proprio tu ti metti a usare il suo nome per le tue battaglie.
–         Ohhhh frena. Punto primo non sono io che organizzo il corteo, anzi se vuoi saperlo io e Antonio non siamo convinti neppure che sia la cosa giusta da fare. Punto secondo lo fanno lo stesso, con o senza di me. Lo viene a fare gente di Portella. Vengono dalla città e portano la televisione. Se io mi opponessi non cambierebbe nulla.

Marco sembrò un pupazzo che si sgonfiava di tanta tensione e all’improvviso scoppiò a piangere. C’era gente che ci guardava e lo portai sotto i portici del palazzo comunale dove speravo non ci vedesse nessuno. Si appoggiò al muro e si lasciò scivolare per terra rannicchiandosi quasi a cercare una posizione fetale che lo potesse consolare. Sedetti accanto a lui per offrirgli una spalla.
–         Il pavimento è sporco, Marco. Lo sai che qui la nettezza urbana lavora in modo fantasioso. – e gli sorrisi.
–          Maria, ho bisogno di aiuto. Posso venire da te stasera?

Feci cenno di si con la testa e correndo tornai nell’aula consiliare per avvisare Antonio che dovevo andare via.
–         Ti chiamo domani per sapere se va tutto bene, ok?
–         Ok. Scappo. Ciao Antonio

Marco camminava come un automa, per forza d’inerzia, un passo dopo l’altro. Mi era accanto ma stava sicuramente altrove. La sua espressione era persa e disperata e c’erano momenti che aggrottava le sopracciglia e pareva ricominciasse a piangere poi, si girava a guardarmi e faceva di no con la testa. Non potevo minimamente immaginare quanta tragedia stava per svelarmi. Dopo che ebbe superato l’uscio di casa, intercettò il divano e si rimise accovacciato in posizione fetale. Mi avvicinai e presi ad accarezzargli i capelli. Fu allora che tra le lacrime cominciò a raccontare cosa gli fosse successo negli ultimi giorni. La sua storia aveva dell’incredibile. Il padre in realtà era una persona di rispetto che mediava i rapporti tra le famiglie mafiose. Una specie di Svizzera concentrata in un solo individuo. Accadeva spesso che esponenti delle famiglie si incontrassero presso di lui e riuscissero a stringersi la mano e a trovare un accordo che lasciava tutti soddisfatti. Lui sentiva le due campane poi elaborava una proposta di pace e la esponeva come fosse il miglior venditore in assoluto. In giro per il mondo c’era l’Onu. A Nutera c’era il “mago” (che detto tra noi era di sicuro più efficiente dell’Onu). Questo era il lavoro che lui aveva svolto magistralmente negli ultimi trent’anni. Era sempre riuscito ad evitare ammazzatine e caos. Persino cinque anni prima, quando la famiglia dei Rizzotto aveva fatto il suo ingresso in società. Erano pronti a raffinare e portare droga nel territorio e il vecchio Totò Petrano non ne voleva proprio sentire parlare. Il “mago” allora diede a tutti un bell’appuntamento in una zona neutrale, ai confini con un altro paese, dove sui cartelli e dappertutto c’era scritto che “Dio non c’è”. Un posto, cioè, che non apparteneva a nessuno. Allora l’interpretazione di Totò Russo detto il “mago” fu davvero magica. Con vari giochi di parole riuscì a ridisegnare i confini dei territori e i limiti di esercizio degli affari delle due famiglie. I Rizzotto sarebbero passati da Nutera solo per trovare manovalanza e mezzi per il trasporto della droga raffinata. I Petrano avrebbero continuato ad avere il controllo assoluto del territorio di Nutera su tutti gli altri affari. La faccenda era andata bene fino a quando non avevano cominciato a girare i soldi degli appalti. I Rizzotto avevano tra i propri adepti tale Gaetano Piazza, imprenditore edile dai metodi decisamente illeciti.  Lui aveva premuto affinchè i capi gli facessero ottenere l’appalto di costruzione di una nuova e fiammante Base Nato. Si trattava dell’unica cosa che portava soldi dopo tanti anni di case abusive e piccole riparazioni delle strade cittadine. I Petrano vi avevano puntato già da tempo. Si erano organizzati l’accordo, la compravendita del terreno sul quale la Base Nato sarebbe stata costruita, e infine avevano già scelto quale impresa avrebbe dovuto eseguire i lavori. Gaetano Piazza era pronto a fare una guerra per ottenere quel lavoro e sarebbe successo un bel casino se non fosse intervenuto il “mago” con la sua proposta. I Petrano avrebbero fatto dare l’appalto alla propria squadra, la quale avrebbe a sua volta subappaltato una parte dei lavori all’impresa di Piazza. I primi, in fondo, avevano già ottenuto accordo e ricavo della vendita del terreno. Per quella volta poteva bastargli così.  I Petrano erano una famiglia potente, che negli anni aveva affinato la propria attività e mantenuto la proprietà sul territorio con la saggezza, la calma, la pazienza e un sindaco e vari assessori al governo del paese. I Rizzotto erano troppo rozzi e impreparati per riuscire a ricavarsi più spazio di quanto non gli fosse concesso. Questo non impediva loro comunque di esigere maggiori canali per i loro affari. Il loro piccolo impero si allargava e, con o senza l’autorizzazione dei Petrano, stavano organizzando una corrente politica e pianificando l’appropriazione di altri soldi pubblici in arrivo a Nutera. I dieci miliardi della metanizzazione erano tra quelli più ambiti e mai e poi mai i Rizzotto si sarebbero lasciato sfuggire quell’appalto. Il problema stava tutto nel fatto che ad assegnarlo erano il Sindaco e gli assessori di proprietà dei Petrano. E questo bel problema i Rizzotto lo avevano esposto al “mago” per chiedere il suo intervento. La proposta che Totò Russo aveva fatto alle due famiglie era semplice: c’erano tanti soldi e potevano mangiare tanti padri di famiglia. L’unica soluzione era di dividere l’appalto in dieci lotti. Cinque sarebbero toccati ai Petrano e altri cinque ai Rizzotto. Lo spezzettamento dei lavori avrebbe fatto lievitare i costi e quindi alla fine ciascuno avrebbe avuto quasi per intero la somma iniziale. Poi ci sarebbero state ancora le perizie tecniche, quelle geologiche, e altro tipo di lavori che si potevano assegnare in incarichi esterni un po’ ad amici dei Petrano e un po’ a quelli dei Rizzotto. Insomma, c’era proprio da guadagnare per tutti. La proposta del “mago”, però, era talmente appetibile che stuzzicò assai il palato dei più antichi boss. Decisero così che avrebbero fatto tutto quello che Russo consigliava, tranne che spartire quel po’ po’ di guadagno con l’altra famiglia. D’altronde erano stati loro a far dirottare i soldi pubblici a Nutera. I Rizzotto questa volta dovevano starsene buoni buoni ad aspettare una occasione migliore e a continuare a gestirsi gli affari che già facevano. Per i novelli arrivisti invece fu come la goccia che faceva traboccare il vaso, una occasione caldamente auspicata, una speranza esaudita. Quel rifiuto era la motivazione giusta per dichiarare guerra a quella famiglia di presuntuosi figli di puttana. Perciò il primo a morire era stato il vecchio Petrano. Come e perché era stato deciso che dovesse morire anche Totò Russo era difficile capirlo. Marco sosteneva che poteva essere stato ammazzato dai Rizzotto perché la sua proposta era talmente buona da aver reso impossibile la trattativa o anche dai Petrano perchè lo avevano ritenuto responsabile di quella guerra come se non avesse voluto fare più nulla per evitarla. Ipotesi, solo ipotesi. Io guardavo Marco attenta e sconvolta da tanta verità tutta assieme e continuavo a chiedermi come fosse possibile per lui essere così lucido e disperato allo stesso tempo. Pensavo al tempo che io e Antonio avevamo impiegato per capire un quarto di tutte quelle vicende che in quel momento mi erano così chiare. Ciò che ancora non capivo era il perché Marco fosse venuto a raccontare tutto proprio a me. Infine glielo chiesi.
–         Perché se non sai tutto non posso raccontarti perché ho bisogno di te. – rispose.
–         Si ma non capisco cosa posso fare. Mi dispiace vederti così, davvero, ma io non sono in grado di mettere in croce chi ha ucciso tuo padre.
–         Non è quello che ti chiedo. Io non ho ancora finito. Lasciami dire per favore.
E mi strinse forte la mano come fosse quello il punto della storia più penoso. La parte che gli procurava quella grande disperazione. ===>>>

Posted in Autoproduzioni, Narrazioni ultimate, Omicidi sociali.