di Elisabetta P.
Tempo fa avevamo parlato dei mandanti culturali dei femminicidi, tra i quali vanno certamente individuati anche quei giornalisti che, attraverso la reiterazione di atteggiamenti e schemi giustificazionisti, creano un clima di comprensione e solidarietà, intesa come senso di condivisione delle pretestuose ragioni all’origine del delitto, intorno all’assassino, favorendo in tal modo il perpetuarsi di una mentalità che accetta ineluttabilmente un destino di morte, senza sentire l’urgenza di scorgerne le cause, affatto ineluttabili, e sulla cui prevenzione molto, moltissimo si potrebbe fare.
Mi sembra che a tale sconfortante scenario vada ad appartenere di diritto un articolo di cronaca pubblicato oggi sull’ennesimo omicidio di donna, compiuto dall’ex convivente. Mi lascia stupita, ma neanche troppo, che questo esercizio di minimizzazione del femminicidio, che con poche frasi riesce a spostare il focus emotivo dalla centralità di una donna uccisa a colpi di pistola alla periferia del disagio e delle problematiche dell’ex compagno della stessa, provenga proprio da L’Unità. Si, L’Unità di Concita De Gregorio, la quale in questi giorni si accorge paladina di donne a sua detta dormienti, che hanno perso la strada e di cui lei, con buon seguito di politiche e intellettuali che a lungo hanno ignorato quanto stesse accadendo nella società civile italiana riguardo i diritti delle donne (primo tra tutti, quello a rimanere vive), chiama l’adunata.
Tra un commento sul significato della minigonna come simbolo di liberazione sessuale, che mi pare ben poco si adatti al contesto attuale, una raccolta firme, e un vivace quanto vuoto scambio di opinioni con la ministra Carfagna, sarebbe opportuno che la direttrice si preoccupasse anche di quel che viene stampato e che supponiamo abbia il suo imprimatur.
Così inizia l’articolo:
“Questione di ore, e la denuncia per stalking sarebbe arrivata sulla scrivania degli uffici della questura. Sarebbe bastato probabilmente questo per fargli perdere la battaglia legale per l’affidamento della loro figlia di 12 anni. Davvero troppo. La sua ex andava fermata subito, prima che si ripresentasse alla polizia come già fatto nel giorno precedente.”
La frase di apertura delinea una situazione insostenibile da parte dell’assassino, l’intollerabile possibilità di perdere l’affidamento della figlia. Certo, davvero troppo, come suggerisce il cronista, abbastanza per decidere di eliminare l’ostacolo al ricongiungimento tra padre e figlia.
La considerazione che viene fatta dal giornalista appare di natura personale, una sua congettura che però cementa le basi dell’impianto giustificatorio.
Vorrei rilevare che, a rigore di logica, un uomo che decide di uccidere la propria ex e poi di suicidarsi (progetto puntualmente realizzato nel caso in esame), evidentemente non ha a cuore il bene di nessuno, tantomeno della figlia. Per non perdere l’affidamento sarebbe stato innanzitutto necessario smettere di perseguitare la donna, restituirle una vita normale.
E ancora:
“Erano le 8,20 quando il 50enne salernitano ha portato a termine il suo progetto di morte. Da tempo i suoi dispetti e le sue piccole molestie avevano tolto la serenità alla sua ex convivente 47enne.”
Ora, è bene sapere che all’origine di una denuncia per stalking ci sono atti vessatori e intimidatori metodicamente esercitati sulle vittime, tali da minarne l’intera esistenza, che si piega alla paura modificando il suo normale decorso.
Altro che dispetti o piccole molestie; questi termini rimandano più a certe beghe condominiali di poco conto, piuttosto che al dramma vissuto da chi subisce una persecuzione.
La cronaca si chiude con il consueto e fuorviante binomio dualistico amore-morte, in un’atmosfera di rassegnato accoglimento di uno degli inevitabili effetti collaterali di una relazione a due:
“Prima che Farina morisse nel reparto di rianimazione dell’ospedale San Giovanni di Dio e Ruggi D’Aragona, dove era stato ricoverato in condizioni disperate, nel primo pomeriggio tutti i tasselli erano andati a posto. A rappresentare l’immagine di un ennesimo assurdo delitto passionale“.
No. Il possesso, la prevaricazione, la violenza, l’odio, l’unilateralità di un rapporto, nulla hanno a che spartire con l’amore. Non si può continuare a derubricare i femminicidi alla voce “delitto passionale”, ed è una grave responsabilità dipingere intorno all’eliminazione sistematica delle donne un paesaggio in cui l’affetto e la violenza viaggiano sullo stesso binario, infondendo nei lettori da una parte un inevitabile senso di superficiale (poiché non ci sono spunti di riflessione e quindi nessun margine di analisi) condanna, dall’altro una sorta di solidarietà con l’omicida il cui atto sembra determinato da nobili (l’amore per i figli) od “onorabili” (la gelosia) motivi. Così facendo i tasselli del mosaico del femminicidio non possono dirsi al proprio posto, ma al contrario si contribuisce al loro affastellamento.
Ormai quasi non mi stupisco più. La mia indignazione si affievolisce di giorno in giorno, spero di non rassegnarmi. Che rabbia però.
(PS. Sapete di che cosa parla l’horror “Il marito perfetto” di Lucas Pavetto, uscito l’anno scorso?)
Non solo è minimizzato ma legittimato…è allucinante!