Numero tre [qui prologo/primo capitolo, secondo capitolo, terzo capitolo, quarto capitolo, quinto capitolo, sesto capitolo]
Passai da casa prima di andare al giornale. Un bivani con i tetti bassi e le travi a vista, come usa per gli intellettuali illuminati della città. Il mio centro storico era quello già ristrutturato. Con le case antiche riadattate in mini appartamenti. Distrutte le scalinate, gli archi, i tetti a volta. Stuccati e coperti gli affreschi ottocenteschi. Restava una parvenza di prospetto originale colorato di deserto. Carolina invece era una della resistenza della città vecchia. Voleva appartenere alla storia di Palermo o quantomeno a quella delle sue mura. Qualche volta pareva trovare radici tra le pietre, in mezzo al tufo. Maledetti sassi che le davano quell’aria così sicura e forte. Maledetto mercato, gente con la sintassi delle smorfie. Maledetto me che non facevo parte di niente.
Se devo essere sincero, non mi fregava nulla di fare parte di qualcosa. Anzi il segreto era non stare da nessuna parte. Mai con nessuno. Sorrisi a iosa. Ossequi da palazzo. Ecco la mia formazione. Qualche anno di ufficio stampa, che a mettere in fila due parole per fare sapere quante volte va al cesso un deputato erano tutti bravi. Il principio da seguire era quello dei tempi della carestia, ogni cacatella di mosca fa sostanza. Poi il redattore in un giornale del gruppo parlamentare che conoscevamo si e no in quattro: io, il deputato regionale, il tipografo e quello dell’amministrazione regionale che sommava i piccioli di finanziamento per i “mezzi di informazione dei partiti”.
Il praticantato in quella stessa testata “regolarmente registrata in tribunale” e infine l’esame all’ordine con la benedizione del mio deputato talent scout. Era questo il vero scopo della politica, scoprire nuovi talenti giornalistici e sistemarli dove servivano di più. Io mi ero formato nelle stanze del potere. No, sto dicendo una stronzata. Mi sono formato in “una” stanza del potere. Nelle altre si formava una intera generazione di intellettuali professionisti che con rammarico, negli anni a venire, avrebbero scritto e riscritto che “il giornalismo d’inchiesta non esiste più”. Io e i miei colleghi si può dire che eravamo cresciuti insieme per fare da megafono a quei moderni aristocratici “eletti dal popolo” o a tutti i pidocchi arrinisciuti “che si erano fatti da se’”.
Nel mio mestiere c’era bisogno di stare tranquilli. Io ero quello più tranquillo di tutti e per questo curavo la pagina politica del giornale. Con me lavoravano due elementi in gamba, con la passione civile che gli usciva dalle orecchie. Chissà che si erano messi in testa. Uno faceva cronaca cittadina e l’altro si occupava di cultura e spettacolo. Almeno non facevano guai. Ammazzatine di quartiere e inaugurazioni di monumenti dedicate alle vittime di mafia. Così il loro impegno era appagato e non avevano il tempo di rompere il cazzo a nessuno.
Quando è stata l’ultima volta che ho avuto un pugno di passione? Lo so. Non me lo posso scordare. Fu per l’articolo sulle nomine degli assessori regionali. Un aggettivo e un virgolettato di troppo e mi fecero buttare sangue per mesi. Poi niente. Tutto uguale. Le notizie apparecchiate. La creatività si esibiva solo nei titoli e nella misura dei pezzi. Cinquanta righe per il comunicato del segretario di partito. Dieci righe in penultima pagina per quello del comitato antimafia che denunciava speculazioni nel centro storico. Il fatto del giorno si riduceva nel gossip sul calciatore di turno o nell’appello per un cucciolo di bestia abbandonato nella circonvallazione. E poi grandi parole, corsivi emozionanti, editoriali che trasudavano etica morale da ogni grammo di inchiostro per il terremoto in Pakistan o per i morti di una sessantina d’anni fa. I morti facevano così: se non erano decomposti, fitusi, con i vermi a fare tana in mezzo alle ossa, non gliene fotteva niente a nessuno.
Per parlare dei morti bisognava prima seppellire gli assassini. Tutti gli assassini. Che gli assassini non erano solo quelli che sparavano un colpo in testa o ti scioglievano nell’acido. Ce n’erano tanti a piede libero che chiedevano leggi “più dure” per “dare più sicurezza al paese”. E chi gli poteva dire niente. Nel mio mestiere non c’era anima. A pensarci bene non c’era neppure cuore.
Io mi strappavo quattro peli che uscivano dal naso. Una passata di gel sui capelli. La camicia pulita, fresca di lavanderia. Una spolverata alla fotografia del mio erede fantasma. Di corsa a fare finta di informare tutti i minchioni che pensavano di guardare il mondo attraverso le pagine di un tabloid.
Palermo di giorno era un bordello di clacson e sirene e antifurto. Via Roma non aveva un senso preciso e Via Maqueda era diventato un budello dissociato. Corso Vittorio Emanuele poi era divisa in tre tronconi opposti che per attraversarla tutta bisognava fare il giro largo per i vicoli. Carolina restava protetta in mezzo a quel pantano e dormiva di giorno, quando a me toccava vivere. Mi chiesi se la tizia della Light l’avesse svegliata un’altra volta. Ero tentato di fare una telefonata per dispetto. Avrei riattaccato subito. Giusto per fare bestemmiare la cameriera. Realizzai di aver visto un computer in un angolo della sua stanza, per terra, in mezzo alla polvere. Le avrei chiesto come mai, perché, qualunque dettaglio per aiutarmi a incastrarla in una casella definita. In realtà volevo mangiarla e poi sputarla via quando sarei stato sazio. Fino a quel momento invece sentivo solo i suoi morsi sul mio scheletro. Come se si divertisse a spolparmi le ossa. Io non avevo niente da masticare.
Quella sera mi portò un couz couz di pesce archiviato con un parfait di mandorle. Poi dovette allontanarsi per discutere con il parcheggiatore della piazza, un abusivo malacarne, perché quel giorno non gli aveva dato soldi per “guardare” la macchina. La vedevo gesticolare come una protagonista delle sceneggiate palermitane. Scomposta ma non volgare. Parlava la lingua delle minacce e dei sottintesi. Alla fine quello la avvisò che alle ruote poteva capitare di sgonfiarsi. Carolina strinse i pugni e misurò l’impotenza trattenendo il fiato. Non era tipo da chiamare amici a rinforzo ne’ sbirri, come li chiamava lei, a rimettere le cose a posto, che tanto lo sapeva che la macchina le sarebbe sparita del tutto. Allora usò l’arma delle femmine, quella che non si può evitare. Massacrò quel galantuomo con parole ruffiane e anzi gli confidò che i parcheggiatori avrebbero dovuto essere tutti come lui, attenti e gentili.
Una strizzatina d’occhi e lo finì con un sorriso. Quello si squagliò come si squaglia un gelato al sole e la rassicurò che alla macchina ci pensava lui per tutto il tempo, fino a quando lei non finiva. Carolina tornò al locale vittoriosa e con un altro porco nella lista di quelli a cui prima o poi doveva qualcosa di più di una arruffianata e una taliatina di tette. Lei si era formata per strada nell’arte del tempo d’attesa, delle profferte sospese. Era una venditrice di sogni. Una profumiera. Che la fa odorare ma non la da’. Non concedeva quello che lasciava immaginare. Col corpo guadagnava misure d’infinito. Barattava pelle immaginata o in bella vista per scampoli di sopravvivenza. Tempo di ricucirsi l’orlo che le strappavano tre quarti di vestito. Quella città la voleva nuda. In nessun posto esisteva un boutique della serenità.
E io? Cosa poteva volere da me? Di cosa potevo vestirla io? Faceva la profumiera anche con me?
Io l’avevo toccata ma era tutto falso, perché a me non concedeva niente e io volevo tutto.
Il ristorante era in fase di chiusura e il tunisino era più schifoso del solito. Voleva aggiungere Carolina all’harem delle sue mogli o a quello delle sue puttane. Lei gli teneva testa. Lui era meno paziente di tutti gli altri. Le cadde un vassoio pieno di bicchieri. Li raccolse uno ad uno e io stavo a guardarla mentre si sorbiva un cazziatone brutale da quello che la voleva scopare. Era il suo giorno di paga e le sue mance finirono per terra. Il tunisino le fece cadere apposta, per vederla chinarsi a raccogliere le briciole sporche di povertà. Così la stuprò e per quel giorno fu sazio.
E dire che il padrone di quel locale era uno di quelli integrati, in città per eredità di generazioni. Amico di politici e sindacalisti. Di quelli che lottavano per avere diritto al voto e chiedevano rispetto per la sua gente. Ma in quel pezzo di mondo le femmine erano puttane che non meritavano rispetto. Per avercelo dovevano avere un uomo che le custodisse o una posizione che le riservasse il pregio di un trattamento ipocrita. Le altre, tutte le altre, quelle che piangevano miseria per sfortuna o per virtù, erano trattate da puttane. Così facevo anch’io.
Carolina tornò a casa alla solita ora. Le chiesi di fare un giro in macchina prima di rientrare. Lei misurò con la testa un “si” rassegnato. Era davvero irritante. La portai a Mondello, sulla spiaggia. Volevo fare una cosa. Il momento era giusto.
Le tolsi le scarpe e notai delle ferite ai piedi. Aveva i talloni rigati di sangue. Li asciugò nella sabbia.
“Ho i calli deboli.” – spiegò.
Allora provai a guadagnare terreno e me la avvicinai addosso. Di lei volevo solo mano e bocca, il resto poteva sparire. Mi prestò solo una mano. La sua testa premuta sul mio petto, si ritagliava qualche pugno di abbracci mentre io tentavo di strappare altri pezzi alla sua vita martoriata. Per un po’ presi solo il calore del suo arto, mentre io arrancavo slogandomi il polso. Bastava che lei mi fosse complice. Mi ero aggiudicato un suo pezzo. Non occorreva chiarire i dettagli. Me l’ero fatta.
Non mi era piaciuto. Carolina era morta. Io ero solo l’ultimo del branco. Quello che la infila facile perché lei non vive più. Non piange nemmeno. Lei non aveva detto di no perché aveva consumato tutta la scorta. Le altre sillabe erano inutili e io non le ascoltavo nemmeno. A quel punto mi sentii un po’ stronzo. Perché con l’acqua cheta il pezzo di merda galleggia.
Carolina non disse niente. Malgrado tutto non mi fece la grazia. Quella gran puttana non faceva rumore, non si lamentava. Mi lasciava marcire nel senso di colpa. La odiavo. Non riuscivo a usarla per sentirmi migliore. Vinceva sempre lei. Allora presi a strattonarla e chiedevo perché non mi dicesse nulla. Perché non fosse felice di stare con me, di farmi le seghe e i pompini. Perché non mi concedesse un sorriso. Perché non potesse amarmi senza insultarmi. Lei mi guardò con compassione.
“Riaccompagnami a casa.” – chiese calma. E io eseguii senza fiatare. Ho sempre pensato che l’amore fosse una specie di risarcimento. Si deve togliere qualcosa di importante per sentirsi in obbligo di amare. Altruismo fa rima con vigliaccheria. Come mettere una toppa al niente dove si è rubato il vestito intero.
A quel punto dissi. “Mi sto innamorando di te!”
Carolina rispose: “Certo. Anch’io!” – e i suoi occhi vomitavano sarcasmo. Aveva fatto ricorso alla sua riserva di arroganza. Finita l’emergenza, di nuovo, si spense.
[e.p.]