Continuando un appassionato dibattito di questi giorni relativo alla proposta di legge francese che mira a punire i clienti delle prostitute, e citando inoltre molte statistiche, qualcuno ha recentemente sostenuto che “la tratta esiste e non è connessa alle politiche migratorie”.
La questione è certamente interessante e sensata. Ma per rispondere a quest’impegnativa affermazione, occorre chiarire quale siano i presupposti. Se si parte infatti dalla prospettiva dello Stato e di chi, per così dire, stabilisce i termini del discorso, le conclusioni non possono che essere quelle appena riportate: la tratta esiste!
Ma la questione posta da Laura Agustìn, da me e da una miriade di altri sociologi critici della devianza, è che non è certamente la prospettiva di Stato quella abbracciata da chi intraprende i percorsi di cui discutiamo. Lo Stato, anzi, è il principale antagonista del migrante senza requisiti (con scarsa educazione, con un’educazione non riconosciuta dagli Stati d’arrivo, con precedenti penali, senza contatti o con contatti inadeguati nel paese di destinazione, pressato dai debiti a casa, etc. In una parola, indesiderabile). E se si intende comprendere la scelta di prostituirsi o quelle apparentemente insensate di inserirsi in reti che si promettono fondate sullo sfruttamento, di accettare il debito con i suoi costi personali, etc., è proprio da questa visione speculare allo Stato che occorre partire.
Quello che per alcuni è sfruttamento e alienazione, per il migrante è – oltre che tutte queste cose – anche un’opportunità e un investimento. Le “nigeriane” che in una critica rivolta alle mie osservazioni precedenti vengono citate come esempio di un certo meccanismo di estrazione di plusvalore e di alienazione ritornano libere dopo avere pagato il debito (fonti: Polizia di Stato italiana. Vedi il mio Sex Industry). In tal senso, queste donne non sono differenti dagli imprenditori soggetti al debito bancario. Un tipo di “imprenditoria”, quella su cui ci concentriamo, dai tratti forse paradossali; ma è su questi paradossi che si fonda la macchina capitalista, che ci piaccia o meno (e a me, a scanso di equivoci, non piace).
Tuttavia esiste una differenza tra i desiderata e la realtà. In tal senso, queste migranti oppongono il principio di realtà al desiderio. Oppure, se si preferisce, propongono una combinazione di entrambi, sbilanciata però sul primo livello (la “realtà”; quella delle frontiere, per intenderci).
La critica rivoltami sostiene inoltre che vittime della tratta non sono solo i migranti, ma tutti coloro che sono forzati a lavorare e vengono sfruttati, anche dentro i confini nazionali di appartenenza. E per sostenere questo si fa correttamente riferimento al Protocollo di Palermo. Si potrà dunque notare che insisto a parlare di migranti, mentre i miei critici si sono sforzati a dimostrare che la “tratta” è qualcosa di più ampio. La risposta è che sì, insisto a parlare dei migranti perché è davvero difficile parlare di “tratta” per definire l’infinità di forme di sfruttamento che si rinvengono nei cantieri, nei servizi e negli uffici delle città europee e nord-americane, oltre che nelle campagne. E malgrado gli sforzi dell’orrido Protocollo di Palermo di allargare il novero delle fattispecie considerabili come “tratta”, temo che quest’ultimo termine abbia finito col determinare politiche di polizia e discorsi a carico pressoché esclusivo dei migranti. Finendo, anzi, col diventare strumento ausiliario di quelle politiche di “tolleranza zero” che hanno caratterizzato la gestione del disordine nelle città italiane ed europee negli ultimi vent’anni o giù di lì (per lo più a carico dei migranti irregolari, vale la pena ripeterlo). E che dire, peraltro, del ruolo giocato dalle economie informali e dallo sfruttamento del lavoro irregolare nella formazione del Prodotto Interno Lordo italiano e, soprattutto, del differenziale di trattamento riservato dalle agenzie di controllo sociale agli autori di reato (riflesso dal dato che poco più del 6% dei circa 67.000 detenuti italiani è recluso per crimini economici, in particolare per bancarotta; mentre oltre il 36% di questa cifra è composta da stranieri. Si veda: Istat, “I detenuti nelle carceri italiane”, 2012)?
Con questo vorrei chiarire che nessuno – né Agustìn, né io – si sogna di giustificare lo sfruttamento. Quel che sostengo è soltanto che, nei termini di questa critica, la definizione di sfruttamento appare come un enunciato profondamente etnocentrico, che non tiene in nessuna considerazione la prospettiva dell’attore. Con Giordano Sivini (Migrazioni, Rubbettino, 2000), potremmo dire che quel che si vede all’opera è quello “scontro di razionalità” che da sempre caratterizza le agency dello Stato e dei marginali.
Uno scontro che, tornando al Protocollo di Palermo, è reso manifesto da quella postilla (non citata compiutamente nella critica) che nega qualsiasi importanza alla volontà del soggetto. E non c’è bisogno che si osservi che si tratta di una scelta fatta per potere procedere in assenza di denunce. Infatti è proprio in quello che per alcuni è un mero tecnicismo giuridico che si annida lo scontro dialettico tra chi è dentro lo Stato e chi è fuori di esso.
Mi si è inoltre fatto notare che in una mia riflessione mi sarei contraddetto, avendo negato che l’antropologa Laura María Agustín sia una “negazionista del nuovo ‘olocausto’”, ma proponendo al contempo di abolire il termine “tratta” dal discorso pubblico. In realtà non credo di essermi contraddetto. Nella prospettiva da me discussa, abolire non significa negare la realtà; ma soltanto ripensare profondamente e consapevolmente i presupposti del ragionamento giuridico e politico che conducono alla definizione del termine “tratta”. In questa prospettiva, il verbo “abolire” indica il rifiuto dell’apparente linearità del “pensiero di Stato”. Un pensiero che pretende di proteggere e che finisce invece col porre le basi per un irrigidimento delle politiche e una sospensione dei diritti, a tutto vantaggio di quei dispositivi sicuritari che sono corresponsabili delle stragi nel Mediterraneo, del sovraffollamento carcerario e dei rimpatri forzati di donne e uomini in fuga da situazioni politiche e sociali insostenibili.
A tal riguardo, preoccupa che i discorsi degli abolizionisti e, più in generale, di coloro che appaiono preoccupati dalla “tratta” non affrontino mai il problema della ridistribuzione del reddito su scala globale. In quelle analisi gli effetti delle politiche neoliberiste nel rapporto centro-periferia, così come quelle sicuritarie e militari, non sono praticamente mai affrontate. Il discorso di questa parte del mondo femminista (e non solo) finisce col riecheggiare pericolosamente quello, per esempio, della Lega Nord. Potremmo dire, anzi, che assomiglia a un leghismo di sinistra per il suo trovare facili risposte nei dispositivi repressivi, nelle inchieste giudiziarie e nelle operazioni di polizia. La lotta alla “tratta”, curiosamente, non si associa mai alla lotta alle guerre, alle multinazionali del petrolio o dell’industria alimentare, e a tutti gli altri elementi che compongono la nuova questione coloniale ai danni del Sud del mondo. Sembrerebbe, insomma, che un po’ di carcere, motovedette e intelligence contro lover boy, scafisti, caporali e magnaccia possano risolvere i problemi del mondo e i suoi disequilibri strutturali.
Verrei poi a colei che è insieme oggetto e pretesto di questo dibattito: a quella Laura María Agustín che è oggetto dell’attenzione dei miei critici, così come di quella altrettanto morbosa di decine di altre osservatrici nel mondo. Da etnografo, mi chiedo cosa ci sarebbe di sbagliato nella sua ricerca e nelle notazioni di quell’autrice. Mi incuriosisce soprattutto che si citi spesso un suo passo scritto, se non vado errato, circa una dozzina di anni fa. Uno dei pochi, direi, tradotti in italiano. È curioso che di un’autrice che ha scritto decine di articoli per alcune delle migliori riviste internazionali di sociologia, genere e antropologia, ci si ostini a citare ripetutamente un passo tratto da quello che è forse l’unico contributo disponibile in italiano. Un breve passo, in particolare, dedicato al “diventare cosmopolita della prostituta” rapita dalla vita notturna dei club (un concetto che si rinviene, anche se non con parole identiche, già in Paul G. Cressey, The Taxi Dance Hall, Chicago University Press, 1932 e, comunque, ampiamente presente in letteratura sin dagli anni Venti). Un articolo, peraltro, ottimo dal punto di vista tecnico: di natura essenzialmente teorica, ma fondato su dati etnografici primari e secondari, che parla della trasformazione del soggetto calato dentro un particolare mondo. Osserverei che, ci piaccia o meno, il soggetto che transita dentro un mondo – che sia quello della prostituzione, del mondo degli affari o dello sport – va nel corso di questa esperienza incontro a delle trasformazioni. Che un particolare tipo di cosmopolitismo (leggasi: una certa capacità di stare al mondo e di intravedere le aperture e i vantaggi di una situazione, che fanno magari da contraltare ai mali di questa stessa condizione) caratterizzi l’esperienza delle sex-worker, anche di quelle sfruttate, fa parte delle possibilità umane. E Agustín fa né più né meno che il suo dovere di antropologa ed etnografa: descrive l’umano nelle sue trasformazioni; persino quelle che hanno luogo in condizioni di deprivazione (si veda a riguardo il classico testo di J.C. Scott, Weapons of the Poor, Yale University Press, 1987).
Soprattutto, però, vorrei dire che ho da sempre l’impressione che i miei critici e Laura María Agustín – che impiego qui unicamente come due immagini di altrettanti mondi dell’intelletto – parlino di due cose diverse. Gli uni parlano delle sfruttate, l’altra delle “non-sfruttate”, oppure di quelle che decidono di prestarsi allo sfruttamento per trarne dei vantaggi paradossali per noi impensabili (forse immaginari, ma tuttavia ritenuti possibili da chi intraprende un percorso tortuoso). La sola ragione per cui il mondo dei primi si incrocia con quello di Agustín è che quel mondo pretende di includere nella sua logica tutti gli altri, senza praticamente rispetto per le gradazioni. Vietare la prostituzione, lottare contro l’alienazione costituita dalla messa in vendita del corpo, estendere a tutte le donne le protezioni pensate per le sfruttate, considerare le sex worker una classe in sé incosciente dello sfruttamento che si compie a loro danno appare come un’operazione conservatrice, che ci piaccia o meno. Un’operazione che ricorda quella della progressive era primo-novecentesca negli Stati Uniti e un’infinità di altri progetti che caratterizzano la storia europea dall’Illuminismo in poi (si veda, tra i tanti titoli, Carol J. Acker, Creating the American Junkie). Gli abolizionisti sono certamente liberi di combattere la loro battaglia, tenendo però presente che nessuno di questi progetti essenzialmente repressivi ha sradicato la tossicodipendenza, il nomadismo urbano o l’infinità di altri social problem che si diceva affliggessero la vita urbana dal Settecento ai giorni nostri.
Soprattutto, però, mi sembra che la visione abolizionista abbia il grosso difetto di non vedere i grigi, le interconnessioni e le sfumature che connettono le condizioni di chi è sfruttato e chi non lo è. È cieca, per esempio, rispetto al modo in cui si transiti da una condizione all’altra, si “giochi” con le legislazioni o si sfruttino le definizioni giuridiche per trarne vantaggi imprevisti. Si tratta, insomma, di una visione che nasce a tavolino e, come ho già osservato, non è affatto emica. Per essere emici, infatti, non basta essere empatici. L’“emicità” nasce sul campo e nella traiettoria che accompagna un percorso (per esempio, un percorso di prostituzione). Non bastano i racconti ascoltati in una casa-famiglia, le confessioni di un’amica o i verbali di polizia, per citare gli esempi personali citati dai miei critici. Ci vuole altro. Ecco, raccontare questo “altro” è il compito degli antropologi. Peccato che questi racconti non abbiano nulla a che vedere con verbali, narrazioni estemporanee e speculazioni a tavolino.
Un’ultima domanda, infine. I miei critici citano ripetutamente, ostinatamente e per esteso la studiosa femminista Silvia Federici, cercando di dimostrare che la lotta alla “tratta” fa parte di una lotta necessaria contro le “soluzioni coercitive che la nuova divisione internazionale del lavoro impone alle donne”. Ma parlano forse della stessa Federici che, appena nel 2012, pubblicò nella veste di curatrice di un numero speciale della rivista The Commoner un articolo di quel mostro di Laura María Agustín intitolato “Sex as Work and Sex Work”?
Pietro Saitta
Ricercatore di Sociologia Generale
Università di Messina
Autore di Sex Industry. Profili economici e sociali della prostituzione (Napoli, 2009)
[Pubblicato anche su Abbatto i Muri]
Leggi anche:
di Pietro Saitta: Laura María Agustín, la Francia e le “femministe”. Note su un dibattito infinito
di Laura Maria Augustìn: #Francia: crociata anti/prostituzione esclude dal dibattito attivisti per i diritti dei/delle sex workers
Poi:
#Francia: analisi, punto per punto, della proposta di legge contro la prostituzione!
#Francia: l’ossessione colonialista del femminismo occidentale per il traffico di donne
Il corpo delle donne si può vendere. Per scelta
Trovi molti post sul tema qui: tag sex workers