Da Incroci De-Generi di La PantaFika:
Apoyando la lucha de las mujeres andinas, las que me recibieron amables.
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Nei paesi in cui ci sono state lotte per l’accesso delle donne alla contraccezione e alla pianificazione delle nascite, il poter disporre più o meno liberamente del proprio corpo è in linea di massima ritenuto un diritto, costantemente in pericolo, ma comunque un diritto per qualche verso acquisito e, al limite, da difendere. Ma a fronte della sovrappopolazione, della povertà crescente e della finitezza delle risorse disponibili sul pianeta, in molti casi il controllo delle nascite è diventato un dovere, prima ancora che della persona, dello Stato, che riserva a se stesso il diritto di stabilire chi, come, quanto debba riprodursi. Così, in Perù, in un passato non troppo remoto, cioè dal 1995 al 2000, circa 300.000 donne e 20.000 uomini sono stati sottoposti a sterilizzazioni forzate, mentre l’aborto era, e continua ad essere, illegale e dunque proibito, eccezion fatta per i casi in cui sia riscontrato un pericolo per la salute o la vita della donna e per quelli in cui la stessa abbia i soldi per pagare l’intervento, clandestino, in una clinica privata. In Perù, dunque, il controllo biopolitico dei corpi è passato attraverso due dispositivi apparentemente in contraddizione tra loro, perché se da un lato abortire era – ed è – illegale, da un altro migliaia di donne e uomini sono stati privati forzatamente, e senza alcun consenso, del diritto di riprodursi.
Tutto comincia nel 1995, con la conferenza mondiale sui diritti delle donne, organizzata a Pechino dall’ONU quando l’allora “presidente” del Perù, Alberto Fujimori, di fronte ad una platea esultante, in larga misura composta da donne, inaugurava una strategia integrale di pianificazione familiare che avrebbe reso le donne principali agenti di un cambiamento capace di traghettare il paese da un miracolo economico ad un miracolo sociale. Le donne peruviane hanno giocato un ruolo centrale contro il folle terrorismo che devastava come una piaga il mio paese quando assunsi per la prima volta l’incarico di Presidente. Con coraggio e formidabile istinto di sopravvivenza, le donne peruviane si sono mobilitate, hanno lavorato attivamente con le forze di sicurezza, per combattere una spietata violenza terrorista….Adesso che in Perù abbiamo raggiunto la pace e la stabilità, e che possiamo gettare le basi per una società civile, possiamo affrontare sfide sociali e immaginare il nostro futuro. [dal discorso di Fujimori a Pechino]
Fujimori ottiene il suo primo mandato anche grazie al sostegno degi Usa – e il secondo, nel 1992, con un autogolpe militare – che hanno tutto l’interesse a debellare la guerriglia maoista di Sendero Luminoso. Il pericolo rappresentato da Sendero Luminoso, la spietata violenza terrorista cui Fujimori si riferisce a Pechino, giustifica lo stato di emergenza con cui verrà gestita la ripresa economica di un paese che, agli inizi degli anni 90, è tra quelli definiti in via di sviluppo. La Banca mondiale e il Fondo monetario internazionale concedono prestiti imponendo le ormai ben note ricette di liberalizzazione del mercato del lavoro e privatizzazione delle imprese e dei servizi pubblici, ovvero una liberalizzazione dell’economia che all’inizio produce una diminuzione del debito pubblico, ma ad un costo sociale elevatissimo, perché i salari si abbassano, i prezzi aumentano e la povertà si aggrava. La Banca mondiale ed il FMI sono costretti ad intervenire di nuovo e questa volta vincolano i prestiti al controllo della crescita della popolazione. Perché la povertà diminuisca, dovranno diminuire, e possibilimente scomparire, i/le poveri. Il governo peruviano accetta ed ottiene un prestito di 150.000.000 di dollari, cui segue l’implementazione di quel programma di pianificazione familiare lanciato a Pechino. I centri di salute organizzati ad hoc hanno come obiettivo precipuo il rendicontare il maggior numero di sterilizzazioni eseguite nel minor tempo e al minor costo possibili. Il soddisfacimento di tali criteri corrisponde al perseguimento degli standard di efficienza in base ai quali i centri di salute vengono valutati e premiati oppure, in caso contrario, penalizzati anche con il licenziamento degli operatori. Per far fronte alla carenza di personale medico qualificato, si ripropone il sostegno statunitense, nelle sembianze di organizzazioni non governative che forniscono operatori volontari. Anche la USAID, agenzia di aiuto per lo sviluppo del dipartimento di stato americano, si mette al servizio della causa, contribuendo con 30.000.000 dollari e con la sua esperienza nel campo della pianificazione delle nascite. Onu, Banca mondiale, FMI, Stati Uniti, tutti appoggiano la dittatura militare di Fujimori e si congratulano per gli obiettivi che si prefigge, cioè lottare contro la povertà controllando le nascite, senza troppe precisazioni sul metodo.
Il programma di controllo delle nascite si traduce così in sterilizzazioni irreversibili e forzate di massa, attraverso chiusura delle tube di Falloppio e vasectomia, rivolte alle popolazioni indigene della selva amazzonica e soprattutto delle Ande, dove si era diffusa la guerriglia maoista. Si trattava per la stragande maggioranza di donne, appartententi a comunità rurali che vivevano di un’economia agricola e pastorale di sussistenza e che in moltissimi casi non erano in grado di capire bene il castillano. Donna, campesina, di etnia quechua o amazzonica, questo il profilo del soggetto da sterilizzare per impedire che si riproduca, un profilo in cui non è difficile individuare le categorie di genere, classe, razza. Sterilizzate senza consenso dopo un parto, oppure trasportate con la forza e con l’inganno nei centri di salute, in cambio della promessa di aiuti economici e di cure mediche per la famiglia. La coercizione, spacciata per adempimento di un obbligo di legge, risulta tanto più facile quanto più è esercitata su soggetti vulnerabili perché poveri, di lingua quechua, assoggettati e intimoriti da quella scienza medica così incomprensibile e distante da loro e che afferma di volerli e doverli aiutare.
Alla sterilizzazione segue il disprezzo e l’allontamento dalla comunità di appartenenza, perché il legame tra il ventre della donna e la terra, la fertilità che accomuna la donna e la pachamama, sono pilastri su cui si reggono la cultura e l’identità della comunità stessa. Le conseguenze delle sterilizzazioni, quindi, non sono solo fisiche, ma anche psicologiche e sociali: le donne hanno subito violenze di ogni tipo da parte dei mariti e della famiglia per la loro sterilità, su di esse inizialmente è caduto lo stigma sociale e l’accusa di essersi sottoposte alla ligadura de trompas per poter avere liberamente rapporti sessuali, anche con più uomini, senza doversi preoccupare di possibili gravidanze. Molti uomini, invece, non hanno retto alla vergogna della loro sterilità e hanno preferito autoesiliarsi dalla comunità di origine, facendo perdere tracce di sé.
La prima voce ad alzarsi contro le sterilizzazioni forzate è stata quella dell’avvocata femminista Giulia Tamayo, costretta ad abbandonare il Perù nel 1997 in seguito ad azioni intimidatorie e minacce di morte e tutt’ora in esilio in Spagna, nonostante Fujimori sia stato ripetutamente condannato dalla Corte suprema peruviana per violazione dei diritti umani e corruzione. Ma tra le violazioni di diritti umani per le quali Fujimori sta scontando la pena non figurano le sterilizzazioni forzate, ragion per cui le mobilitazioni delle donne in Perù ad oggi continuano. Fra queste, particolarmente tenaci sono le donne della Asociaciòn Mujeres Afectadas por la Esterilizaciones di Anta, una comunità rurale vicino Cusco, le quali non solo reclamano giustizia, ma pretendono a ragione che le loro storie siano conosciute ed ascoltate anche in quelle parti del mondo che non si ritengono direttamente coinvolte. Come non dar loro ragione, se il programma di pianificazione familiare, tradottosi in sterilizzazioni forzate di massa, venne annunciato in una conferenza mondiale sui diritti delle donne indetta niente meno che dall’ONU, alla presenza di rappresentanti di ben 124 paesi? E che dire dei prestiti concessi da Banca Modiale e FMI in cambio di un impegno al contenimento delle nascite e, dunque, al controllo biopolitico dei corpi?
Dunque, nei paesi sedicenti sviluppati il controllo dei corpi passa attraverso dispositivi di potere e di assoggettamento, quali la dicotomia di genere uomo/donna e la naturalizzazione della famiglia eteronormativa, ma anche la legalizzazione dell’aborto che, ben lungi dall’equivalere ad una piena e reale libertà nelle scelte riproduttive, in realtà si limita a riconsegnare allo Stato il diritto di stabilire i limiti entro i quali la donna può scegliere se portare avanti una gravidanza. Invece, in molti dei paesi definiti perennemente in via di sviluppo, ai dispositivi di potere di cui sopra spesso, come nel caso del Perù, si sommano una legislazione che proibisce l’aborto e silenziate sterilizzazioni di massa, spacciate per campagne di pianificazione delle nascite. Il che significa un controllo totale sui corpi delle donne, corpi che, come dimostra la storia recente del Perù, ma anche di India, Indonesia e Uzbekistan, solo per citare qualche altro caso, diventano il campo su cui si combattono presunte lotte alla povertà, risanamenti di conti pubblici e privati, speculazioni del settore biomedico. In fondo, si tratta “semplicemente” del volto efferato del biopotere al servizio del capitale, quello stesso biopotere che, nei paesi che si ritengono sviluppati, ha trovato il modo per camuffarsi meglio.
Per chi conosce il castillano, raccomando il documentario Vientre de mujer, di Mathilde Damoisel
*[Foto di Asociación de Mujeres Afectadas por las Esterilizaciones – Cusco]
*Traduzione titolo dell’articolo: “mi sterilizzarono con la forza e ancora oggi ne soffro le conseguenze”