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#Yamamay e la campagna contro la violenza sulle donne

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Da Abbatto i Muri:

Yamamay era quella che nel catalogo di celebrazione dei 10 anni di attività illustrava foto di donne che pubblicizzavano capi di Intimo accompagnate da frasi come:  “il mio corpo è la tua casa, l’unico posto dove troverai la felicità” o “il mio candore è fatto di malizia, la mia innocenza di seduzione”.

La casa di chi? Dove si troverebbe la felicità per chi? Manco fosse un Bed & Breakfast. Su candore, malizia, innocenza e seduzione che rimanda all’immagine di fanciulle vergini in pubblico e un po’ pulle in privato vorrei soprassedere.

Poi arrivò con lo spot con Isabella Ferrari in cui c’era questa bella post quarantenne che dopo il sesso si aggirava per la villa. A parte lo standard economicamente lontano dalle donne di mezzo mondo il punto chiave sta nell’assenza di ombelico levigato con photoshop. E dire che in occasione di quello spot si parlò di naturalezza e la naturalezza di una donna presentata senza ombelico per l’imbarazzo di mostrare l’addome di chi non ha vent’anni e ha pure partorito non si capisce dove si trovi. Giusto per creare standard di bellezza unici…

Infine si presenta ora con una pubblicità contro la violenza sulle donne, perché violenza sulle donne fa brand che è buono per governi, governanti, legittimazione di qualunque genere di marketing, politico, istituzionale e perchè no anche commerciale. Peccato che la pubblicità ricalchi la peggiore rappresentazione delle donne vittime di violenza dove quel livido nell’occhio della modella sia un cliché vittimizzante che invece che mostrare la forza e lo spessore delle donne vittime di violenza finisce per identificarle solamente in quanto bambine, infantilizzate, passive, bisognose di tutela.

A questo proposito, sul perché “Non (…) si fanno uscire le donne dal ruolo di vittime se si insiste a rappresentarle come vittime.“ vi rimando alle parole di Giovanna Cosenza, a quelle di Michela Murgia (“A me vittima non lo dici!“)

Sono entrata spesso in polemica con pubblicitari e enti istituzionali benintenzionati che cercavano di fare comunicazione contro la violenza alle donne e riuscivano a ottenere esattamente il contrario dell’effetto cercato. Si è sempre trattato di manifesti, spot e slogan che, pur con l’intenzione di combatterla, di fatto confermavano l’estetica della donna come creatura fragile e simbolica, inerme vittima da salvare oppure incarnazione di valori universali che prescindevano dalla sua persona. Le frasi sono sempre le stesse. Chi stupra una donna non stupra lei, ma stupra la culla stessa della vita. Chi offende una donna non offende una persona, ma offende il mondo. Chi ferisce una donna non ferisce quella donna, ma in lei ferisce la propria madre, la propria sorella, la propria figlia. Le donne vanno protette, amate, se necessario salvate, non perchè persone portatrici dello stesso diritto al rispetto degli uomini, ma perché espressione di un sistema simbolico che pesa loro tutto addosso e di cui di conseguenza sono considerate responsabili. Custodie di questo valore, sacerdotesse di quello, scrigni di quell’altro, le donne non sono mai solo persone. Che questo equivoco sia la base, e non la negazione, delle violenze e degli abusi è un concetto che ancora fatica molto a passare, persino nelle teste di chi la lotta contro la violenza la fa operativamente ogni giorno.

e ad alcuni post in cui ho raccontato il perché e il percome della questione.

La donna oggetto. Oggetto di Stato!

Porno/Estetica Antiviolenza, moralismi e promozione del modello unico di vittima

Il silenzio è dei colpevoli e io non mi sento vittima!

Vedremo mai una immagine di donna che, lividi o non lividi, a prescindere dal fatto che stimoli paternalismi di vario tipo o meno, tiene la schiena dritta, resiste, produce le sue rivendicazioni, mostra la sua forza e soprattutto parla in modo diretto e senza prodursi in lamenti con relativo coro di prefiche assoldate all’occorrenza? Un livido su un occhio vuol dire tante cose. Una tra queste è che così ti si riduce a vittima e non sei più tu quella che può pronunciare quel che vive. Significa che disegnarti un livido in faccia equivale a cancellarti, farti sparire, dettarti un copione che non è neppure il tuo.

Da cosa ti accorgi che di fatto è così? Prova a  parlare… a essere soggetto autodeterminato invece che un oggetto… prova a pronunciare il tuo dolore con le parole che vuoi tu. Prova a dire quello che vuoi e vedrai che ti detteranno la morale e ti diranno che non sei in linea con quella che deve essere la narrazione imposta, dominante, dell’antiviolenza. Prova a essere vittima di violenza “viva” e preferiranno tutti/e che tu fossi morta perché sulla pelle delle donne morte si può ricucire addosso quel che si vuole…

E non parliamo poi del fatto che se il tuo carnefice è proprio il tuo tutore (dell’ordine) quel che si compie sul tuo corpo è un omicidio sociale dopo l’altro…

Posted in Comunicazione, Critica femminista, Pensatoio, R-esistenze.

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