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La dignità dell’orango

ArB

Da Intersezioni:

In Animal equality: language and liberation, Joan Dunayer afferma:

“Applicato all’essere umano, il semplice nome di un altro animale diventa insulto: ‘Tu sorcio, puzzola, serpe…’ Perché? Perché le altre specie sono ritenute inferiori.[…] Il linguaggio specista, oltre a supportare una gerarchia arbitraria che vede gli animali umani al vertice, afferma una falsa dicotomia tra animale e umano. Per quanto molte persone odino ammetterlo, SIAMO TUTT* ANIMALI. Ciononostante, l’epiteto ‘animale’ designa una persona che ha compiuto un atto particolarmente brutale (verso un’altra persona). Al contrario, proferiamo le parole ‘pienamente umano’ con un palpito di reverenza. I nostri occhi si appannano di fronte alla nostra peculiare umanità e il nostro autocompiacimento impenna. In tali momenti, dimentichiamo che la gorillità è più pacifica, la gufità più acuta visivamente, e l’apità più ecologicamente benigna. Le altre specie hanno capacità e qualità che a noi mancano, per quanto possiamo analizzare e inventare.”

Di sicuro, l’oranghità ha, tra le proprie caratteristiche peculiari, l’intelligenza e la dignità, caratteristiche che evidentemente mancano a taluni individui che, purtroppo, rappresentano vestigia di grettezza umana delle quali vorrei, con tutta me stessa, poter perdere la memoria.

Sarebbe bene però, che tutt* coloro che si sono indignat* nell’udire il termine ‘orango’ indirizzato alla Ministra Kyenge, fossero consapevoli che davvero la parte lesa è l’orango**. Sentirsi offes*, indignat*, sconvolt* dal nome di un altro animale utilizzato per designare un animale umano dimostra come, purtroppo, anche l’attenzione a talune forme di discriminazione ed oppressione, se non inquadrate in un’ottica intersezionale ed includente, non è sufficiente ad evitare di replicare, su altri piani, lo stesso ragionamento oppressivo dal quale sembra voler prendere le distanze. Il risultato è tornare a ragionare per dicotomie, opposizioni nette. Bianco/nero, bene/male, uomo/donna, umano/animale, superiore/inferiore, vincitori/vinti…ecc.ecc. L’incontro non avviene, differenza fa rima con diffidenza, le comunicazioni cessano. Lo scontro diventa – nuovamente – inevitabile.

Tutto questo può essere evitato rifiutandosi di parlare la lingua del dominio, e di alimentare continuamente quello scontro creato ad arte di (apparentemente) opposti valori.

Come affermava Virginia Woolf in Craftmanship riguardo alle parole:

“Tutto quello che possiamo dirne è che sembrano preferire le persone che pensano prima di usarle, e che sentono prima di usarle […] Detestano essere utili; detestano fare soldi; odiano le conferenze. In breve, detestano qualsiasi cosa che le fissi in un significato o che le confini ad una posa, perché è nella loro natura cambiare. Forse è questa la loro caratteristica più sorprendente – la loro necessità di cambiamento. Poiché la verità che cercano di catturare ha tanti aspetti, e la trasmettono rimanendo sfaccettate, mettendola in luce prima in un modo, poi nell’altro. Così significano una cosa per una persona, un’altra cosa per un’altra persona; sono inintelligibili a una generazione, chiare come la luce del sole alla successiva. Ed è a causa di questa complessità, questo potere di significare cose diverse per differenti persone, che sopravvivono.”

Per questo sono convinta che essere paragonat* ad un orango non sia un’offesa… ancor di più quando il termine di paragone umano che ha proferito tali parole è… quello che è.

L’orango, che è stato unanimemente – e in maniera assolutamente bipartisan –  preso a termine di paragone quale essere inferiore. Potere del linguaggio specista.

Certo, l’intento era chiaro: offendere, provocare, ecc.ecc. E sappiamo anche bene da quale retaggio profondamente razzista proviene l’accostamento (le pseudo-teorie del razzismo scientifico che consideravano i neri come stadio evolutivo intermedio tra le scimmie e gli esseri umani, partendo però, per chi non se ne fosse accort*, dal pregiudizio specista menzionato nella citazione di Joan Dunayer) … si capisce perciò anche la reazione ad una simile affermazione.

Ma se quella frase ha colto nel segno, se il termine orango è salito alla ribalta su tutte le maggiori testate come imperdonabile offesa, non è soltanto per il suo passato razzista (della parola e di chi l’ha proferita), ma soprattutto perché chiunque, in un mondo specista, riconosce il nominare una persona con il termine che designa un animale non umano tra i peggiori insulti.

** E non perché, come ha asserito l’assessore regionale alla protezione civile del Veneto, Daniele Stival, sul proprio profilo Facebook “Riteniamo vergognoso che si possa paragonare un povero animale indifeso e senza scorta a un ministro congolese”. Sembra superfluo puntualizzarlo, ma già che ci siamo preferiamo mettere i puntini sulle i, e rincarare la dose chiedendoci come sia possibile che, in questo paese, figure pubbliche possano esprimersi in tale maniera senza pagarne alcuna conseguenza.

Posted in Animalismo/antispecismo, Critica femminista.

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One Response

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  1. skybia says

    Ciao,
    prendendo spunto da questo articolo http://www.antispecismo.net/index.php?option=com_k2&view=item&id=62:i-murales-notav-e-lo-specismo-simbolico verrebbe da dire che l’insulto rivolto alla Kyeng è espressione diretta dell’”habitus specista”, ma anche manifestazione del referente assente, che Carol Adams ha individuato come macabro rituale delle relazioni di dominio e di sfruttamento dei corpi femminili e dei corpi degli altri animali.
    L’intersezione tra specismo razzismo e sessismo è lampante: qui si parla di oranghi, animali non umani che sono sempre associati alla non razionalità, al non avere una coscienza, all’essere solo corpo e che assumono la connotazione di un referente immaginario che a partire da corpi e menti reali e storiche, si annulla nella simbolizzazione del vilipendio. Il tentativo evidente è di offendere il soggetto dell’invettiva, la ministra Kyenge ma il risultato, alla luce dello specismo simbolico, è quello di violare le vite e le dignità degli oranghi.

    E poi forse non c’entra nulla o forse si ma proposito poi di specismo nel movimento (duro a morire) gionri fa mi è capitato di ripassare per l’ennesima volta davanti a questo murales (che per chi non lo sapesse si trova al Forte Prenestino a Roma)http://femminismo-a-sud.noblogs.org/post/2012/07/05/diaz-non-serve-una-sentenza-per-dire-chi-sono-i-criminali/ in cui la rappresentazione delle guardie è ispirata all’idea del bestiale…in modo dicotomico e contrappositivo il “bene” è rappresentato da un maschio, bianco (e una scimmietta, qui forse rappresentata in termini positivi perché è un primate e dunque più vicino alla specie umana) mentre il “male” da una serie di animali che nell’immaginario incarnano ora l’essere gregari e pavidi (pecore, mucche, conigli..), ora l’essere pericolosi(serpenti), ora l’essere fedeli (alla divisa?)(cani)…vabbè voleva essere solo una riflessione a latere