Da Abbatto i Muri:
Prendersela con una trasmissione televisiva quando c’è tutta una modalità di dis-fare cultura che fa schifo.
Parlando di stupri e indignazione c’è una discussione in atto che focalizza in una sola direzione. Nulla da dire se in tv trovi la testimonianza senza contraddittorio di una donna vittima di violenza. Se in un canale diverso ascolti il parere della persona accusata succede il finimondo.
Ai media non si chiede giusto di fare giornalismo serio e non occuparsi con fare gossipparo e scandalistico di fatti complessi che producono ferite enormi e che riguardano la sfera della violenza. Si chiede di uniformare la narrazione. Che sia corrispondente alla versione della donna/vittima e basta.
Ho visto la puntata delle Iene. Fa schifo come fanno schifo i servizi di quella trasmissione in generale. Sono spacciatori legalizzati di stereotipi. Lo sono quando fanno parlare la donna con voce mascherata mentre racconta della violenza subita, quando definiscono la questione della violenza come appartenesse solo a contesti di mentalità anacronistica, e lo sono quando fanno parlare due condannati in primo grado per stupro per sintetizzare in 18 minuti una versione della storia che arriva al pubblico come un proiettile che ti si infila nella carne.
Generalizzazioni, cliché, tutto il copione preconfezionato che si tira fuori in ogni difesa in un procedimento di stupro. Che non vuol dire che penso siano colpevoli. Non ne so niente. Non posso saperlo e non lo sapete neppure voi che vi improvvisate criminologi sui social network. Ma non vuol dire neppure che siano innocenti perché, appunto, non posso saperlo e non lo sa neppure il giornalista delle Iene che fornisce pseudo prove al giudizio del popolo che oramai si erge in quei canali al di sopra di tutto e tutti perché il popolo sceglie, il popolo televisivo valuta, vota, elegge e se il popolo ti elegge ti manca l’immunità parlamentare e poi stai a posto per tutta la vita.
Ma su queste questioni, così complesse, i media dovrebbero astenersi in generale dal mercificarle e rivenderle in quel genere di format. Perché i processi si fanno in tribunale e non con un gabibbo vestito da man in black cui è delegata la giustizia sommaria alla ricerca di scandali che fanno audience e di cattivi/e da smascherare in modo che il mondo fuori possa dividersi sempre per tifoserie e crociate. Non c’ero, non c’eri, e decidi di stabilire un rapporto d’empatia con la persona con la quale ti identifichi e nella quale ti riconosci di più. Con quella che ti convince. Ma ti convince lei? Lui? O ti convincono i media?
I due tizi dicono di essere stati descritti dai media come mostri e hanno deciso di usare Italia Uno per raccattare consenso mediatico dato che, parole loro, il processo alla fine è già concluso, nonostante sia una sentenza in primo grado e manchino due gradi di giudizio alla fine, se ci arriveranno, loro dicono che per i media sono già dei mostri e che tutto sia stato già deciso. Il loro processo dunque era già mediatico e i processi, in generale, si fanno già sui media. Succede da tempo, più spesso si fanno contro le donne che vengono massacrate di luoghi comuni e insulti sessisti a iosa. Parlano gli avvocati di difesa e accusa, i criminologi si esprimono, si fanno intere puntate televisive piene di parzialità sulle questioni di cronaca perchè fanno audience.
Chi non ha guardato puntatone di Porta a Porta in cui si chiacchierava amabilmente sul perchè e percome è stata ammazzata Sarah Scazzi o Melania Rea? Chi non ha mai visto un programma televisivo in cui una donna, solitamente dal volto nascosto e la voce camuffata, raccontava la sua versione dei fatti senza contraddittorio? Quanti chilometri di spazzatura ci siamo sorbiti empatizzando con narrazioni che corrispondevano al nostro sentire mentre il nostro senso critico veniva fatto a pezzi e ridotto in minuscole particelle avariate buone per partecipare alle trasmissioni trash pomeridiane di canale cinque o rai uno?
Allora il punto è che il ruolo dei media, quello che gioca in relazione a quel che accade alle donne, di fabbricatore di stereotipi e di banalizzatore e semplificatore della realtà, fa schifo sempre e non soltanto quando fa parlare due condannati in primo grado per stupro. Se avessero fatto parlare lei che raccontava la sua versione dei fatti senza contraddittorio non sarebbe di certo stato meglio. Perché quel contenitore porge una narrazione che fa indistintamente schifo: non perché racconta una storia “sbagliata” nel mezzo di storie “giuste” ma perchè la pappa nazionale/popolare che viene servita è orrenda, perchè racconta tutto in maniera tale da intercettare intime e avvolgenti sensibilità popolar/fasciste, a prescindere da quale parte, se da quella delle donne o degli uomini, siano schierate, e parlo di “sensibilità” che non attendono altro che di vedere lacrimare qualcun@ purché lacrimi. Che si tratti della Madonna, di San Gennaro, di una mamma afflitta, di un padre disperato, di una stuprata o di un condannato per stupro poco importa. Fa tutto business. Diventi merce, chiunque tu sia. Diventi pubblico e tifoseria con un ruolo preciso, quello dell’indignat@, chiunque tu sia.
In quanto alle decisioni dei giudici vorrei inserire un elemento critico nella discussione in atto. Qualche anno fa una ragazza che considero una amica, di cui ho seguito passo passo la vicenda, denunciò uno stupro per ottenere riconoscimento, verità, che per lei era più importante di una qualunque condanna. La sentenza fu di assoluzione. Io invece le credo. So che lei ha subìto uno stupro e so che tra processi e ritorsioni e intimidazioni successive lei si è fatta fregare almeno 4 anni di vita per poi dover andare altrove, lontano dal luogo in cui era nata e cresciuta, perché non poteva più restare.
Le credo non perché sia una donna. Non perché credo a tutte le donne che raccontano di una violenza. Non perchè sono empaticamente incline a considerare ogni uomo una merda umana. Le credo perché ho parlato con lei a lungo, perchè mi ha raccontato, perchè qualunque cosa sia accaduta, giacché si tratta qualche volta di una differente percezione degli eventi – più spesso in malafede e talvolta no perché c’è chi è così sessualmente analfabeta, egocentrato e coglione da non riuscire proprio a capire la differenza tra sesso consensuale e stupro – lei è stata stuprata, il suo corpo ha subìto uno stupro, la sua autodeterminazione è stata violata.
Di quel che ha sentenziato il giudice posso fregarmene. Perché i giudici sbagliano. Sbagliano quando assolvono uno stupratore su una difesa improntata sul “se l’è cercata” e sbagliano quando si fidano ciecamente della testimonianza di una ragazza ed emettono una sentenza senza avere prove.
Lo so che è difficilissimo. Lo so perché lo so davvero che lo è. So che ci sono donne che raccontano e non vengono credute perché questi crimini vengono commessi spesso lontano da occhi indiscreti, in quel “privato” che diventa pubblico per bocca di chi lo racconta per come l’ha vissuto. E la difesa viene sempre orientata per lo più nel delegittimare l’opinione di chi denuncia e se non ci sono prove del fattaccio tutto ciò diventa semplicissimo. Lei dice che è stato così e lui dice che non è vero. E se qualche prova in effetti c’è, ferite e tracce evidenti di quel crimine, le spiegazioni diventano perfino più paradossali. Scopriamo donne che in questa Italia sessuofobica sembrano tutte uscite da un film porno, con attitudini tutt’altro che umane, da dominatrici sessuali, mantidi religiose, vedove nere, amanti del sesso hard violentissimo, manca la frusta e quelle che vogliono farsi possedere nei riti satanici e poi le abbiamo sentite tutte.
D’altronde in quel privato c’è anche lui. E se per principio io non gli credo perché nella mia testa è scritto a lettere cubitali che tante donne subiscono uno stupro e che quella che ha il coraggio di raccontare deve essere incoraggiata e protetta a costo di prendere cantonate e mandare in galera un innocente dovrò pur chiedermi se sbaglio. Perché è vero che c’è una cultura dello stupro ma tra le persone sensibili alla questione della violenza sulle donne c’è anche una cultura dell’anti/stupro che dice che ogni donna che denuncia afferma il vero e che ogni uomo accusato è già colpevole prima di qualunque sentenza. Quella cultura dice che dovrò partecipare al processo contro un uomo sempre e comunque schierandomi dalla parte della denunciante. E’ una cultura che si nutre di paura, di emergenza, delle tante notizie di cronaca che leggiamo tutti i giorni, e questo è l’argomento usato quando si dice che potrebbe finire in galera un innocente. Perché tra tante donne vittime di violenza e tante donne stuprate che non denunciano tu ti preoccupi di quello che potrebbe essere accusato falsamente? Già dirlo significa alimentare la cultura dello stupro, diffondere sfiducia nei confronti delle donne, le quali devono essere incoraggiate a sapere che quando denunciano ci sarà qualcun@ che le accoglierà e che crederà loro e non le lascerà mai sole. Ma dunque non bisogna dirlo mai? Si può almeno pensare che abbiamo la responsabilità collettiva di non creare un clima culturale che giustifichi ingiustizie in nessuna direzione e che non giustifichi la donna che ritenendo di essere creduta a prescindere racconta balle tra l’altro danneggiando tutte le altre?
Nel caso raccontato da le Iene non ho idea di quali prove ci fossero, di che tipo di testimonianza lei abbia dato, di quanti e quali elementi clinici si sia servito il giudice per sentenziare. Non lo so. Non posso saperlo. E per il ruolo che io intendo avere, in rapporto alla comunicazione e alla cultura, mi riguarda il giusto. Quello che so è che un servizio televisivo o un articolo giornalistico può partire da una tesi e poi può essere montato ad arte per fare in modo che lui appaia innocente o che diventi il mostro.
E la risposta a quello che vi indigna non è cancellare un servizio televisivo, umanizzare una trasmissione, in un contesto televisivo in cui la cultura della vittima della malagiustizia è il frame costante, ma è proporre un quadro culturale che smetta di presentare le violenze in programmi inadeguati tra una ricetta di cucina, un gossip idiota, un fenomeno da baraccone, una inchiesta alla gabibbo, una violazione della privacy e una lacrimuccia della presentatrice commossa di fronte all’ennesimo caso umano.
Perché caso umano può esserlo chiunque in una cultura appiattita sul nulla che non fa distinzioni di alcun genere. Può esserlo la vittima di stupro resa martire per l’occasione e può esserlo chi è stato condannato per stupro e si dichiara innocente. Può esserlo anche il rumeno piazzato in prima serata in tv per risarcirlo del fatto che nel 2007 lo fecero diventare il mostro in prima pagina, perché fu arrestato per stupro e quasi linciato senza una sola prova reale che portasse a lui.
In tutto ciò dunque io credo sia corretto fare controcultura senza entrare esattamente in quel gioco mediatico nel quale ti vogliono infilare. Quello in cui tu diventi pubblico/tifoseria. Difatti le tifoserie già sono in azione. C’è chi sostiene i due e chi sostiene lei. E se per lottare contro la cultura che produce queste perfide e oscene rappresentazioni della realtà si diventa funzionali a quello stesso gioco non si finisce per replicare, forse, quella stessa bassa cultura? Non si finisce per acquisire, assimilare, meccanismi viziati della comunicazione, originando altre storture in altre direzioni? Non si finisce per restare schiacciati nel ruolo di tifoseria che altri hanno scritto per te?
Ps: Aspetto la valanga di merda per aver espresso un parere non allineato. Apro l’ombrello.
—>>>Contro il pensiero unico anche in fatto di lotta contro la violenza sulle donne perché la tua liberazione è diversa dalla mia. Perciò si parla di femminismI e non di femminismO.