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Grillo e il nazionalismo dal basso

Riportiamo da Infoaut la prima parte dell’intervento di Nicola Casale su Grillo e il Movimento 5 Stelle che offre interessanti spunti di analisi su un fenomeno che ancora mostra lati oscuri o controversi laddove destra e sinistra perdono significato per lasciare posto ad un nazionalismo dai contorni opachi.

Buona lettura!

Con Un Grillo qualunque (Castelvecchi Editore) Giuliano Santoro fornisce utili elementi per comprendere il “fenomeno Grillo”. La ricostruzione della storia professionale come personaggio televisivo (Grillo sostiene di essere un prodotto della rete, ma in realtà fa un uso beceramente televisivo di Internet, manipolando le emozioni, p. 157) sottolinea il rapporto con la tv di Antonio Ricci, da cui Grillo ha preso molto, in particolare dal Gabibbo, alfiere dei sentimenti popolari contro i potenti. La ricostruzione della storia politica evidenzia la base eclettica su cui si è formato, attingendo un po’ ovunque, dagli umori popolari, come quelli formatisi dal basso e raccoltisi in Genova 2001, e da quelli artificiosamente pompati dall’alto contro la “casta”.

Su questa base Santoro delinea caratteristiche e contenuti del grillismo. Che si possono sintetizzare, mi pare, nel modo seguente: è un populismo che evoca un “noi” contro i vizi che appartengono a “loro”, la “casta”, con caratteri di antipolitica in quanto propone di sostituire alla democrazia rappresentativa la “democrazia diretta”, in realtà una democrazia im-mediata, senza “corpi intermedi” tra rappresentanti e rappresentati, con connessione diretta tra seguaci e leader. Il brodo di coltura nel quale si è sviluppato il rifugio nella rappresentazione, di cui Grillo è parte, è “la crisi di sovranità, l’incapacità della rappresentanza di governare i fenomeni economici e sociali… come la globalizzazione e la fine del lavoro salariato novecentesco e la sua scomposizione nelle mille facce del diamante produttivo postfordista” (p. 158).

Grillo, poi, giunge alla fine del berlusconismo, e ne assume in eredità alcuni caratteri: il fastidio per tutto ciò che è pubblico (Anche lo spazzino viene visto come membro della Casta, in quanto dipendente pubblico a tempo indeterminato, p. 147), l’idea simile a quella dell’Uomo Qualunque che la politica può essere cambiata solo insufflando nel sistema gente che “non c’entra nulla”, come un Berlusconi talmente ricco da non aver bisogno di rubare, o un comico, a sua volta già benestante, ma più genuino dei politici ipocriti.

Altri elementi che Grillo riprende da Berlusconi sono, scrive Santoro, la retorica di destra della meritocrazia e l’elogio del modello di governo privatistico. Peraltro, aggiunge, Grillo non disdegna di civettare con temi di una destra ancora più estrema, come, per esempio, con lo Scec (Sconto che cammina o Solidarietà che cammina), che nasce da analisi economiche vicine al signoraggio, che individuano i guasti del capitalismo nell’assenza della “sovranità monetaria” e non nello sfruttamento dell’uomo e della natura, riecheggiando i motivi delle destre estreme, da sempre ossessionate dal tema dell’usura e del governo del mondo a opera dei banchieri con riferimenti più o meno espliciti ai pregiudizi antisemiti.

Il successo di Grillo e del suo guru telematico Casaleggio rappresentano, sottolinea Santoro, un modo efficace di riabilitare l’ideologia del mercato di fronte al fallimento storico del neoliberismo, in quanto la rete consentirebbe di instaurare una concorrenza perfetta tra le idee, tra le quali i singoli sceglierebbero, “inter-attivamante”, sulla base del proprio “stato di grazia” o giudicandone il tasso di verità.

Nelle conclusioni Santoro avverte che sarebbe schematico sostenere che Grillo sia la semplice prosecuzione di Berlusconi con altri media, mentre, rispetto a questo, fa un passo avanti, in quanto riesce, con l’utilizzo sapiente della tecnologia (rete/tv) ad approcciare la realizzazione dell’utopia tecnocratica della destra di costruire una macchina che possa trasformare i molti nell’uno, distruggendone la diversità.

Il libro fornisce una trama di lettura del grillismo argomentata e stimolante: un rilancio del neoliberismo che si associa ai semi di un nuovo totalitarismo. Non di meno lascia, a parere mio, sullo sfondo alcuni interrogativi essenziali per comprenderne appieno la portata e gli effetti che sta producendo nel panorama politico e per chiedersi se il grillismo rappresenti una dinamica reale o solo un’invenzione mediatica. Se sia, insomma, in grado di lasciare il segno al di là delle sorti del capo e dell’involucro in cui è contenuto.

La prima domanda riguarda le componenti sociali maggiormente attratte dal M5S. Un Grillo qualunque affronta, in più riprese, l’argomento per rilevare che i settori più coinvolti sono giovani laureati, spesso con lavori precari o imprenditori di sé stessi, che si percepiscono, per lo più, come progressisti. La collocazione maggioritaria degli aderenti è, dunque, nel cosiddetto “lavoro cognitario”. Pure la base elettorale è costituita in buona parte dalle stesse figure, anche se nel suo crescere attira sempre più un elettorato di più varia composizione sociale, deluso dal centro-destra e, meno, dal centro-sinistra.

Quali i motivi dell’attrazione? In generale in questi strati va crescendo un senso di frustrazione che deriva dalla convinzione di possedere un bagaglio di conoscenze e di competenze che non è possibile valorizzare pienamente. Quali maggiori opportunità di valorizzazione prospetta Grillo? Essenzialmente due. La prima: la politica ha bisogno di onestà e competenze, che, secondo Grillo, mancano del tutto alla “casta” che ne detiene le leve. La seconda: anche l’economia ha bisogno di competenze; la “casta economica”, costituita da dinosauri abbarbicati sulle loro rendite, non le ha ed è incapace di imprimere all’economia quella scossa di novità che, invece, le competenze dei giovani cognitari sarebbero in grado di infondere.

I lavoratori cognitari attratti dal M5S, dunque, sono poco interessati a un percorso rivendicativo di “sicurezze” analoghe a quelle dei “lavoratori garantiti”, che, peraltro, vanno sparendo anche per questi. Ma poco interessati lo sono anche alla rivendicazione di un “reddito di cittadinanza” (che Grillo, ad ogni conto, inserisce nel suo programma). La loro rivendicazione è di natura essenzialmente politica, di potere: via le “caste” che bloccano politica, economia e società, e spazio alle competenze!

È importante rilevare come gli argomenti e le formulazioni usati da Grillo tentino una fusione dei due principali movimenti che hanno interessato questo strato nell’ultimo decennio. Uno è quello innestatosi sulle contestazioni alla globalizzazione da Seattle ’99, che ha dato vita, in tutto il mondo, a mobilitazioni su temi specifici in cui le competenze messe in moto dal basso sovrastavano quelle provenienti dall’alto, dimostrandone spesso la natura esclusivamente propagandistico-affaristica (un esempio su tutti: No Tav). In questo movimento hanno un ruolo importante la cooperazione e il fine. La cooperazione è un meccanismo potente di produzione di una competenza che tutte le travalicava, tanto come risultato (non produce mera sintesi), quanto come generalizzazione (questa sì inter-attiva, in cui l’esperto non porta solo le sue conoscenze, ma va anche ad apprendere da chi esperto non è) in un ambito molto più esteso degli “esperti”. Il fine è non quello individuale (uso delle competenze per il successo del singolo nel mercato), ma il perseguimento di uno scopo superiore, di una collettività che trascende i confini della comunità in lotta.

Il secondo movimento è quello su cui Berlusconi ha costruito le fortune politiche, interpretando, con gli eccessi inevitabili per innestarla in Italia, l’ideologia che costituisce il tratto unificante del “neo-liberismo”: l’individuo proprietario. Nella realtà l’individuo davvero proprietario è chi possiede capitali, nell’ideologia ogni individuo è proprietario di un capitale, costituito dalle proprie conoscenze e competenze. Questo è un capitale solo potenziale, che, però, come nella fiaba di Bill Gates e Steve Jobs, può trasformarsi in accumulazione di capitale reale. Competenze, conoscenze, e una buona dose di cinico individualismo, per sfruttare al massimo le opportunità che il mercato offre. L’individuo proprietario è in lotta feroce contro tutti gli altri per affermare la propria primazia, misurata in quantità di denaro accumulato, di ricchezze a disposizione e di femmine sciupate, e si aggrega con gli altri individui solo per scongiurare l’avvento del “comunismo”, cioè di politiche che limitino lo spazio della libertà individuale, che è, in ultima istanza, la possibilità di competere spietatamente l’uno con l’altro e di sfruttare senza condizioni i “perdenti”.

La fusione disegna un individuo proprietario che aspira a buon diritto ad arricchirsi, ma il cui vero successo non consiste nella quantità di ricchezze e donne accumulate, quanto piuttosto dal riconoscimento che gli deriva dal mettere le competenze al servizio del “bene comune”. Il buon amministratore deve essere competente, e, proprio per questo si auto-riduce anche lo stipendio. In politica e in economia appare un nuovo principio: meno ricchi, se del caso, ma socialmente più utili, e, dunque, più accettabili.

Siamo davanti a una specie di mutazione genetica. L’individuo proprietario non scompare, ma la sua ansia di accumulazione deve fare i conti con la nuova realtà della crisi che non legittima più l’aspettativa di arricchimento generalizzato. Lo stesso Berlusconi è costretto, in qualche misura, a tenerne conto, e dal registro di sciupa-femmine transvola in quello di morigerato fidanzatino.

Per valutare a fondo le implicazioni della mutazione, si dovrebbe abbandonare il luogo comune coltivato a sinistra che Berlusconi sia un’“anomalia italiana”. La sua ideologia e la sua politica rientrano alla perfezione in quelle mondiali promosse a partire dagli ‘80 allo scopo di chiudere il ciclo di compromesso tra capitale e lavoro, inducendo la massa di lavoratori a non considerarsi più classe organizzata in sindacati e partiti, ma individui proprietari che affrontando il mercato, liberi dalle “costrizioni collettive”, avrebbero raggiunto un benessere maggiore di quello strappato con le lotte a padroni e stato. Questa ideologia ha svolto una grande opera di seduzione nei confronti di classi medie, piccoli accumulatori, giovani forniti di “competenze” e, in parte minore, del proletariato, che vi ha aderito più per necessità che per convinzione.

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Posted in AntiAutoritarismi, FaceAss, Scritti critici.

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2 Responses

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  1. simulAcro says

    Le annotazioni dei compagn* di infoaut.org apposte in calce all’interessante intervento di Nicola Casale pubblicato sul loro sito, ne sintetizzano schematicamente alcuni dei punti più significativi ma, a mio parere, trascurano di dare l’evidenza che invece merita a un aspetto importantissimo che ritengo cruciale come analisi a cui attingere in quanto a consapevolezza e fondamento orientante nell’azione politica.

    Interrogandosi su quali prospettive ha il M5S? e su quante possibilità ci sono che una ventata di nazionalismo [si riferisce al “nazionalismo popolare” dell’M5S] si affermi sul piano mondiale? Che è come chiedersi: anomalia italiana o Italia laboratorio per una tendenza più generale?, Casale osserva che Le condizioni che non si tratti di anomalia italica ma di laboratorio per la costruzione di un “nazionalismo popolare” ci sono. Non c’è bisogno di indagare nella testa di Grillo per cercarne il riscontro (né è detto che sia lui, dopo aver gettato i semi, a raccoglierne i frutti). Non è lui a produrre la dinamica, tuttalpiù se ne fa interprete. Le forze che si muovono nel sottosuolo hanno una potenza che travalica la sua capacità di elaborazione anche se associata a quella di un Casaleggio. A lui va, piuttosto, il merito di saperle ascoltare, di farsi travolgere dagli umori “dal basso” per raccogliere ovunque, da sinistra e destra, e per indirizzare verso l’azimut per antonomasia “né di sinistra né di destra”: la sacra patria delle genti umili e lavoratrici che rivendicano la dignità contro i parassiti, finendo, per lo più, per divenire massa di manovra nelle mani dei parassiti interni contro quelli esterni e, soprattutto, contro le genti umili e lavoratrici delle altre nazioni.

    Il “rischio” è dunque quello che la “rivoluzione” e i “rivoluzionari” finiscano (come già accaudo più volte nel corso della storia) per lasciarsi “riassorbire” dal sistema, per lo più tra le spire delle (miserabili) lusinghe di essere destinatari di una qualche minima fetta (fittizia, ovviamente) di un (falso) simulacro (virtuale, consumistico ecc.) di potere, con gli eventuali pochi refrattari residuali intrappolati tra le maglie del controllo e della repressione.

    Casale prosegue: Questa analisi genera una serie di altre domande: la tendenza è inarrestabile? È irreversibile che i “ceti medi” e il lavoro cognitario debbano essere massa di sostegno a una tendenza [reazionaria] del genere? No, in entrambi i casi. La tendenza può essere arrestata dall’emergere di un movimento anti-capitalista e, dunque, internazionale e internazionalista. Lo stesso che potrebbe aiutare i ceti medi e il lavoro cognitario ad impostare su una base diversa la loro resistenza: non più la difesa del proprio status all’interno del sistema capitalistico contro il rischio di proletarizzazione, [ecco le lusinghe del sistema di cui parlavo prima…] ma la lotta contro il sistema e, dunque, contro l’esistenza stessa della condizione proletaria per chiunque.

    Aggiungerei quindi un quanto punto alla sintesi dell’intervento di Nicola Casale pubblicato su infoaut.org:

    4- L’importanza di riconoscere e essere consapevoli delle dinamiche sociali in gioco e delle modalità con cui il sistema cerca di riassorbire, normalizzare e omologare le resistenze, manipolandone sapientemente le spinte e le aspirazioni fino a farne “massa di manovra” nelle mani dello stesso potere capitalista. E, conseguentemente, la possibilità che, a partire da questa consapevolezza diffusa, si possa impostare su una base diversa la resistenza, facendo emergere un movimento, internazionale e internazionalista, di lotta radicale contro il sistema capitalistico che, finalmente, riesca a evitare l’ennesima auto-riconversione con cui il sistema capitalista stesso si perpetua [approdando, aggiungo io, a una società di uguali, aperta, senza più stati, istituzioni, poteri e confini, basata su autogestione autonoma e autorganizzazione].

  2. Igor Giussani says

    Ho sempre pensato che l’idea in base a cui il sistema non funziona perché a causa di corruzione e disonestà in generale sia molto rezionaria, perché non mette in discussione la bontà intrinseca del sistema. Direi che il limite grande di Grillo è questo, perché il sistema è intrinsecamente sbagliato ed è necessaria la lotta contro ogni forma di discriminazione, sia essa politica, culturale ed economica; questa è la ragione per cui l’antifascismo, come ha dichiarato dopo le polemiche per Casapound, non è un suo problema. Detta così però si può generalizzare ben oltre Grillo… ad esempio, la sinistra ‘radicale’, ‘antagonista’ e quantaltro per la quale il maggior problema sembra essere che non c’è ‘crescita’.
    Un’ultima cosa: trovo molto pericolosa l’equazione che mi sembra proposta nell’articolo, cioé organizzazione=partito. Il partito è una forma verticistica di organizzazione politica, non è certo l’unica possibile – e non mi sembra particolarmente efficiente.