Continuo a fare e a parlare di politica con molte persone, e continuo purtroppo a vedere ripetersi atteggiamenti che, al di là del mio giudizio personale, impediscono di lavorare insieme su ciò che conta, sulle situazioni politiche che stanno più a cuore. Di recente poi un caso letterario ha pure rovinato la reputazione della parola che per me spiega queste difficoltà, che è “sfumature”. Per me, questa parola vale per quello che diceva in un canzone di qualche anno fa:
perché sono le sfumature
a dare vita ai colori
e a farci tornare in mente
le cose più pure
dei giorni migliori.
Sfumature come queste.
La censura e le regole non sono la stessa cosa. La censura è decisa da un’autorità, eletta o costituitasi tale con la forza, ed è sempre un’azione repressiva perché tende a voler impedire e soffocare qualunque espressione lesiva di quella autorità. Le regole invece sono ciò che identifica uno spazio – di vita, di discussione, di libertà – ed esistono principalmente per difendere quello spazio da chi vuole prenderselo, farne ciò che vuole, trasformarlo senza il consenso altrui, inquinarlo o distruggerlo. Chi non gradisce le regole o la loro applicazione su di sé saluta e lascia lo spazio, senza rancori e senza il bisogno di chiamarla censura perché la regola ha limitato o colpito la sua espressione. Se la si chiama censura quando non lo è, è perché serve identificare un’autorità pure se non c’è, per sentirsi così un eroe, un rivoluzionario; e per evitare di apparire semplicemente fuori luogo – oppure proprio un perfetto stronzo.
Le cause sociali degli effetti esistenziali sono sempre molto complesse. Un atteggiamento interrogante politicamente aperto, una discussione franca e poco corretta su temi scottanti, la volontà di esplorare il non detto, il fastidioso, il dato-per-scontato, non legittimano nessuno a fare niente. Voler discutere, voler capire anche i comportamenti e i fenomeni più facilmente giudicabili “al volo”, non sono atteggiamenti convalidanti o giustificatori di quei comportamenti o di quei fenomeni. Chi, alla prima domanda scomoda, alla prima discussione rognosa, si chiama fuori dividendo il mondo in chi sta di qua e chi sta di là dalla linea della sua paura di approfondire le questioni, è quello che ha pronta una lista breve e concisa di precise cause per ogni problema – la lista sbagliata. Essere atterriti dalla complessità del mondo è un atteggiamento più che lecito, ma non è comunque un buon motivo per lanciare su chi vuole affrontare quella complessità le accuse di ambiguità, favoreggiamento o “collaborazionismo” politico col “nemico”. Basterebbe dire che quell’attività non interessa, e rispettare la volontà altrui di esplorare linguaggi e rapporti politici che generalmente si lasciano perdere.
Mi capita frequentemente di partecipare a discussioni politiche nelle quali passano per sinonimi, per espressioni intercambiabili, frasi come queste due:
(1) “la violenza di genere è violenza maschile”
(2) “la violenza di genere e’ praticata dagli uomini”
mentre io continuo a vedere, e a sentire, tra queste due frasi una differenza enorme.
La (1) è una frase che lega indissolubilmente tra loro due concetti, la violenza e il genere maschile; due costruzioni culturali (il concetto di genere e il concetto di violenza) sono saldati da una tautologia che non dà nessuno scampo ad altre possibilità. Come tutte le tautologie, questa frase (1) è la base di una ideologia, granitica e indiscutibile visione della realtà, non la si può contraddire. La frase (1) scolpisce la violenza di genere nell’essenza maschile, gliela rende innata e indissolubile, non le concede scampo – è la frase che amano i maschilisti, che così possono sentirsi vittime perseguitate e bollate a vita. Come tutti i fascisti, poi, possono giustificare le loro violenze con la loro natura, con la loro essenza che quella frase (1) ratifica e spiega comodamente a loro stessi e a tutti gli altri.
La frase (2) non parla di concetti, ma di una abitudine, di una educazione, di una prassi che nessuna essenza giustifica – e che quindi nessuna essenza può impedire di cambiare. Non accenno qui a nessuna “speranza”, sia chiaro: più onestamente, quella frase spiega che la violenza non è tanto un concetto essenziale in un genere quanto una tradizione, una consuetudine alla quale quel genere è abituato da sempre e da subito – e contro la quale ci si può adoperare, se lo si vuole, perché non è niente di innato. Capire questo è il primo passo verso la fine del patriarcato; che invece, se si crede alla frase (1), è semplicemente impossibile da combattere, per tutti i generi.
Per questi casi, e per tanti altri esempi, è tanto facile trovare in giro censori che accusano altri di censurare, sragionatori che accusano altri di sragionare, uomini che accusano altri uomini di non essere uomini, donne che accusano altre donne di non essere donne. Perché è più facile farlo, non c’è bisogno di stare attenti a nessuna sfumatura, bastano due colori: quello giusto e quello sbagliato, il bianco e il nero.
A me la logica binaria non piace per niente. Io sono analogico, non digitale. Io amo le sfumature.
Solo una considerazione generale, una “sfumatura”, circa censura e regole.
In particolare, rispetto a quanto detto nel post sulle regole come ciò che identifica uno spazio – di vita, di discussione, di libertà – , non posso che concordare su questa definizione se riferita a questo “caso” specifico: autogestione / autorganizzazione non vuol dire che non vi debbano essere regole, e queste devono essere liberamente e concordemente stabilite e accettate da tutt* quell* che insieme definiscono/costituiscono lo spazio autogestito / autorganizzato.
Più in generale, però, non va dimenticato che al di fuori di questi spazi liberi è molto facile che le “regole” (in senso ampio: convenzioni, leggi ecc.) siano cosa ben diversa, essendo quelle dettate da pochi (direttamente o in virtù di “rappresentanza” e “deleghe” a vario titolo, voto incluso) a vantaggio di pochi e a danno dei più… risultando quindi meri dispositivi di potere e di oppressione, piuttosto che la definizione di una certa modalità di libera (auto)organizzazione.
Capisco che si tratta di una precisazione ovvia e magari anche ridondante per molt*… ma, oltre che un po’ pedante, sono anche io analogico e anche io amo le sfumature… 😉