Skip to content


Funambole

Pubblichiamo un estratto del libro Funambole di Isabel Farah (Marco Del Bucchia Editore, 2012), che raccoglie sedici racconti dedicati ad altrettante sedici donne.

Le protagoniste di Funambole non sono donne qualsiasi, sono sedici personaggi del mito greco che, attraverso la narrazione introspettiva e intensa di Isabel, riprendono vita per parlarci di galere che ingabbiano libertà, desideri, autonomie e identità. La narrazione trascina e trasforma il mito in donna, la sua storia nella nostra. Autrice, protagonista e lettrice si incontrano nel testo unendosi nell’aspirazione, repressa, di vivere libere.

Tutte legate dal filo rosso di chi  cammina sulle funi e barcollando, cercando l’equilibrio, a volte cadendo, gioca col vuoto. Tutte, sempre e comunque, sospese, aspettano di perdere l’equilibrio, o di trovarlo, allungano la mano per chiedere aiuto, si fanno male, hanno paura, vincono, perdono (dalla quarta di copertina)

Queste sedici figure tragiche e ironiche, distaccate, percorse e scosse dalla realtà sono umane, conosciute, interpretate dalla cattiva attrice che ciascuna di noi si è trovata ad impersonare nella vita (dall’Introduzione di Martina Guerrini)

EURIDICE

Ho bisogno di un’altra sigaretta. Certo che ho come accenderla! dove crede che mi trovi? Non le ha viste le fiamme l’altra volta? Si sporga di più allora, o ha paura di caderci dentro? Sì, no. No, no avvocato. Mi ascolti lei, cazzo. Come come sto? Cosa vuol dire come sto? Sono coperta di cenere e, e…e come vuole che stia? Le condizioni…che domanda stupida. Giuro che è una domanda stupida. Mi deve tirare fuori da qui! Si rende conto di che assurdità sta dicendo? Pronto? Avvocato? Mi sente?Avv..
Vaffanculo.

Dice che non dipende da lui. Forse ha ragione, forse no. Non lo so, non so più niente. Avrei solo voglia di vedere il sole. E di mangiare delle more, ora. Sicuramente saranno mature. Vicino alla mia casa c’è un roveto pieno di more. La cosa che amo di più è sentire che il sole delle giornate estive, non solo le rende mature, le scalda anche, e, le mie more, sulla lingua, si sciolgono in tutta la loro dolcezza. E io ho bisogno della loro dolcezza , perché quella che mi è stata regalata da mia madre, in dotazione col mio patrimonio genetico, se l’è presa un serpente. Un serpente che ha morso la mia caviglia. Ero dolce come le more e ora sono pungente come il roveto. Comunque, poco importa, ora l’unica cosa che rimane è la rassegnazion. E la vendetta.
Nemmeno quell’idiota del mio avvocato è riuscito a tirarmi fuori da quest’inferno. In verità le speranze erano ben poche. Cercavo di essere convincente per tutti e due, ma in cuor mio sapevo che nessuno poteva più salvarmi. Anche se sono, o forse dovrei dire ero, non saprei, una ninfa. Le ninfe non sono dee. Cazzo se non sono dee, a quest’ora sarei stata a mangiare uva sdraiata su una nuvoletta fresca fresca. E non qui. luogo a cui dovrò abituarmi. Lo arredo, l’inferno, che dite?
Se poi ci aggiungi che io la seconda chance ce l’ho anche avuta, ma quello stronzo di mio marito se l’è bruciata, e ora io brucio davvero. Lo chiamo stronzo perchè le cose non sono andate proprio come sapete voi. E alla rassegnazione penso domani; ora, che nemesi sia. La storia del canto così commovente di Orfeo da fare sciogliere Proserpina è una bufala. Proserpina e Ade mi conoscono bene, è me che volevano graziare, non Orfeo, cantastorie qualunque, nulla di così eccezionale la sua produzione. E però come giustificare agli occhi degli altri detenuti negli inferi tale iniquità? Lo stratagemma è venuto in mente a Proserpina, essendo le donne più sagaci degli uomini.. Chi poteva immaginare che Orfeo non avesse avuto voglia di tirarmi fuori. Se avesse voluto, e se avesse avuto un po’ di dignità in più, no che non si sarebbe voltato. Cos’hai da distrarti, così all’ultimo? Dai che mancavano dieci passi o poco più ed eravamo fuori, e avresti avuto tutto il tempo per guardarmi se avessi voluto. La clausola che mise Proserpina, innocua, semplicissima da seguire. Manco gli avesse detto di camminare su un piede solo. Non voltarti a guardarla. E non ti voltare! E invece no, cazzo! Lui si gira e mi guarda e dentro di me io vorrei solo ucciderlo, ma non faccio in tempo: cado giù. Cado giù con in bocca una bestemmia. Che l’ultimo mio desiderio sarebbe sì di vedere Orfeo, ma non per salutarlo, per tirare uno schiaffo al suo cuore gelido. Cado giù, giù, giù.
Il risultato è che tutti piangono la sventura di Orfeo e ignorano quella di Euridice. Gente, lui è fuori e io all’inferno. Gli manca sua moglie dite? Magari si sentisse in colpa. Magra consolazione, sarebbe il minimo: mi ha rovinato, ma neppure questo. E poi è fuori. Rifletteteci un attimo, vi sembra che paghiamo nello stesso modo? Sta peggio lui? Lui che non ha più una moglie, e morto un papa se n’è sempre fatto un altro, o io, che oltre a non potere avere un amore, abito a casa del diavolo? Si rifarà una vita, Orfeo. Chissà quante donne ha già commosso con quella sua voce stridula.. E chissà quante lo stanno già consolando. “Poverino, Orfeo dal cuore tenero, quante ne hai passate, sei un uomo così sensibile, un uomo d’altri tempi che al giorno d’oggi è difficile trovare.” Alla storia avete consegnato le sventure di un poeta e non quelle di una ninfa, questa la vostra colpa. E oltre all’abituarmi a vivere qui, ecco cosa devo, voglio fare. Si tratta del mio testamento. Di consegnare alla storia un uomo immacolato non ne ho voglia. Mio dovere è lasciare all’umanità la verità. Consideratelo un ultimo gesto rancoroso, come volete, tanto lo faccio lo stesso. Il mio matrimonio con Orfeo non è mai stato felice. Lui, un artista reazionario e vecchio dentro, pieno di sé e impettito dalle continue lusinghe che riceveva. Io, una ninfa, bellezza la mia che, secondo lui, era sinonimo di purezza. Solo secondo lui però. Orfeo voleva che io vivessi come una madonna e mi trattava proprio come un’icona, ricoperta di una santità che mi è sempre risultata un po’ comica un po’ disgustosa, decisamente falsa. Uno stoicismo il suo che io mi divertivo a osservare perseverando nei miei sani vizi. L’atarassia praticava, mentre io davanti a lui gustavo nettare e fichi. La sera fumavo in terrazza, mentre mio marito scuoteva la testa, io gli sorridevo sorniona. Per cibare l’anima, privava il corpo. Secondo la sua particolare religione però il sesso era atto catartico. Ovviamente le decisioni le prendevo io; la sua esigenza di abluzione nell’amore non coincideva con il mio desiderio: poteva tranquillamente continuare a lavare l’anima digiunando.
Col passare degli anni mi sembrava che lui invecchiasse e io ringiovanissi. Lo vedevo proprio come un vecchio. E non provavo alcun desiderio per lui. Fu allora che conobbi Aristeo. Allevato dalle ninfe, un uomo molto più vicino a me per carattere e inclinazione. A noi due piaceva, semplicemente, vivere. E io mi accompagnavo al cantore della rinuncia. Lontani, io e Aristeo dalla contemplazione della vita sacrificata. Due viveurs. E non si può nemmeno dire che fossimo amanti. Avevamo un altro modo di fare l’amore. Con Aristeo fu intesa immediata. Passavamo serate a passeggiare lungo la riva del fiume. Parlavamo di tutto, dagli argomenti più frivoli a quelli più seri. Ridevamo tanto. Due viandanti sul sentiero di Bacco che si abbandonavano senza resistenze alla felicità dei momenti. Per questo non avevo ragione di nasconderlo a Orfeo, che ormai diventava più un padre che un marito. Così il vecchio assisteva incredulo a intere nottate in cui due giovani seduti sulla pietra, che a sera rilasciava sul corpo il calore di cui si era riempita nelle ore diurne, sulla pietra calda dei gradini, ebbri di vino e di spensieratezza ridevano all’unisono, gioendo dell’essere al mondo e di esserci insieme. I vicini iniziavano a mormorare. Da buon borghese, quale è, Orfeo indossò i panni del risentito, non aveva la capacità di muovermi accuse. Ormai mi ero conquistata la mia libertà, non poteva dirmi che il mio comportamento era disdicevole, gli avrei riso in faccia. Gli ero sfuggita di mano. Sono un pesce, continuavo a ripetergli, e un tempo lo divertiva. Ora capiva che era vero: non sarebbe riuscito ad agguantarmi, solo per il segreto desiderio che nutriva di farlo, non glielo avrei mai permesso. Gli dei ammiravano il mio vivere. Non facevo davvero nulla di male con Aristeo, non si può accusare una donna di vivere felicemente, di vivere, semplicemente di vivere. Orfeo provò a convincermi che la mia amicizia sarebbe finita, che il giovane non voleva da me se non sedurmi. La mia reazione urtava i suoi nervi: alzavo gli occhi al cielo e facendo spallucce piegavo la bocca in un sorriso provocatorio. Facevo cadere la sua celebre pazienza, distruggevo la sua indole pacifica, “guardala bene la tua religione orfica” faceva eco il mio sguardo “se n’è andata a farsi fottere”. E mi dava gusto osservare gli sforzi inauditi che faceva per fare finta di essere sereno. Non sia mai che qualcuno dica in giro che Orfeo il manico di scopa si è finalmente lasciato andare. Preferiva fingere lui, e struggersi dentro. Il problema comunque era tutto suo, io la notte mi addormentavo beatamente dopo essermi scolata una brocca di vino col mio compagno di giochi. Lui digrignava i denti e fissava il soffitto con gli occhi aperti dai nervi. Aveva una gran voglia di picchiarmi, lo vedevo, gli prudevano le mani. “Buona notte Orfeo”, con la mia faccia da schiaffi più bella. E io con Morfeo e sognavo e lui sveglio e con le Erinni. Sarà di certo in una di quelle notti insonni che il suo odio castrato si risolse nella soluzione di abbandonare per un attimo la sua aura di ipocrita rettitudine, ma di farlo in silenzio, pianificando tutto nei dettagli, per uscirne così pulito da sembrare pulito anche ai suoi occhi. L’occasione non gli si presentò nell’immediato. Orfeo aveva bisogno della situazione ideale, non tanto per far credere a tutti di essere nel giusto, ma per farlo credere a se stesso. Non doveva sembrare un incidente, doveva essere un incidente. E fu un incidente, come voleva lui. Io e Aristeo stavamo quel pomeriggio d’agosto camminando tra gli ulivi, lui conosceva bene l’arte di fare l’olio e mi mostrava le olive più verdi e pronte al frantoio. Tra quegli alberi dai folti rami, in quelle terre che conoscevamo come le nostre tasche, iniziammo a giocare a nasconderci e poi a rincorrerci. Lo sguardo cattivo di Orfeo, lo so, malediceva le nostre sguaiate risa giovani, disdicevoli perché alla luce del sole. I panni sporchi si lavano a casa, se si devono lavare, sennò si mettono in un cassetto, purchè nessuno li veda. Potevo anche fare l’amore con Aristeo, ma in silenzio, senza farlo sapere.
Fu lui, il mio buon marito, l’uomo che tutti voi stimate e ricordate, a mettere in un uliveto edenico, tre serpi. Una per ogni sentiero che abitualmente prendevamo. La sensazione di una scossa. Di un coltello che veloce entra ed esce dalla pelle. E caddi. La prima caduta. Mi raccolse l’amico mio, l’ultimo ricordo alla luce del sole, i suoi occhi sinceri, spalancati, che guardavano i miei, chiudersi. Solo un attimo in più avrei voluto, per dirgli grazie. Grazie di non avermi lasciato nelle mani di un sacerdote del dovere. Grazie di avermi reso la vita dolce come le more.. Ma del resto sono qui per questo: la verità sarà il mio testamento, la verità che è il bene più grande che possiedo. Caddi per la seconda volta, per la prima volta all’inferno, senza nemmeno aver stretto Aristeo in un abbraccio, per salutarlo.
Dopo avermi ucciso, Orfeo si mise a fare ciò che conosceva meglio: pianse. Cantò di me, del suo amore per me, del suo dolore per la mia perdita e di altre cazzate simili. Ora erano le mie mani a prudere. E all’inizio ciò che mi distraeva dalla presa di coscienza della fine, era l’odio per quell’infame. Saremo in basso, ma ci è dato di vedere tutto da qui. E io vedevo Orfeo piagnucolare, falso come Giuda, mettersi in bocca il mio nome, “mia moglie”diceva. Aristeo gettò una pietra contro la sua finestra una notte, questo gesto mi commosse a tal punto da farmi piangere. Non piangevo da anni. E avevo iniziato. Non smisi, guardai le mie mani e i miei piedi e le fiamme e vidi la vita che procedeva come la negazione della vita. E diventarono lacrime per me. Giacevo lì sotto mentre lui dopo anni dormiva sereno. Assassino e cittadino irreprensibile. La messinscena della mia morte era stata messa a punto perfettamente. Bravo Orfeo, buona la prima. Solo che a Persefone di non sentire più le mie risate allegre dispiaceva un po’. Aristeo restava da solo in riva al lago, non a piangere; i gesti plateali non sempre sono i più pieni, ma rifletteva; il suo sguardo perso nel vuoto commosse Ade. Tuo marito rimane pur sempre Orfeo, mi disse la regina degli inferi. A lui e a lui solo posso dare la possibilità di riportarti in vita. Che io non sia mai uscita di qui, è un dato di fatto. Un’altra verità è che Orfeo ha trovato il modo di uccidermi di nuovo: senza rinascere sono morta due volte.
Aspettò quanto basta per farmi sperare che la mia libertà fosse possibile. Voltandosi, ho scorto sul suo viso, un sorriso. E la mia terza caduta. Avrà detto che era la felicità di rivedermi, è un calcolatore, nessuno riesce a fargli le scarpe facilmente. Il senso di rabbia per non potere io uccidere quell’essere immondo mi ha fatto ragionare su come poterlo distruggere da qui. Me voilà. Dopo giorni la cosa più ovvia è affiorata nella mia testa. Tutto ciò in cui crede Orfeo è la bella apparenza. Lui, l’integerrimo marito, in prima fila nella preghiera, uomo impeccabile in qualunque cosa intraprenda. Una penna, Proserpina, dammi una penna per favore. La dea annuisce silenziosa, si è accorta, almeno lei, che ciò che sembra non è ciò che è. Fai volare Proserpina, su tutti i cieli, queste parole. Dì a Zefiro di riempire il vento di queste parole, a Iride di incidere nei colori dell’arcobaleno queste parole.

Alle mie amiche ninfe: i colori dell’argilla e il profumo dei fiori di zagara.
Ad Aristeo: voglio solo che tu sappia che osservando da quaggiù il tuo sorriso, sorriderò anch’io.
Et dulcis in fundo: questa è la lettera di raccomandazione per la tua infelicità, Orfeo. Che tu possa, guardandoti allo specchio, vedere il verme che sei, che possano vederlo tutti e ricoprirti di pubbliche infamie, ma soprattutto che possa vederlo tu. Ti regalo la verità, sacerdote del falso, ti piace?

Un altro estratto di Funambole lo potete trovare sul sito di Scrittori Precari

Posted in AntiAutoritarismi, Personale/Politico.

Tagged with , , , .


2 Responses

Stay in touch with the conversation, subscribe to the RSS feed for comments on this post.

  1. SaraPulitaDiSale says

    É un libro bellissimo. Tutti i racconti meritano (anche se ho un debole per “Penelope”… com’è difficile aspettare,se l’attesa ti viene imposta…). So che si trova in qualche libreria che distribuisce l’editore (io l’ho preso a Tra le Righe, a Pisa) o sul sito http://www.delbucchia.it. Vivi,se anche tua sorella viene conquistata, facci sapere. Uno spettacolo su “Funambole” non me lo perderei mai! ‘ Notte!!!

  2. vivi says

    Sappi che ti amerò sempre per tutti i testi che mi fai conoscere :*** L’ho appena consigliato anche a mia sorella, nella speranza che gli venga lo sfizio di metterlo in scena ^_^
    Come posso ottenere questo libro?
    un bacione grande a tutt@