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(In)sofferenza di genere.

Riportiamo di seguito le riflessioni di Odette: 

 

Da che io ricordi, sono sempre stata insofferente al mio genere. O meglio, alle costruzioni culturali che ci sono sopra-sotto-intorno ad esso: gonne e bambole da una parte, macchinine e calcio dall’altra. Finivo così per autopropormi, da figlia unica, giochi misti in cui c’erano bambole e macchinine, a casa, mentre a scuola tentavo di partecipare a giochi tradizionalmente maschili, come il calcio (ma finivo sempre in porta). Inutile dire che sia coi maschi che con le femmine non andavo d’accordo, i primi perché non sopportavano l’insubordinazione, le seconde perché la vivevano come un tradimento del “patto di genere”. Io ci stavo male ma a loro non fregava niente. Solo due bambini mi capivano: una femmina che però sembrava un maschio, S., e un maschio che però sembrava una femmina, G. Nessuno dei due era lesbica o gay e nemmeno lo è diventato in seguito, semplicemente era una questione di aspetto. Con loro, devo ammetterlo, mi riuscì di instaurare forse la mia prima relazione politica della mia esistenza. Eravamo compagni in lotta contro il genere, anche se non lo sapevamo.

Crescendo devo dire che le cose non sono andate meglio, anzi.

Se non ti senti né maschio né femmina, comunque, da adolescente ti puoi travestire,perché è culturalmente accettato. Sono stata, quindi, non nell’ordine e spesso in simultanea: punk, gothic, metallara, tendente al freakkettume, e quasi sempre un ibrido tra tutto ciò, perché non avevo i soldi per comprarmi i vestiti nuovi ogni volta che cambiavo gusti. Questo ibrido mi ha permesso di sopravvivere indenne fino a diciotto anni circa senza pormi il reale problema di chi io fossi, ma sicuramente facendomi capire chi io nonfossi: non ero come le mie compagne di classe, ma non ero nemmeno come i maschi, che però sentivo più simili a me. Ho avuto una sola vera amica, al massimo due in tutta la mia adolescenza, il mondo femminile in genere non mi è mai piaciuto perché si proponeva come “da accompagno” a quello maschile, mentre quello maschile era molto più emancipato, e certamente anche più sfruttatore, di quell’altro. Mettersi dalla parte degli sfruttatori perché si hanno altri cazzi per la testa, a quindici anni, è abbastanza semplice, e io l’ho fatto: ho deciso che il mondo femminile faceva decisamente cacare, e che il maschile-oppressore (che di oppressore non lo è per Natura, ma solo per Cultura, ma quella è la cultura che circola) faceva molto più per me, che però non è sempre oppressore, lo è sempre solo nei confronti delle proprie e delle altrui debolezze, che vanno censurate in qualsiasi circostanza – e questo per me è stata la causa di un problema non indifferente che mi ritrovo a dover affrontare oggi.

Ora va di moda parlare di adolescenza lunga (e le cause sono tante e complesse, una su tutte il precariato, che però secondo me nasconde molto altro – ma magari ne parlerò un’altra volta, di questa cosa), ci sono giovani che non vogliono accettare che l’adolescenza è finita e che la Cultura dominante non ti permette più di travestirti per poter nascondere chi sei davvero, e che con il sopraggiungere della famigerata età adulta tutto ciò che per una vita hai tentato di evitare ti casca addosso e ti chiede di metterti o da una parte o dall’altra. O coi maschi o con le femmine. O uomo o donna.

Questa, nella maggioranza dei casi, non è una scelta. O sei maschio o sei femmina. Ecco, però io vedo chiaramente che c’è come un Vestito che mi vogliono far infilare per forza, come una camicia di forza, che nel mio caso dovrebbe avere le caratteristiche del carattere femminile stereotipato, carattere che non mi va nemmeno di descrivere perché lo stereotipo femminile lo conosciamo tutti, che ci stia bene o no.

Devo ammettere che mi sono ritrovata a soffrire tantissimo per questo Vestito che, dove mi giro mi giro, mi vogliono infilare per forza addosso, e non parlo solo della Famiglia (che anzi sembra l’unica ad essersi in un certo qual modo rassegnata alla mia diversità), ma parlo proprio dei miei coetanei, maschi e femmine, parlo delle persone che incontro all’Università, dei vicini di casa, di tutto il mondo che nella quotidianità incrocio per strada – e, ovviamente, anche dei professori, che non hanno più assolutamente idea di come trattare i maschi e le femmine, per cui, per non sbagliare, adottano i soliti stereotipi.

Parlo dei dottori, dei ginecologi, degli psicologi. Parlo di chi mi spilla la birra al pub, dei venditori, dei giornalisti, di chi mi paga du’ spicci per un lavoro di merda e di chi mi vuole affittare una casa a prezzi esorbitanti. Parlo di tutte queste persone che danno per scontato che io sono quel tipo di Donna lì, e mi proiettano nel futuro pensando che un giorno dovrò per forza avere dei figli, un marito ed essere felice per questo!

 

Se, ora, io rifletto sul mio futuro vi dirò che non ci vedo né mariti né figli, anzi, vorrei solamente avere la certezza di avere una casa, ove anche lì sul concetto di casa ci sarebbe parecchio da discutere (magari lo farò un’altra volta), insomma, vorrei avere un tetto sopra la testa. Vorrei vivere non da sola, mi piacerebbe anzi vivere con altre persone ma che non siano vincolate a me da una specie di proprietà che molti chiamano amore ma questo poi non è. Il fatto, ecco, è che invece sembra che in quel Vestito di cui sopra, vi sia cucita sopra anche la gestione della casa e della famiglia, il trattamento dell’Uomo-Marito come un eterno bambinone deresponsabilizzato, e i figli come persone eternamente non all’altezza di -.

[Ovviamente dall’altra parte converrebbe che anche i maschi (biologicamente parlando, s’intende) riflettessero se gli va bene questo ruolo che l’amorevole Società capitalista e patriarcale riserva loro.]

Mi piacerebbe avere la libertà di immaginarmi un futuro come lo voglio io, e di interfacciarmi con la società in maniera più libera possibile, senza dover sempre chiedere scusa se non mi riconosco in quello che stai dicendo, o, peggio, citare Judith Butler (che purtroppo in pochi conoscono), e per inciso, mi sembra che nel movimento femminista vi sia una tendenza a citare teorici e teorie in continuazione, tirando fuori nozioni abbastanza complesse che le persone (anche quelle di cui si parla) fanno molta fatica a capire, e trattare quelle stesse persone come concetti astratti, mentre gli esseri umani che non si sentono parte di un genere, – che non si sentono né maschi, né femmine, non sono eterosessuali (cosiddette queer) – sono comunque fatte di carne e muscoli e sangue e soffrono, spesso, perché ogni risposta alla loro unica pretesa di non voler essere ficcati a forza in quel cazzo di vestito è: “ma quanti problemi che ti fai!”.

Eh già, guarda un po’, perché se a ventidue anni ti dico che non mi sento né donna né uomo e soffro ad essere trattata come una futura-massaia o una futura-donna-emancipata-in-carriera, ti dico che sì che di problemi me ne faccio, me ne faccio un sacco perché ti dico che io non mi riconosco né in quel modello né in questo modello, di modelli non ne ho, anzi, sono un essere umano in costruzione – so che è difficile da capire, ma non si può continuare a far finta che si parla di tutti, che tutti esistano, perché non è così. Chi non si riconosce nel modello uomo-donna, non esiste. Non esiste nei discorsi, nei progetti, nella politica, nella letteratura della maggioranza delle persone che vivono su questo pianeta, e per un po’ ci puoi convivere, si può anche capire che “certi discorsi sono complicati da far capire a tutti”, ma ad un certo punto non ti ritrovi nel mondo, ti guardi allo specchio e non esisti, e io devo dire che esisto, esiste questa persona che soffre perché è invisibile, ed è invisibile perché alla maggioranza delle persone non importa niente di come stai, alla fin fine: anche negli ambienti politici è davvero difficile trovare qualcuno che ti chieda come ti senti, se è tutto apposto, se hai problemi, se hai bisogno di una mano. C’è l’o.d.g. e solo quello, ecco cosa. Se ci fossero più persone a pensare meno all’odg e a chiedere di più come stai, ad invitarti fuori per una birra, io penso che si farebbe una politica migliore, e che l’odg ne uscirebbe arricchito, se proprio ci teniamo tanto ai programmi e alle scalette. Che i rapporti umani ormai si siano impoveriti mi pare chiaro a chiunque, però che debba essere la norma, questo no.

E scrivo tutto questo non per rivendicare chissà che, o meglio, quella che non mi sembra essere una gran cosa, ma semplicemente per rivendicare la libertà di essere come sono, e di riconoscere il diritto altrui a boicottare i modelli di maschio e femmina attualmente in circolazione come un’azione politica, non solo personale. Come un modo diverso per vivere la propria vita, per immaginarsi nel futuro, per amare.

Per non dover assumere sempre una posa di granito, per poter lasciarsi andare, amare, e fare tutto quello che fanno tutti senza dover spiegare sempre che costringere una persona in uno stereotipo è fargli una violenza. E lo è anche tenersi dentro tutto per anni.

Posted in Critica femminista, Scritti critici, Sessismo.