Ivane Uscar ha lasciato su questo blog un commento che mi è piaciuto molto. Lo ripropongo come post perché dice cose che avrei voluto dire meglio e non sono stata in grado di dire. Lo ha fatto lui per me.
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Da quando l’ho scoperto sulla Rete, considero questo blog un laboratorio di discussione e riflessione fra i più acuti e aperti; non ho mai trovato dogmatismo qui, mai posizioni preconcette, ma sempre disponibilità al dialogo, alla comprensione delle tesi e posizioni degli altri. Ritengo da sempre questo blog uno degli “spazi virtuali” esemplari per capacità di chiarezza, per finezza dell’analisi e per ricchezza di contenuti; condivido l’impostazione di fondo del blog, che mira a una trasformazione della cultura (la decostruzione e “rottamazione” del patriarcato) e non a una lotta contro le persone in quanto tali; e anche l’idea del collettivo, dello “spazio comune” (di confronto, condivisione, ecc.), per quel poco che so e ho potuto capire di Femminismo a Sud (come semplice lettore), mi sembra qui messa in pratica con coerenza e con successo.
Delle accuse che sono state mosse a FS so solo quel che ho potuto leggere tramite i link che ho trovato in questo stesso blog; non posso entrare nel merito, tuttavia accusare il collettivo di FS di “fanatismo” o “dogmatismo”, o peggio di “intolleranza”, mi sembra del tutto fuori luogo, persino insensato.
Non mi piace la logica della trincea. Non mi piacciono le logiche “guerresche” in genere.
Mi è parso di capire che FS sia stato messo sotto accusa per “intelligenza con il nemico”, tipico “reato di guerra”. Ma si può interpretare la realtà in questo modo, secondo una semplice logica binaria “amico/nemico”? A mio avviso no!
L’idea secondo la quale *chi non la pensa esattamente come me è nemico*, oppure l’idea per cui *dall’altra parte della barricata c’è il nemico, e col nemico non si può discutere, ha sempre torto a prescindere* riducono ogni discussione alla “logica amico/nemico”, cioè alla semplice “logica guerresca”, che è un modo di semplificare la realtà, distorcendola o a volte fraintendendola, per puri scopi tattici: è più comodo, dal punto di vista pratico, non confrontarsi mai con gli altri, e procedere a testa bassa verso la “meta”, convinti di avere sempre ragione al cento per cento (e di non aver quindi bisogno di ascoltare nessuno); peccato però che così facendo si perda progressivamente la visione della realtà (che non è fatta solo di un contrasto “bicromatico” fra “bianco” e “nero”, così comodo nella logica guerresca, ma è invece ricca di infinite sfumature cromatiche) e si tenda fatalmente ad assumere un atteggiamento intransigente sì, ma dogmatico, al quale si lega strettamente una certa tendenza a scomunicare chiunque provi a manifestare dubbi e/o dissensi, anche timidi e parziali, rispetto alla “linea” prestabilita. Ogni “dissidente interno/a” viene considerato “più pericoloso/a del nemico esterno”, viene accusato/a di essere la fantomatica “quinta colonna”… e via di questo passo.
Mi spiace dirlo, ma in questo modo il dibattito non è più tale, diventa la riproduzione in sedicesimo della “guerra senza quartiere” (per definizione “cieca”), che porta con sé un circuito velenoso di manie di persecuzione e paranoie assortite; e si perdono di vista il vero centro della questione, l’oggetto del contendere, il “focus” della discussione… e perciò l’intelligenza stessa del confronto.
A parte ogni altra considerazione, poi, una discussione, un confronto di idee, sia pure serrato e vivace, non può trasformarsi in una guerra nella quale, scavata la propria trincea, si costringe anche il “nemico” a crearsi la propria, per difendersi (e, prima ancora, si costringe l’interlocutore a entrare nel ruolo del “nemico”: ed è anzi già questa “costrizione al ruolo” il primo passo della violenza). Ho visto negli anni troppe discussioni, generate da dissensi che qualcuno giudica “intollerabili” (e perché?), trasformarsi in “guerre” cruente di questo tipo.
Sì, guerre, e per giunta cruente. Anche le parole possono trasformarsi in veicoli di odio e in strumenti di violenza. Accade quando le parole vengono utilizzate non per replicare alle tesi dell’interlocutore o per “decostruirle”, bensì per diffamare e dileggiare l’interlocutore, l’altro/a, per screditarlo/a sul piano personale. Attaccare violentemente la persona in quanto tale, sbeffeggiarla, additarla al pubblico ludibrio, per sminuire i suoi pensieri, per evitare di confrontarsi col merito delle questioni che la persona pone: quante volte mi è capitato di assistere a questo scorretto, machiavellico (in senso deteriore) “gioco al massacro”… Ebbene, questa per me *è violenza*, è sopraffazione. Ma perché un dissenso deve trasformarsi in odio mortale, in lotta senza quartiere? E perché questo avviene anche all’interno di movimenti che si dichiarano “a favore della pace, del dialogo, della comprensione, contro la violenza”, eccetera?
(Sono domande che continuo a pormi da tempo, non solo in riferimento a questa vicenda, ma anche in relazione a varie “lotte intestine” che hanno dilaniato nel tempo alcuni soggetti che si ponevano a vario titolo come “antagonisti”, alternativi, ecc., spesso finiti nella spirale fratricida della “logica amico/nemico”, che li ha ridotti ai minimi termini).
Per tutto ciò che ho detto, auguro a FS di continuare a esistere, ed esorto il collettivo e il blog a perseverare nel loro metodo del dialogo “non-dogmatico” che però non sacrifica mai la chiarezza delle idee e dei princìpi.