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Verso un ecofemminismo queer

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di Greta Gaard

Verso un ecofemminismo queer

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Ottobre 2011

Fotocopia e diffondi! Nessun copyright Per contatti: fuckgender@riseup.net

Articolo pubblicato originariamente su “Hypatia”, volume 12, numero 1. Anno di pubblicazione 1997. Pagina numero 137 e seguenti.

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VERSO UN ECOFEMMINISMO QUEER

Nonostante molte ecofemministe riconoscano l’eterosessismo come un problema, manca ancora un’esplorazione sistematica delle potenziali connessioni tra le teorie ecofemministe e quelle queer. Analizzando le costruzioni sociali di ciò che viene descritto come “naturale”, i vari utilizzi del cristianesimo per logiche di dominio, e la retorica del colonialismo, que- sto saggio cerca quelle interconnessioni teoriche e spinge sull’importanza di sviluppare un ecofemminismo queer.

Le attiviste e studiose lamentano spesso, negli Stati Uniti, una mancanza di unità nei movimenti politici di opposizione, noti per i loro dibattiti e le loro conflittualità intellettua- li, che sono servite a dividere chi invece avrebbe potuto lavorare in coalizione: i lavoratori in lotta, gli ecologisti, gli attivisti per i diritti umani, le femministe, gli attivisti di liberazione animale, gli attivisti per i popoli indigeni, e gli attivisti gay/lesbiche/bisessuali/transgender (GLBT). Allo stesso tempo la destra conservatrice negli Stati Uniti non ha perso tempo a riconoscere le connessioni tra tutti questi vari movimenti di liberazione, e ha lanciato una campagna per assicurare la loro repressione collettiva. Come risultato, pare che il futuro dell’attivismo possa dipendere anche da come attivisti e studiosi sapranno riconoscere e articolare le basi per una lotta comune. Nella teoria e nella pratica, l’ecofemminismo ha già contribuito molto a questo sforzo.

Alle radici dell’ecofemminismo vi è il riconoscimento che vari sistemi di oppressione si rinforzano a vicenda. Prendendo spunto dall’analisi femminista socialista che vedeva razzismo, discriminazione di classe e sessismo come connessi, le ecofemministe hanno rico- nosciuto ulteriori somiglianze tra queste forme di oppressione umana e le strutture oppres- sive dello specismo e del dominio sulla natura. Uno degli impeti iniziali per il movimento ecofemminista fu la presa di coscienza del fatto che la liberazione delle donne – lo scopo di tutte le correnti del femminismo – non poteva essere completamente raggiunta senza la liberazione della natura; e allo stesso modo, la liberazione della natura così ardentemente desiderata dagli ecologisti non si realizzerà senza la liberazione delle donne: i collegamenti concettuali, simbolici, empirici e storici tra le donne e la natura così come sono stati costruiti nella cultura Occidentale richiedono alle femministe e agli ecologisti di affrontare questa lotta di liberazione insieme, se vogliamo vincerla (Warren 1991). Fino ad oggi, la teoria ecofemminista ha esplorato le connessioni tra diverse tematiche: razzismo, devastazione ambientale, economia, politica elettorale, liberazione animale, politica riproduttiva, biotec- nologie, bioregionalismo, spiritualità, pratiche di medicina naturale, agricoltura sostenibile, e altro. Le attiviste ecofemministe hanno lavorato nei movimenti ecologisti, contro le noci- vità, nel movimento delle donne, in quello di liberazione animale, e nel movimento contro il capitalismo. Per continuare a costruire delle coalizioni, mi piacerebbe esplorare in questo saggio la connessione tra l’ecofemminismo e la teoria queer.

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“Abbiamo esaminato come il razzismo, l’eterosessismo, la discriminazione di classe, la discriminazione in base all’età, e il sessismo fossero tutti collegati al dominio della natu- ra”, scrive l’autrice ecofemminista Ellen O’ Loughlin (1993, 148). Chaia Heller va oltre: “L’amore per la natura è un processo di presa di coscienza e di decostruzione delle ideologie del razzismo, del sessismo, dell’eterosessismo, della discriminazione basata sull’età, così che possiamo smettere di ridurre la nostra idea di natura a quella di una bellissima donna, madre, eterosessuale” (1993, 231). Ma come Catriona Sandilands astutamente commenta: “Non è abbastanza aggiungere “eterosessismo” alla lunga lista di forme di dominio che dan- no forma al nostro rapporto con la natura, e aggiungere “queer” tra le categorie oppresse” (1994, 21). Sfortunatamente, è proprio questo l’approccio che ha caratterizzato la teoria ecofemminista finora, e questa è la ragione per cui credo sia ora per i queer di uscire dai boschi e parlare per noi stess*. 2

Lo scopo di questo saggio è dimostrare che per essere veramente inclusiva, ogni teoria ecofemminista dovrebbe prendere in considerazione le scoperte della teoria queer; in ma- niera simile, la teoria queer dovrebbe prendere in considerazione le scoperte dell’ecofemmi- nismo. A questo scopo, esaminerò varie intersezioni tra l’ecofemminismo e la teoria queer, dimostrando che una società libera ed ecologica, ovvero l’obiettivo dell’ecofemminismo, sarà necessariamente una società che valorizza la diversità e l’erotismo.

SESSUALIZZARE LA NATURA, NATURALIZZARE LA SESSUALITA’

Il primo argomento che lega l’ecofemminismo e la teoria queer è basato sull’osserva- zione del fatto che la svalutazione operata dalla cultura dominante Occidentale rispetto all’erotismo è parallela alla sua svalutazione delle donne e della natura; in effetti, questi tipi di svalutazioni si rinforzano vicendevolmente. Questa osservazione può essere tratta dalle critiche ecofemministe che descrivono i dualismi normativi, e analizzano il pensiero gerarchico e le logiche di dominazione che insieme caratterizzano il quadro ideologico della cultura Occidentale. Come spiega Karen Warren, i dualismi di valore sono modi di organizzare concettualmente il mondo in termini binari e disgiuntivi, laddove ogni lato del dualismo è “visto come esclusivo (piuttosto che inclusivo) e oppositivo (piuttosto che complementare), e dove un maggior valore o una maggiore superiorità vengono attribuiti a un lato del dualismo piuttosto che all’altro”. (1987,6). La critica alla filosofia Occidentale realizzata nel 1993 da Val Plumwood riunisce le caratteristiche più salienti di queste ed altre critiche ecofemministe in quello che lei chiama il “modello del padrone”, l’identità che è al centro della cultura Occidentale e che ha dato vita, perpetuato, e beneficiato dall’aliena- zione della cultura Occidentale e dal dominio della natura. L’identità del padrone, secondo Plumwood, crea e dipende da “una struttura dualistica di alterità e negazione” (1993, 42). Gli elementi chiave in quella struttura sono le seguenti serie di coppie dualistiche:

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cultura/natura ragione/natura maschio/femmina mente/corpo (natura) padrone/schiavo ragione/materialità (fisicità) razionalità/animalità (natura) ragione/emozione (natura) mente, spirito/natura libertà/necessità (natura) universale/particolare umano/natura (non-umano) civilizzato/primitivo (natura) produzione/riproduzione (natura) pubblico/privato soggetto/oggetto

sé/altro (Plumwood 1993, 43)

Plumwood non pretende completezza per questa lista. Nei paragrafi che seguono, of- frirò un certo numero di ragioni per cui l’ecofemminismo dovrebbe includere i dualismi di bianco/non-bianco, potente economicamente/povero, eterosessuale/queer, e ragione/eroti- smo. 3

Le ecofemministe hanno svelato un certo numero di caratteristiche che riguardano la struttura interconnessa del dualismo. Per prima cosa, le filosofe ecofemministe hanno mo- strato che la pretesa di superiorità è basata sulla differenza tra “sè” e “Altro”, manifestata con l’affermazione della piena umanità e ragione che il sé possiede e di cui l’altro mancherebbe. Questa presunta superiorità del sé, oltretutto, è usata per giustificare la subordinazione dell’Altro (Warren 1990, 129; Plumwood 1993, 42-47). Poi le ecofemministe hanno la- vorato per mostrare le connessioni all’interno della categoria devalorizzata dell’“Altro”,

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dimostrando come l’associazione di qualità da un gruppo oppresso all’altro serva per rin- forzare la loro subordinazione. I collegamenti concettuali tra donne e animali, le donne e il corpo, o le donne e la natura, per esempio, servono tutti ad enfatizzare l’inferiorità di queste categorie (Adams 1990; 1993). Ma mentre tutte le categorie dell’Altro condividono questa qualità del venire femminilizzate, animalizzate, o naturalizzate, le ecofemministe so- cialiste hanno rigettato ogni affermazione di primato per una forma di oppressione rispetto all’altra, scegliendo invece di considerare come tutte le forme di oppressione siano oggi così inestricabilmente legate che le lotte per la liberazione devono essere indirizzate alla distru- zione del sistema stesso. C’è una mancanza teorica, però, quando riscontriamo che le poche ecofemministe che menzionano l’eterosessismo nella loro lista di oppressioni umane non hanno ancora portato avanti un’analisi reale del dualismo eterosessuale/queer. In alcuni casi, lo stesso discorso può essere fatto per il dualismo bianco/non bianco. Questa omissione è un serio errore concettuale, poiché il dualismo eterosessuale/queer ha permeato la cultura Occidentale utilizzando il marchio di questi dualismi normativi, secondo la teorica queer Eve Kosofsky Sedgwick (1990, 11).

Le scoperte della Sedgwick trovano una netta risonanza con la teoria di Plumwood dei postulati che connetterebbero i dualismi sia “orizzontalmente” che “verticalmente”. Questi postulati includono:

1- Backgrounding, in cui il padrone dipende dai servizi dell’Altro e allo stesso tempo nega la sua dipendenza;

2- L’esclusione radicale, in cui il padrone amplifica le differenze tra sé e l’Altro e mini- mizza le qualità condivise;

3- L’incorporazione, in cui le qualità del padrone sono considerate lo standard, e l’Al- tro è definito nei termini del suo possedere o meno queste qualità;

4- La strumentalizzazione, in cui l’Altro è costruito come se non avesse uno scopo o un senso, se non quello di servire da risorsa per il padrone;

5- L’omogeneizzazione, in cui la classe dominata degli Altri è percepita come unifor- memente omogenea (Plumwood 1993, 42-56); 4

Le persone queer sperimentano su di sé il backgrounding, l’esclusione radicale, e l’in- corporazione. Come sostiene Sedwick, l’identità eterosessuale è costruita attraverso una dipendenza negata dall’identità omosessuale/queer (backgrounding). In termini di esclu- sione radicale, le persone queer trovano che l’erotismo (un tipo di erotismo particolarmente perverso) sia proiettato sulla sessualità queer a un livello tale che questa qualità è vista come l’unica caratteristica saliente delle identità queer. Quando le persone queer sono dichiarate, frequentemente gli eterosessuali pensano di sapere tutto quello che c’è bisogno di sapere di noi una volta che conoscono la nostra sessualità. In termini di incorporazione, è chiaro che

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l’eterosessualità e le identità di genere che le sono associate sono prese come lo standard nella cultura dominante Occidentale, e i queers sono definiti principalmente in relazione a quello standard, e al nostro fallimento ad aderguarcisi.

Ma il problema dell’oppressione basata sulla sessualità non si limita al dualismo etero- sessuale/queer. Come hanno mostrato le teoriche queer, il problema più grande è la fobia dell’erotismo tipica della cultura Occidentale, una paura dell’erotismo così forte che solo una forma di sessualità è apertamente concessa; solo in una posizione; e solo nel contesto di alcune condizioni legali, religiose e sociali (Hollibaugh 1983, 1989; Rubin 1989). L’oppres- sione delle persone queer può essere descritta più precisamente come il prodotto di due for- me di dualismo che si rinforzano reciprocamente: eterosessuale/queer e ragione/erotismo.

Come ha abilmente dimostrato Plumwood, l’oppressione della natura nella cultura Oc- cidentale può essere rintracciata nella costruzione dell’umano maschio dominante come es- sere definito dal suo possedere la ragione, e la costruzione della ragione come per definizione opposta alla natura e a tutto quello che è associato alla natura, tra cui le donne, il corpo, le emozioni, e la riproduzione (Plumwood 1993). Le femministe hanno anche sostenuto che l’oppressione delle donne nella cultura Occidentale è caratterizzata dall’associazione della donna alle emozioni, al corpo, e alla riproduzione, e hanno risposto a queste associazioni in tre modi diversi. Alcune hanno rigettato queste associazioni e hanno cercato di allinearsi con la sfera maschile pubblica della razionalità (femministe liberali). Altre hanno invertito

la valorizzazione e accolto queste contrario la cultura razionale In contrasto con queste, le eco- una “terza strada”, che rigetta la sia gli uomini che le donne come (Warren 1987; King 1989; Plu- Gaard 1994). Come sviluppo una teoria ecofemminista queer usando sia le teorie queer sia l’oppressione dell’erotismo. Anche sembra essere un aspetto del dua- il dualismo eterosessuale/queer è poiché è soltanto nel secolo scorso che si sono sviluppati i concetti di identità omoses- suale ed eterosessuale (Smith 1989; Katz 1990). Una prospettiva queer ecofemminista sosterrebbe che i dualismi ragione/erotismo ed eterosessuale/queer sono ora diventati parte dell’identità del padrone, e che smantellare questi dualismi è parte integrante del progetto ecofemminista.

Portare questi dualismi nella lista dei dualismi sé/altro e cultura/natura proposta da Plumwood è un primo passo per “queerizzare” l’ecofemminismo. Con l’aggiunta di questa prospettiva, le ecofemministe troverebbero molto fertile l’esplorazione delle associazioni

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associazioni, svalorizzando al maschile (femministe culturali). femministe hanno sostenuto struttura dei dualismi e riconosce parti uguali di cultura e natura mwood 1993; Gruen 1993; logico dell’ecofemminismo, porterebbe avanti queste analisi, quelle ecofemministe riguardanti se il dualismo ragione/erotismo lismo originario cultura/natura, uno sviluppo abbastanza recente,

“verticali” in entrambi i lati dei dualismi: le associazioni tra la ragione e l’eterosessualità, per esempio, o tra la ragione e l’essere bianchi, come definiti in opposizione alle emozioni e all’essere non bianchi; o le associazioni tra le donne, le persone di colore, gli animali, e l’erotismo. Da una prospettiva queer ecofemminista, poi, possiamo esaminare i modi in cui le persone queer vengono femminilizzate, animalizzate, erotizzate, e naturalizzate in una cultura che svaluta le donne, gli animali, la natura, e la sessualità. Possiamo anche esaminare come le persone di colore vengono femminilizzate, animalizzate, erotizzate, e naturalizzate. Infine, possiamo esplorare come la natura viene femminilizzata, erotizzata, resa perfino queer.

Il punto critico da ricordare è che ognuno dei gruppi di identità oppresse, ogni caratte- ristica dell’altro, viene vista come “più vicina alla natura” nei dualismi e nell’ideologia della cultura Occidentale. Ciononostante le sessualità queer vengono spesso svalutate per essere “contro natura”. Contraddizioni come questa non interessano a chi è dominante, anche se queste contraddizioni hanno un grande interesse per le femministe e le teoriche queer, che hanno sostenuto che proprio questo tipo di contraddizioni caratterizza le strutture oppressive (Frye 1983; Mohr 1988; Sedwick 1990).

Prima di lanciarci in un discussione sulle sessualità queer come “più vicine alla natura” e allo stesso tempo “crimini contro natura”, è cruciale riconoscere che la stessa sessualità è un fenomeno socialmente costruito che varia in definizione da un contesto storico e socia- le all’altro. Come gli studiosi di storia queer hanno mostrato, non esisteva il concetto di identità omosessuale nella cultura Occidentale prima della fine del diciannovesimo secolo (Faderman 1981; Greenberg 1988; Katz 1990; Vicinus 1993). Prima di allora, le persone parlavano (o non parlavano) di singoli atti omosessuali, devianza, e sodomia; le persone che compivano questi atti erano sempre presunte essere “normali” (la parola “eterosessuale” non esisteva). Quegli atti omosessuali erano puniti come eccessi peccaminosi, trasgressioni morali di ingiunzioni bibliche.

Il cambiamento che corre dal considerare il comportamento omosessuale un “peccato” al vederlo come un “crimine contro natura” cominciò nel diciassettesimo secolo. Intorno al 1642, i ministri delle colonie americane cominciarono a riferire delle “lussurie innaturali di uomini con uomini, o donne con donne”, “atti innaturali”, e atti “contro natura” (Katz 1983, 43). “Dopo la rivoluzione americana”, tuttavia, “la frase ‘crimini contro natura’ co- minciò ad apparire sempre più spesso nella giurisdizione, a intendere che gli atti di sodomia offendevano un ordine naturale più che il volere di Dio” (D’Emitio e Freedman 1988, 122). La distinzione naturale/innaturale aveva a che fare con la procreazione, ma perfino atti “naturali” che portavano alla procreazione potevano essere macchiati dalla lussuria e perciò non essere liberi dal peccato. La lussuria procreativa era comunque preferibile alla lussuria “innaturale” (Katz 1983, 43). Infine, un terzo cambiamento nella definizione dell’omoses- sualità avvenne verso la fine del diciannovesimo secolo. Attraverso il lavoro di sessuologi come Havelock Ellis, Magnus Hirschfeld, e Richard von Krafft-Ebing, il cosiddetto “in-

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vertito sessuale” divenne un’identità riconoscibile, e si credeva che l’origine dell’inversione sessuale si situasse nella psicologia dell’individuo. La parola “eterosessuale” apparve per la prima volta nei testi medici americani intorno al 1890, ma si diffuse nella stampa popolare soltanto nel 1926 (Katz 1983, 16) 5

Oggi, quasi trent’anni dopo la rivolta di Stonewall, che ha lanciato il movimento per la liberazione gay, la definizione delle identità queer è ancora in evoluzione. “Omosessua- le” è diventato “gay”, e “gay” è diventato “gay e lesbica”; i bisessuali fanno sentire di più la loro voce; e più recentemente, anche la liberazione transgender ha dato nuova forma alla comunità queer, cambiamenti che hanno portato molte organizzazioni a rimpiazzare “gay e lesbica” con “gay/lesbica/bisessuale/transgender” o semplicemente “queer” nella loro definizione. Il riconoscimento di varie identità e pratiche sessuali ha ispirato una rilettura non solo della storia eterosessuale o queer ma della storia della stessa sessualità. Basandosi su questi sviluppi storici, i teorici queer hanno determinato che le sessualità queer (sia le pratiche che le identità) sono state viste come trasgressive in almeno tre categorie: come atti contrari alla morale biblica, contro natura, o contro la psicologia. Perciò, le sessualità queer sono state viste come un problema morale, un problema fisiologico, o un problema psicologico (Pronk 1993). Nonostante tutti e tre gli argomenti siano usati oggi contro tutta una varietà di sessualità queer, l’argomento del “crimine contro natura” emerge per l’interesse che può avere per le ecofemministe.

I teorici queer che esplorano la dicotomia del naturale/innaturale trovano che “naturale” è invariabilmente associato con “procreativo”. L’equazione del “naturale” con il “procreati- vo” dovrebbe essere familiare a tutte le femministe, poiché questo tipo di affermazione è stata usata in tutta una serie di tentativi di relegare le donne alla maternità obbligatoria e alla cosiddetta sfera della femminilità. Da una prospettiva storica, l’equazione della “vera natura” della donna con la maternità è stata usata per opprimere le donne, così come l’equa- zione della sessualità con la procreazione è stata usata per opprimere sia le donne che le persone queer. L’accusa che le sessualità queer siano “contro natura” e quindi moralmente, fisiologicamente o psicologicamente depravate e di minor valore sembrerebbe implicare che la natura è valorizzata – ma come le ecofemministe hanno mostrato, non è questo il caso. Nella cultura Occidentale, è vero proprio il contrario: la natura è svalutata così come le persone queer sono svalutate. Si trova qui un’altra delle molte contraddizioni che caratterizzano l’ideologia dominante. Da un lato, da una prospettiva queer, impariamo che la cultura dominante accusa le persone queer di trasgredire l’ordine naturale, il che significa che la natura è valorizzata e bisogna obbedirle. Dall’altro lato, da una prospettiva ecofemminista, impariamo che la cultura Occidentale ha costruito la natura come una forza che deve essere dominata, per il prevalere della cultura. Portare queste prospettive insieme indica che, in effetti, la “natura” a cui le persone queer vengono spinte ad adeguarsi non è altro che il paradigma dominante dell’eterosessualità – un’identità e una pratica che è essa stessa una costruzione culturale, come hanno mostrato sia le teoriche femministe sia queer

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(Chodorow 1978; Foucault 1980; Rich 1986).

Ci sono molte falle nell’affermazione che le sessualità queer sono “innaturali”. La prima è che una tale affermazione non riflette accuratamente la varietà delle pratiche sessuali che si trovano nelle altre specie. Per esempio, si possono riscontrare comportamenti omosessuali femminili nelle galline, tacchini, camaleonti, e mucche, mentre comportamenti omoses- suali maschili sono stati osservati nelle mosche, lucertole, tori, delfini, foche e scimmie (Denniston 1965; Pattatucci e Hamer 1995). Uno studio dei comportamenti sessuali degli insetti svela che lo scorpione femmina uccide il maschio dopo il rapporto, il ragno vedova nera mangia il maschio dopo il rapporto, e la mantide religiosa talvolta mangia il maschio durante il rapporto. Alcuni animali sono ermafroditi (lumache, vermi di terra), mentre altre specie sono interamente femmine (carpa). Anche il comportamento dell’accoppiamento varia nelle diverse specie di mammiferi. Alcune coppie stanno insieme tutta la vita (scia- calli), altre sono promiscue (zebre, balene, scimpanzé). In alcune specie, maschi e femmine viaggiano insieme in mandria (buoi muschiati, lupi, leoni); in altre, l’unità di base è il gruppo familiare (coyote, gibboni); in altre, maschi e femmine passano la maggior parte del loro tempo in gruppi composti da membri dello stesso sesso e si uniscono solo per l’accoppiamento (ippopotami); in altre ancora, tutti sono solitari che cercano membri della propria specie solo in occasione dell’accoppiamento (panda) (Curry 1990, 151).

L’equiparazione tra il comportamento sessuale “naturale” e gli scopi procreativi è provato erroneo sia dalle prove dei comportamenti omosessuali tra le altre specie sia dall’osserva- zione dell’attività sessuale durante la gravidanza, che è stata segnalata in scimpanzé, gorilla, macachi, scimmie giapponesi (Pavelka 1995). Nel suo studio sui bonobo (scimpanzé pig- mei), una specie che, insieme allo scimpanzé, è il parente più vicino all’homo sapiens, Frans de Waal (1995) ha scoperto che il comportamento sessuale serviva una serie di funzioni sia riproduttive che non riproduttive. In effetti, la ricerca sul comportamento sessuale dei primati non umani indica che i primati non umani “si coinvolgono in attività sessuali molto più di quello che gli servirebbe da un punto di vista riproduttivo, perciò molta della loro sessualità è non riproduttiva” (Pavelka 1995, 22). Come conclude Jane Curry, “Se cerchia- mo nella natura dei modelli per il comportamento umano, siamo costretti a valorizzare la varietà e il pluralismo” (1990, 154). Questa è la seconda falla nell’affermazione che le sessualità queer siano “innaturali”: non è possibile derivare delle norme per una specie dai comportamenti e dalle norme percepite di altre specie.

Cercando di “naturalizzare” la sessualità, il discorso dominante della cultura Occidenta- le costruisce le sessualità queer come “innaturali” e quindi subordinate. Come scrive Jeffrey Weeks in “Contro Natura”, “i richiami alla natura, con gli appelli alla naturalità, sono tra i più potenti che possiamo fare. Ci trasportano in un mondo di apparente fissità e verità. Compaiono per dirci cosa e chi siamo, e dove stiamo andando. Sembrano dirci la verità” (1991, 87). Gli argomenti sulla “natura”, come hanno ripetutamente sostenuto le filosofe

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femministe della scienza, sono usati frequentemente per giustificare delle norme sociali, piuttosto che per scoprire qualcosa di nuovo sulla natura (Bleier 1984; Fausto-Sterling 1985; Hubbard, Henifin e Fried 1982; Keller 1985; Lowe e Hubbard 1983). I tentativi di naturalizzare una forma di sessualità funzionano come tentativi di precludere lo studio della diversità sessuale e delle pratiche sessuali, per ottenere il controllo del discorso sulla sessualità. Questi tentativi sono manifestazioni dell’omofobia e della fobia dell’erotismo della cultura Occidentale.

Tornando alla lista dei dualismi che le ecofemministe hanno mostrato caratterizzare la cultura Occidentale, ed esaminando come le qualità sono distribuite attraverso ogni lato in modo da rinforzare la superiorità di una delle due parti (quindi l’associazione tra cultu- ra, uomini, e ragione) o la subordinazione (l’associazione di natura, donne, e l’erotismo), possiamo vedere che l’erotizzazione della natura enfatizza la sua subordinazione. Da una prospettiva queer ecofemminista, allora, diventa chiaro che la liberazione delle donne passa attraverso la liberazione della natura, dell’erotismo e del queer. I collegamenti concettuali tra le oppressioni di donne, natura e queers rendono questo bisogno particolarmente chiaro.

LA FOBIA DELL’EROS E LA COLONIZZAZIONE DELLA NATURA QUEER

La retorica e l’istituzione del cristianesimo, accoppiate con le spinte imperialiste degli stati-nazioni militareschi, sono state utilizzate per circa duemila anni per presentare l’etero- sessualità, il sessismo, il razzismo, la differenza di classe e l’oppressione del mondo naturale come Ordine divino. Oggi, anche se le nazioni industrializzate Occidentali del ventesi- mo secolo hanno la pretesa di apparire secolari, quei paesi di origine cristiana e coloniale mantengono comunque quell’ideologia del dominio di ispirazione divina. Questa parte esaminerà prima di tutto come il cristianesimo è stato usato per autorizzare lo sfruttamento delle donne, delle culture indigene, degli animali, del mondo naturale, e delle persone queer. Concluderà esaminando le pratiche coloniali del ventesimo secolo.

Molte femministe ed ecofemministe che hanno esaminato la relazione gerarchica e oppressiva che la cultura occidentale stabilisce con la natura, datano il problema della separazione umana dalla natura (il precedente necessario alla gerarchia e all’oppressione) intorno al 4.000 a.C., nell’era Neolitica, con la conquista delle culture matrifocali, basate sull’agricoltura e sulla venerazione delle dee, da parte delle culture nomadi e militaresche che veneravano un dio maschio (Eisler 1987; Spretnak 1982; Starhawk 1979). La visione degli “agriculturalisti” – che lo spirito fosse immanente in tutta la natura, che la sessualità e la riproduzione fossero come la fertilità della terra, e che entrambe fossero sacre – fu rimpiazzata da una visione del mondo che concepiva la divinità come trascendente, separata dalla natura, con umani e natura come creazione di Dio anziché come parti di Dio. Le dee femminili, bisessuali o ermafrodite furono rimpiazzate dal Dio maschio ed eterosessuale,

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il Padre, e la trinità matrifocale di Vergine, Madre e Befana diventò la trinità patriarcale del Padre, Figlio e Spirito Santo (Evans 1978; Sjoo e Mor 1987). Perciò, nella ricerca delle origini dei legami concettuali tra donne, natura, persone di colore, e queer, oltre alla loro oppressione collettiva, molte femministe ed ecofemministe sosterrebbero che è più rilevan- te osservare i cambiamenti nell’organizzazione sociale da una struttura matrifocale a una patriarcale piuttosto che esplorare come una forma particolare di religione patriarcale (stori- camente antecedente a quel cambiamento di secoli o addirittura millenni) abbia autorizzato la subordinazione delle donne, della natura, e di quello che vi è collegato.

Per altre ecofemministe, tuttavia, le teorie di un passato matrifocale rimangono solo quello che sono – teorie antropologiche, non fatti storici. Buona parte dell’antropologia è basata su pochi pezzi di ceramica frammentata, ossa sparse, e resti di edifici, così che alcune ecofemministe sono riluttanti a sviluppare una teoria ecofemminista basata troppo su questo tipo di interpretazioni. Tutte le ecofemministe che hanno affrontato l’argomen- to della spiritualità, tuttavia, hanno osservato che il Cristianesimo è stato usato sia come giustificazione che come mandato per la subordinazione delle donne, della natura, delle persone di colore, degli animali e delle persone queer. 6

Il cristianesimo nacque come piccolo culto ascetico, uno tra i molti presenti nell’Impero Romano. Era, fin dall’inizio, una religione urbana, formatasi nel contesto di filosofie urbane e secolari piuttosto che in un contesto agriculturale e rurale basato sul rapporto con la terra. Le credenze dei primi cristiani includevano la concezione di Adamo come sia maschio che femmina, e di Cristo come il rigenerato androgino Adamo (Reuther 1983, 100); e l’op- posizione critica tra ragione e passione (Greenberg 1988, 225), con il potere della ragione (logos) come l’unica caratteristica che distingueva gli umani dagli animali (Evans 1978, 86). Paragonando alcune di quelle convinzioni con il contesto in cui hanno avuto origine, si potrebbe supporre che i fautori del cristianesimo fossero influenzati sia dalle credenze delle precedenti culture basate sulla terra sia dalle filosofie popolari del loro tempo, come lo Stoicismo e lo Gnosticismo. Oltretutto, la loro abilità nell’incorporare aspetti di queste altre credenze popolari nel cristianesimo potrebbe avere incrementato il suo interesse e assicurato la sua sopravvivenza.

La prima prospettiva cristiana sul sesso e l’erotismo si adattava anch’essa al carattere del tempo. Il cristianesimo comparve in un periodo di crescente militarizzazione dello stato Ro- mano. Fu preceduta da “un’ondata di cupo ascetismo” (Evans 1978, 41). Per i filosofi Stoici ed Epicurei del periodo, il sesso e gli altri piaceri erotici erano visti come distrazioni dalla vita contemplativa. La morale stoica propugnava la castità come ideale, in cui il rapporto eterosessuale era permesso solo per la procreazione all’interno del matrimonio; altri scrittori Greci e Romani sostenevano anch’essi che la procreazione fosse la sola ragione legittima per il rapporto sessuale (Greenberg 1988, 219). Secondo David Greenberg, “essere come gli angeli era essere spirituali; essere carnali era essere non spirituali. Il sesso era l’essenza della carnalità, quindi l’antitesi della spiritualità” (1988, 224). Durante i primi due secoli

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di cristianesimo, i vescovi e teologi più eminenti richiedevano il celibato di tutti i cristiani, ma più avanti si ricredettero (probabilmente per paura di allontanare potenziali convertiti) e permisero un comportamento sessuale limitato all’interno del matrimonio per il solo scopo della procreazione (Corinzi 7: 1-2, 9; Greenberg 1988, 216, 228; Ranke-Heinemann 1990). Dal secondo al quarto secolo d.C., i capi della chiesa diedero più attenzione all’ar- gomento del sesso e lo rigettarono con più veemenza di quanto avessero fatto gli autori del Nuovo Testamento (Greenberg 1988, 223). Perciò, sarebbe inaccurato sostenere che il cristianesimo si oppose di per sé alla sessualità queer; piuttosto, il cristianesimo si oppose a tutti gli atti sessuali che non avessero come scopo la procreazione (Ranke-Heinemann 1990). Quello che distinse il cristianesimo dai molti altri culti ascetici del suo tempo fu la severità del suo ascetismo, la sua completa intolleranza verso le altre religioni, e l’alto grado di organizzazione tra i suoi aderenti (Evans 1978, 42).

La gerarchia – la struttura organizzativa e la credenza religiosa che caratterizzarono il cristianesimo – potrebbe avere anch’essa contribuito alla sua sopravvivenza, perchè questa credenza si adattava bene ai Romani, che predicavano “le virtù dell’autosacrificio verso lo Stato, l’obbedienza all’autorità gerarchica, e il sospetto verso il piacere e il sesso” (Evans 1978, 37). Come ha osservato Elizabeth Dodson Gray, i due racconti della creazione nella Genesi sono stati usati nel cristianesimo per legittimare sia la gerarchia umani/non uma- ni (il dominio umano sulla natura, come descritto nella Genesi) sia l’antropocentrismo (l’uomo come il centro dell’ordine (1979, 7). Il suo lavoro mostra che il cristianesimo all’inizio interpretava tutti i ranghi sociali ed economici come riflessi di un ordine divino, così come spiegato dall’apostolo Paolo: “Lasciate che chiunque obbedisca alle autorità che sono sopra di lui, poiché non c’è autorità tranne Dio, e tutta l’autorità che esiste è stabilita da Dio” (Romani 13: 1-2). La simmetria concettuale tra il cristianesimo e lo stato Romano rese possibile al cristianesimo espandersi gradualmente in tutto l’esercito Romano, dove incorporò elementi aggiuntivi di una religione rivale (il Mitraismo). Infine, sotto l’impe- ratore Costantino, “la croce fu adottata come simbolo militare e piazzata sugli scudi e gli stendardi” (Evans 1978, 43). Nel quarto secolo d.C., l’Impero Romano divenne il Sacro Romano Impero, e fu siglata l’unione tra chiesa e stato, a rappresentanza del regno di Dio sulla terra. L’inferiorità e la subordinazione delle donne, degli animali, del corpo, della natura, dell’erotismo e di quanto vi è collegato furono proclamate per legge, decretate dalla religione, e rinforzate incessantemente. Dal quarto fino al diciassettesimo secolo, tutti quelli percepiti come “natura” furono perseguitati attraverso una serie di violenti assalti: l’Inquisi- zione, le Crociate, i roghi delle streghe, e i “viaggi della scoperta”.

Nel suo classico underground, “Stregoneria e la controcultura gay”, Arthur Evans scrive delle somiglianze tra l’Inquisizione e i roghi delle streghe, in particolar modo nella loro per- secuzione delle vittime. Dal quarto al tredicesimo secolo, la chiesa fu infestata di influenze pagane, dalla rinascita delle vecchie religioni che cercavano di combinarsi con alcuni dei dogmi del cristianesimo: gnosticismo, manicheismo, messalianismo, bogomilismo, cata- rismo, la setta del Libero Spirito, e altre. Secondo Evans, questi movimenti mostravano

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cinque caratteristiche prevalenti:

1) la credenza in più di una divinità;

2) un ruolo di leadership prevalente per le donne;

3) un senso pagano di ascetismo, che includeva sia l’autonegazione che l’autoindul- genza;

4) l’ostilità verso le ricchezze e il potere della chiesa;

5) la tolleranza verso il sesso gay (1978, 61).

Incapace di reprimere queste continue rinascite, la chiesa dichiarò queste credenze eresie e ordinò che fossero sradicate. La Santa Inquisizione fu creata da papa Gregorio IX tra il 1227 e il 1235, e nel 1223 una delle sue famose bolle accusava gli eretici di praticare riti sessuali che erano “opposti alla ragione” (Evans 1978, 91-92). L’Inquisizione usava le proprietà degli accusati per pagare i costi del processo e dell’esecuzione, così la caccia agli eretici diventò un affare importante nel Medioevo. Le motivazioni economiche sicuramente spiegano la persecuzione di un particolare ordine monastico militare di crociati, i Cavalieri Templari. Nel 1307, re Filippo di Francia accusò di comportamento omosessuale l’intero ordine. Cinquemila dei suoi membri furono arrestati, e negli anni seguenti, quelli rimasti liberi furono perseguitati per tutta Europa, finchè l’ordine fu abolito. Come spiega Evans, i Cavalieri Templari avevano accumulato grandi quantità di ricchezze, ed erano diventati i capi banchieri del Medioevo: “Sia papa Clemente che re Filippo erano in debito con loro” (1978, 92-94). In questo primo esempio tra molti, la chiesa può essere vista nel suo utilizzare una retorica antierotismo e omofobica per mascherare le motivazioni economiche della chiesa e dello stato.

Se la bolla “Vox in Rama” fu il trampolino di lancio dell’Inquisizione, l’apparizione del “Malleus Maleficarum” nel 1486 fu sicuramente il punto di svolta per la caccia alle streghe. Scritto da due monaci domenicani, il “Martello delle streghe” legava esplicitamente la stregoneria alle donne e alla loro natura “inferiore”, affermando che le donne fossero “più carnali” degli uomini (Reuther 1983, 170). La pratica spirituale della stregoneria era vista dalla cultura popolare come implicitamente sessuale: le persone arrestate con il sospetto di stregoneria venivano sempre interrogate riguardo alla loro vita sessuale, poiché si pensava che le streghe tenessero rituali selvaggi e osceni che culminavano con le streghe che bacia- vano l’ano del diavolo, o che avessero rapporti sessuale con il diavolo (Merchant 1980, 132-140). I comportamenti sessuali tra persone dello stesso sesso e la non conformità di genere erano anch’essi concettualmente messi in connessione con la stregoneria: la frase “donne con donne” ricorre nei resoconti dell’Inquisizione in molte descrizioni del compor- tamento sessuale delle streghe, e poiché la maggior parte delle streghe erano donne, l’accusa di “orge selvagge” in effetti suggerisce che le donne avevano rapporti sessuali le une con le

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altre (Grahn 1984, 96). Gli uomini che avevano rapporti con altri uomini venivano spesso strangolati e bruciati su fascine di legna chiamate “finocchi” (faggots), che venivano legate e accatastate ai piedi delle “streghe” (Grahn 1984, 218; Evans 1978, 76). E nei primi noti esempi di quella che oggi può essere chiamata la persecuzione delle persone transgender, la diciannovenne Giovanna d’Arco fu bruciata sul rogo come strega nel 1431, condannata a morte per il peccato di aver indossato abiti maschili (Evans 1978, 5-8). 7

Le donne più vecchie, economicamente indipendenti, e quelle che non erano sotto la protezione di un uomo, erano specialmente vulnerabili alle accuse di stregoneria. Come per le persone condannate dall’Inquisizione, le loro proprietà e beni venivano prelevati e utilizzati per pagare il costo delle loro esecuzioni (Starhawk 1982, 185-188). Le stime del numero di “streghe” bruciate vanno da centomila a nove milioni; alcuni affermano che circa l’83% delle persone giustiziate come streghe fossero donne (Merchant 1980, 138).

Cosa conosciamo dei collegamenti tra i “tempi dei roghi” e la colonizzazione delle Ame- riche? Arthur Evans afferma senza mezze misure: “La diffusa omosessualità degli Indiani del Nord America fu usata come scusa dagli invasori bianchi cristiani per autorizzare il loro sterminio” (1978, 101). In “Gay American History”, Jonathan Ned Katz scrive, “la cristia- nizzazione dei Nativi Americani e l’appropriazione coloniale del continente da parte della “civilizzazione” bianca occidentale incluse il tentativo dei conquistatori di eliminare le varie forme tradizionali di omosessualità indiana – come parte del loro tentativo di distruggere quella cultura nativa che poteva fomentare la resistenza -, una forma di genocidio culturale che implicava sia i Nativi Americani che le persone gay” (1976, 284). E nel suo studio delle persone uomo-donna degli Zuni, Will Roscoe (1991) scopre, risalenti al sedicesimo secolo, numerosi resoconti sulla “peccaminosità” del comportamento sessuale dei nativi – la mancanza di inibizioni, la prevalenza della sodomia, e la tolleranza o perfino il rispetto per le persone transgender -, argomenti usati dagli esploratori spagnoli per favorire la coloniz- zazione della gente nativa e delle loro terre in nome del cristianesimo. 8

E’ interessante come sia i monarchi che gli esploratori sentissero il bisogno di giustificare i loro desideri colonialisti di avere più terra, più ricchezze, e più schiavi. Dai teologi me- dievali, il cristianesimo aveva ereditato il messaggio che “i frutti di ogni conquista possono essere legittimi solo se la guerra che è stata vinta era giusta”; convenientemente, attraverso le Crociate, il cristianesimo sviluppò il principio che “la guerra condotta negli interessi della Sacra Chiesa è per forza giusta” (jennings, 1975, 4). Poiché la chiesa si era impegnata nella persecuzione dell’erotismo fin dai suoi esordi, portare i comportamenti sessuali dei nativi come prova del loro paganesimo e della loro mancanza di civilizzazione sembrava una giustificazione adeguata per la loro colonizzazione.

La valida ricerca di Katz in “Gay american history” offre numerose osservazioni delle pratiche sessuali native, che risalgono alle esplorazioni del sedicesimo secolo e oltre. Questi resoconti esprimono chiaramente le attitudini imperialiste e la fobia dell’eros degli esplora-

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tori. “Le persone di questa nazione (i Choctaw) sono generalmente di una natura brutale e rozza”, scriveva Jean Bernard Bossu. “Sono moralmente pervertiti, e la maggior parte di loro sono fanatici della sodomia. Questi uomini corrotti… hanno capelli lunghi e indossano gonne corte come le donne” (Katz 1976, 291). “Il peccato della sodomia prevale più tra di loro che in ogni altra nazione, anche se ci sono quattro donne ogni uomo”, scriveva Pierre Liette sui Miamis nel 1702 (Katz 1976, 288). Il ruolo del nadleeh, o della persona transgender, offendeva particolarmente le sensibilità europee occidentali. 9

Degli Iroquois , gli Illinois, e di altre tribù dell’area della Louisiana, l’esploratore gesuita e storico Pierre Francois Xavier de Charlevoix scrisse nel 1721, “queste persone effeminate non si sposano mai, e si abbandonano alle più infami passioni” (Katz 1976, 290). Quando il padre gesuita Pedro Font scoprì che “alcuni uomini vestivano come donne” tra gli Yumas della California, chiese dei loro abiti e apprese che “erano sodomiti, dediti a pratiche abomi- nevoli”. Font concludeva, “ci sarà molto da fare quando la sacra fede e la religione cristiana si saranno stabilite tra di loro” (Katz 1976, 291). Il missionario francescano Francisco Palou riportò con orrore che “quasi ogni villaggio” di quella che oggi è la California del sud, “aveva due o tre” persone transgender, ma pregava che “queste persone maledette sparissero con la crescita delle missioni. L’abominevole vizio sarà eliminato quando la fede cattolica e tutti gli altri valori saranno impiantati là, per la gloria di Dio e il beneficio di questi poveri ignoranti” (Katz 1976, 292). Nella retorica del colonialismo cristiano, gli Europei ricoprivano il ruolo della cultura illuminata che “civilizzava” la natura selvaggia – e questa “civilizzazione” implicava l’esproprio delle terre dei nativi, l’eliminazione delle loro pratiche culturali e spirituali, lo stupro e la schiavitù dei loro popoli.

Un esempio specifico del ruolo che la fobia dell’erotismo giocò nell’autorizzare la colo- nizzazione può essere d’aiuto. Nel suo libro “The Elder Brothers”, Alan Ereira riferisce dei Kogi, che vivono nelle catene montuose della Sierra Nevada in Colombia, e che potrebbero essere “l’ultima civilizzazione sopravvissuta dell’era pre-conquista dell’America” (1992, 1). Nel 1498, la terra intorno a quella che oggi è conosciuta come la città colombiana di Santa Marta fu scoperta dagli spagnoli nella loro ricerca dell’oro, e il 12 giugno 1514 giunse un galeone spagnolo e cominciò l’opera di colonizzazione. Quel processo includeva la lettura di un decreto che dichiarava che i nativi, da quel momento, erano servi di re Ferdinando e del Dio cristiano, sia in lingua spagnola che caraibica, anche se la gente nativa non parlava nessuna di queste due. Il conquistatore spagnolo Pedrarias Davila concluse il suo proclama con l’avvertimento che se il popolo nativo non si sottometteva a questa regola:

“vi assicuro che con l’aiuto di Dio entrerò profondamente in guerra contro di voi, vi farò guerra in ogni luogo e in ogni modo in cui potrò, e vi sottometterò al giogo e all’obbedienza della chiesa e di sua altezza, e prenderò la vostra gente e le vostre donne e i vostri bambini, e li farò schiavi, e così li venderò, e disporrò di loro come nostra altezza comanda: prenderò i vostri beni, e vi farò tutti i mali e i torti che posso, così come ai vassalli che non obbediscono e non vogliono accogliere il signore, gli resistono e lo contraddicono. E io dichiaro che le

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morti e i mali che derivano da questo saranno colpa vostra, e non quella di sua altezza, non mia, non dei gentiluomini che sono venuti con me qui” (Ereira 1992, 74).

L’invasione spagnola proseguì su questa linea. Come osserva Ereira, il genere e la ses- sualità giocavano un ruolo prevalente nella retorica e nelle giustificazioni della conquista coloniale. “Gli spagnoli non potevano sopportare la relazione indiana tra i sessi”, scrive. “Era così fondamentalmente diversa dalla loro da essere un oltraggio. Gli uomini non dominavano le donne” (Ereira 1992, 136). Gli spagnoli erano orripilati, oltretutto, dal- l’accettazione dei comportamenti omosessuali e delle identità transgender: “era una paura interiore, una paura della loro stessa natura. E così disposero di eliminare la sodomia tra gli indiani” (137). Dopo circa un secolo di schiavitù coloniale e zelo missionario, gli spagnoli sferrarono l’attacco più micidiale sulla popolazione nativa nel 1599. Il governatore di Santa Marta chiamò a raccolta tutti i capi tribù alla base dei monti Sierras e disse loro che avrebbe posto fine ai loro “peccati malvagi” (138). La popolazione nativa pianificò una rivolta, ma notizie del loro piano vennero passate agli spagnoli attraverso due missionari, e gli spagnoli si fecero trovare pronti. Per tre mesi, gli spagnoli portarono avanti i loro piani di tortura e genocidio contro le persone indigene. Quando fu finita, il governatore dichiarò:

“E se qualche altro indiano viene scoperto ad avere commesso o a praticare il malvagio e innaturale peccato della sodomia, sarà messo alla garrota nella maniera usuale, poi bruciato vivo fino ad essere consumato e diventare polvere, così che non avrà memoriale; e sarà compreso dagli indiani che questa punizione dev’essere estesa a chiunque commetta questa offesa” (Ereira 1992, 140).

Quelle persone “che vogliono vivere” dovevano pagare una multa di “pacificazione” del valore di 500 sterline d’oro (Ereira 1992, 140). La deviazione dai ruoli di genere e la presenza accettata di pratiche erotiche non eterosessuali erano diventate la giustificazione retorica per il genocidio e il colonialismo.

Non solo le pratiche transgender e la sodomia disturbavano i colonizzatori; perfino le pratiche eterosessuali prive delle restrizioni imposte dal cristianesimo erano messe in discussione. Tra gli Hopi del sudovest, per esempio, a quelli che erano stati con successo convertiti al cristianesimo era vietato frequentare la tradizionale danza del serpente per- chè, “lì venivano messi in atto pubblicamente il travestitismo, l’adulterio e la bestialità” (D’Emilio e Freedman 1988, 93). I missionari contrastarono le pratiche eterosessuali degli Indiani Pueblo, chiamandole “bestiali” perchè, “come animali, la femmina si dava dispo- nibile pubblicamente a più uomini” (Gutiérrez 1991, 72-73). Quella che divenne nota come la “posizione del missionario” fu sostenuta dal teologo spagnolo del 17° secolo Tomas Sanchez come “la posizione naturale del rapporto sessuale… l’uomo deve giacere sopra e la donna sotto sdraiata sulla schiena. Perchè questa maniera è più appropriata per l’effusione del seme maschile, per il suo accoglimento nel contenitore femminile” (Gutiérrez 1991, 212). Sanchez paragonò il fallo ad un aratro e la donna alla terra; la posizione missionaria

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sarebbe stata la più favorevole alla procreazione e quindi la più “naturale”. Al contrario, la posizione “mulier supra virum” (la donna sopra l’uomo) era “assolutamente contraria all’ordine naturale” (Gutiérrez 1991, 212).

Gli appelli alla natura sono stati spesso usati per giustificare norme sociali, a detrimento di donne, queer, natura e persone di colore. La varietà di assalti colonialisti sulla sessualità – dai ruoli di genere ai rapporti tra persone dello stesso sesso alle pratiche eterosessuali – è la ragione per cui chiamo la prospettiva dei colonizzatori “fobia dell’erotismo” più che sol- tanto “omofobia”. Questa fobia colonialista dell’erotismo è rimasta intatta con l’arrivo dei Padri Pellegrini, con la fondazione degli Stati Uniti, e con l’ondata di espansione verso ovest che è seguita. Nel ventesimo secolo, i resoconti di colonialismo ed esplorazione continuano a portare l’impronta della fobia dell’eros, come rivelano le critiche femministe.

Nel suo studio su razza e genere nella politica internazionale, Cynthia Enloe trova importanti connessioni tra le concezioni di nazionalismo e di mascolinità. Nei discorsi co- lonialisti del diciannovesimo e ventesimo secolo, i paesi subordinati sono femminilizzati, gli uomini subordinati sono demaschilizzati, e le donne colonizzate sono spesso dipinte come oggetti sessuali da parte degli uomini stranieri. Uno scrittore uomo descrisse il colonialismo come la condizione in cui le donne di un uomo “diventano bestiame per le cartoline postali imperialiste. Diventare un nazionalista implica che l’uomo impedisca allo straniero di usare e abusare delle sue donne” (Enloe 1989, 44). Nel suo studio delle spedizioni polari ameri- cane, Lisa Bloom trova che “le spedizioni rappresentavano simbolicamente la battaglia degli stessi uomini per diventare uomini” e i resoconti scritti lasciati dagli esploratori presentas- sero “l’identità nazionale degli Stati Uniti come essenzialmente bianca e maschile” (Bloom 1993, 6, 11). Sia i testi di Enloe che di Bloom includono ristampe di popolari immagini di cartoline coloniali rappresentanti donne native nude o parzialmente nude appoggiate a terra in quella che Bloom definisce “la posizione odalisca” (Bloom 1993, 104). Come i colonizzatori di tre o quattro secoli fa, gli esploratori e gli imperialisti del diciannovesimo e ventesimo secolo hanno usato l’erotismo percepito delle persone native come giustifica- zione per la loro colonizzazione. Servendo come base per tutte le imprese imperialiste, il colonialismo nazionalista offre una definizione di identità strutturalmente simile all’identi- tà del padrone. Enloe definisce una nazione come “un raggruppamento di persone che sono arrivate a credere di essere formate da un passato comune e di essere destinate a condividere un futuro comune. Questa credenza è solitamente alimentata da un linguaggio comune e da un senso di “essere altro” rispetto ai gruppi intorno a sè” (Enloe 1989, 45). Il nazionalismo, quindi, è “una serie di idee che affilano la distinzione tra “noi” e “loro”” (Enloe 1989, 61). In maniera simile, gli autori di “Nazionalismo e sessualità” spiegano che “l’identità nazio- nale non è determinata sulla base di proprietà proprie intrinseche ma in funzione di quello che (presumibilmente) non è” (Parker et al. 1992, 5). Inevitabilmente “formata da quello a cui si oppone”, un’identità nazionale che dipende da questo tipo di differenze è “per sempre tormentata dai suoi vari “altri” che la definiscono” (Parker et al. 1992, 5).

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Guardando a queste definizioni di nazionalismo da una prospettiva ecofemminista, diventa evidente come l’identità nazionale abbia una somiglianza strutturale al modello del “padrone” così come definito da Plumwood. L’identità nazionale rientra in due dei cinque passaggi caratteristici dell’identità del padrone – l’esclusione radicale e l’incorporazione. Il nazionalismo colonialista, tuttavia, dipende da tutti e cinque i passaggi del modello del padrone, inclusi i postulati collegati del backgrounding, della strumentalizzazione e del- l’omogenizzazione. Attraverso i documenti degli esploratori e dei colonizzatori, le persone native vengono costruite come animalesche: sono percepite come iper-sessuate, e i loro comportamenti sessuali sono descritti come peccaminosi e bestiali. Le donne indigene sono erotizzate, mentre gli uomini sono femminilizzati – e tutte queste associazioni vengono usate per giustificare il colonialismo.

La caratteristica dell’identità maschile che Enloe e Bloom sembrano lasciarsi sfuggire e che Plumwood non affronta direttamente è la sessualità. Qui ancora una volta le teorie femministe ed ecofemministe hanno vita breve senza una prospettiva queer. Come ha fatto notare Gayle Rubin: “Il femminismo è la teoria dell’oppressione di genere. Dare per sconta- to che questo lo renda la teoria dell’oppressione sessuale significa non riuscire a distinguere tra genere, da un lato, e desiderio erotico dall’altro” (1989, 307). La teorica queer Eve Sedgwick sostiene che genere e sessualità siano “inestricabilmente legati… nel senso che uno può essere espresso solo in funzione dell’altro… nella cultura occidentale del ventesimo secolo il genere e la sessualità rappresentano due asce analitiche che possono essere produt- tivamente immaginate come distanti le une dalle altre così come lo sono, diciamo, il genere e la classe sociale, o la classe sociale e la razza” (1990, 30).

Da una prospettiva ecofemminista queer, quindi, è chiaro che le nozioni di sessualità siano implicite nella categoria del genere. Per farla semplice, la mascolinità del colonizzatore e dell’identità del padrone di Plumwood non è né omosessuale né bisessuale né transgender. L’eterosessualità – e un tipo di eterosessualità particolare, anche, un’eterosessualità con- tenuta entro certi parametri – è implicita nelle concezioni della mascolinità dominante così come nel modello del padrone di Plumwood. Negli esempi precedenti, il discorso del colonialismo nazionalista contiene specifici concetti non solo di razza e genere ma anche di sessualità. Il femminilizzato “altro” naturale non è solo eroticizzato ma anche queerizzato e animalizzato, nel senso che ogni comportamento sessuale che fuoriesce dai rigidi confini dell’eterosessualità obbligatoria diventa queer e subumano. La colonizzazione diventa un atto del sé nazionalista che afferma la propria identità e definizione più volte e in contrasto con “l’altro” – la cultura che sovrasta e contrasta la natura, il maschile che sovrasta e contra- sta il femminile, la ragione che sovrasta e contrasta l’erotismo. Il “significato” metaforico del colonialismo è stata descritto come lo stupro delle persone indigene e della natura, perchè c’è una somiglianza strutturale – non esperienziale – tra queste due operazioni, anche se la colonizzazione include regolarmente lo stupro.

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Le ecofemministe occidentali hanno ripetutamente contestato la femminilizzazione del- la natura presente in metafore come “Madre Natura”, a causa della subordinazione implicita in queste costruzioni intrise di genere, dato il contesto della cultura patriarcale occidentale. Elizabeth Dodson Gray è stata la prima scrittrice ecofemminista a sfidare la “tirannia della norma maschile bianca eterosessuale” nel suo libro “Green paradise lost”, quando mostra come la metafora di “Madre Natura” porti alla subordinazione. Nella cultura occidentale patriarcale, spiega Gray, la mascolinità è definita non solo come indipendenza ma come “non dipendenza”. Il processo per socializzare i ragazzi a diventare uomini include il negare la dipendenza dalla madre; quella dipendenza viene allora trasferita sulla moglie. La supe- riorità maschile è preservata dalla costruzione sociale di una “moglie” come “sottomissiva…. economicamente impotente, e in molti altri modi… inferiore e non minacciosa nei con- fronti del suo uomo. In breve, una moglie deve stare sotto al suo uomo, non sopra” (1979, 41). Secondo Gray, lo stesso trasferimento avviene nella relazione che la cultura occidentale ha con la natura.

Gli uomini hanno compiuto lo stesso voltafaccia di dominio/sottomissione con Madre Natura. Con le loro tecnologie hanno lavorato stabilmente e per generazioni per trasfor- mare la dipendenza, psicologicamente insopportabile, nei confronti di un’apparentemente potente e capricciosa “Madre Natura” in una dipendenza rassicurante e accettabile nei confronti di una “moglie” obbediente e non minacciosa. Questo “bisogno di stare sopra” e di dominare permea i comportamenti maschili verso la natura (Gray 1979, 42). 10

Come ho sostenuto altrove, quando la natura viene femminilizzata e quindi erotizza- ta, e la cultura viene mascolinizzata, la relazione cultura-natura diventa di eterosessualità obbligatoria (Gaard 1993). La colonizzazione può quindi essere vista come una relazione di eterosessualità obbligatoria in cui l’erotismo queer delle persone non occidentalizzate, la loro cultura, e la loro terra, vengono sottomesse alla posizione missionaria – con il conqui- statore “sopra”. 11

VERSO UN ECOFEMMINISMO QUEER

Gli eventi salienti della storia occidentale rivelano le fondamenta per un ecofemmini- smo queer. Più di ogni altro periodo, il sedicesimo e diciassettesimo secolo chiarificano le connessioni concettuali tra l’oppressione delle donne, dell’erotismo e della natura. Come hanno chiaramente dimostrato Carolyn Merchant (1980), Susan Griffin (1978), e Evelyn Fox Keller (1985), in un sistema patriarcale che concepisce la natura come femminile, c’è una chiara e necessaria connessione tra lo sviluppo della scienza come il controllo razionale di un mondo naturale caotico e la persecuzione delle donne come intrinsecamente irrazio- nali, erotiche e quindi creature malvagie. Questi collegamenti hanno fornito le fondamenta concettuali per le teorie ecofemministe. Le fondamenta per l’ecofemminismo queer, quindi, possono essere stabilite riportando alla luce e interrogando altri aspetti di quel periodo

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storico: che le donne accusate di stregoneria fossero accusate non solo per il loro genere ma anche per la loro presunta sessualità e pratica erotica; che queste donne venissero fre- quentemente messe al rogo insieme a uomini che avevano rapporti con altri uomini; che la conquista coloniale delle persone indigene nelle Americhe sia stata autorizzata parzialmente sulla base dei comportamenti sessuali dei nativi. Non sto suggerendo che la contemporanei- tà degli avvenimenti significhi un rapporto di causalità; piuttosto, sto sostenendo che una lettura attenta di questi numerosi movimenti di dominazione – la persecuzione delle donne attraverso la caccia alle streghe, della natura attraverso la scienza, e delle persone indigene attraverso il colonialismo – che hanno raggiunto il loro picco nello stesso periodo storico nell’Europa occidentale, porterà alle radici di un’ideologia in cui l’erotismo, le sessualità queer, le donne, le persone di colore, e la natura sono concettualmente collegate.

Oggi, chi di noi viene associato con la natura e l’erotismo continua a soffrire l’impatto di secoli di colonizzazione da parte della cultura occidentale, sui nostri stessi corpi e sulle nostre vite di tutti i giorni. Rigettare quella colonizzazione implica accogliere l’erotismo in tutta la sua varietà e creare coalizioni per la creazione di una cultura ecologista e orizzontale basata sulla liberazione collettiva.

Per creare questa cultura, dobbiamo mettere insieme gli sguardi delle teorie queer ed ecofemministe. Come le femministe hanno a lungo sostenuto, la via d’uscita da questo sistema di violenza endemica richiede la liberazione dell’erotismo – non in qualche facile schema liberale, che autorizzerebbe un più facile accesso alla pornografia o alla sessualità infantile, ma attraverso una genuina trasformazione delle concezioni occidentali dell’ero- tismo come fondamentalmente opposto alla ragione, alla cultura, all’umanità, alla masco- linità. Una prospettiva queer ecofemminista sosterrebbe che liberare l’erotismo richiede di riconcettualizzare gli umani come equi partecipanti della cultura e della natura, capaci di esplorare l’erotismo della ragione e la razionalità dell’erotismo. Le ecofemministe devo- no interessarsi di liberazione queer, così come le persone queer devono interessarsi della liberazione delle donne e della natura; le nostre oppressioni parallele provengono da un collegamento percepito tra di noi. E’ tempo di costruire la nostra liberazione collettiva su coalizioni più concrete.

NOTE

1. Nel maggio 1994 l’edizione speciale della rivista canadese UnderCurrents fu la prima ad affrontare il tema della natura queer. Oltre a Sandilands, altri due collaboratori di questo numero speciale riconoscevano esplicitamente il legame tra ecofemminismo e teoria queer. In “Lost Landscapes and the Spatial Contextualization of Queerness”, Gordon Brent In- gram scrive che “una comprensione della crescente giuntura tra ambientalismo, ecologismo

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radicale, ecofemminismo e teoria queer sta diventando cruciale per l’espansione dell’atti- vismo politico nel prossimo decennio” (5). E J. Michael Clark paragona l’ecofemminismo all’ecoteologia nel suo saggio “Sex, Earth, and Death in Gay Theology”, sostenendo che “possiamo costruire un’analisi ecoteologica gay in contrasto con la “deep ecology” che è primariamente maschile e come ulteriore espansione dell’ecofemminismo (34). I saggi di questa edizione speciale iniziano rispettivamente ad esplorare la geografia ecofemminista queer e la teologia queer ecofemminista; nessuno dei due, però, sviluppa le connessioni tra teoria queer ed ecofemminismo.

2. Uso il termine “queer” come abbreviazione per gay/lesbica/bisessuale/transgender, ma uso termini più precisi ove richiesto dal contesto. Uso pronomi plurali in prima persona quando parlo di queer (noi) per rendere esplicito il mio posizionamento come soggetto. Sono pienamente consapevole del fatto che queer è un termine contestato, popolare ge- neralmente tra persone queer di città, sotto i quarant’anni, che vengono dall’ambiente universitario, ma non popolare tra le persone di campagna, sopra i quaranta, che vivono in situazioni di comunità rurali; anche in questo caso uso il termine per riflettere la mia situazione in questo particolare momento storico, geografico e culturale.

3. Due definizioni sono in gioco. Primo, definisco il dualismo come eterosessuale/queer piuttosto che eterosessuale/omosessuale, per enfatizzare e ribadire le molte diverse com- binazioni di genere e identità sessuale che sono costruite come aberranti sotto l’egemonia dell’eterosessualità; non credo che un dualismo di monosessualità (etero/omo) catturi quello che intendo in maniera così precisa. Secondo, con erotismo non mi riferisco esclusivamente alla sessualità ma anche in modo più generale alla sensualità, spontaneità, passione, piacere e stimolazione piacevole; mi aspetto anche che l’erotismo venga definito a seconda degli specifici contesti storici e culturali.

4. Uso il padrone “suo” (di lui) per il Sè del padrone, e “suo” (di lei) per l’Altro subordinato, perchè queste identità sono impregnate di genere; non intendo, tuttavia, idealizzare nessuna delle due posizioni. Molte donne privilegiate beneficiano dalla partecipazione in varie strut- ture di oppressione, e molti uomini sono subordinati attraverso queste strutture.

5. Secondo Smith (1989, 112) la parola “omosessuale” fu coniata nel 1869 da un poco conosciuto medico ungherese, Karoly Maria Benkert; secondo Katz (1990, 12), “eteroses- suale” fu usato per la prima volta pubblicamente in Germania nel 1880. Negli Stati Uniti, le parole “eterosessuale” e “omosessuale” furono usate per la prima volta nel 1892, da un medico di Chicago, James G. Kiernan (Katz 1990, 14).

6. Da notare che la mia argomentazione si basa sui modo in cui il Cristianesimo è stato usato o interpretato storicamente; lascio ad altri l’interpretazione reale del Cristianesimo come religione.

7. Definisco transgender le persone che sentono che la loro identità di genere è diversa dal

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loro sesso biologico. Alcune persone transgender desiderano cambiare la loro anatomia per renderla più congruente alla loro auto-percezione. Altri non hanno questo desiderio. Non c’è correlazione tra orientamento sessuale e tematiche transgender. Le persone transgender possono essere eterosessuali, gay, lesbiche o bisessuali (Zemsky, 1995).

8. I primi lavori di Roscoe sono stati criticati per essere troppo focalizzati sulla sessualità indigena escludendo il tema della razza (Gutiérrez 1989). Roscoe affronta questa critica nel capitolo conclusivo del suo libro (1991).

9. Il termine più comune, berdache, viene qui rigettato sulla base del suo significato ori- ginario di “ragazzo tenuto per scopi innaturali”. La parola è stata creata dai colonizzatori europei, e riflette la loro prospettiva omofobica, oltre a cancellare virtualmente i vari aspetti culturali, spirituali ed economici di questo particolare ruolo di genere. Le persone transgen- der maschi e femmine sono state riscontrate in più di 130 tribù nord-americane (Roscoe 1991, 5), e avevano un nome diverso in ogni cultura. Io preferisco il termine navajo “Nad- leeh”, per le sue origini indigene anzichè coloniali e perchè i navajo usavano questo termine indifferentemente per gli uomini e le donne transgender (Gay American Indians 1988).

10. Questo estratto non dovrebbe lasciare intendere che tutti gli uomini siano eterosessuali e abbiano moglie; piuttosto, come il contesto di Gray rende chiaro, il riferimento è alla costruzione dell’identità maschile come categoria, e come sostengo qui, come definizione normativa del genere maschile, che include il darne per scontata l’eterosessualità.

11. Suzanne Zantop è arrivata a una conclusione simile nel suo studio di un dibattito tedesco riguardo la conolizzazione delle Americhe. Il dibattito si è tenuto negli anni che seguirono il 1768 tra il canonico olandese Cornelius de Pauw e il libraio reale prussiano Antoine Pernety. Zantop trova che “impostando uno schema di genere al dibattito tra co- lonizzatore e colonizzato, e fondando questa struttura di genere su una particolare biologia, de Pauw rese la violenta appropriazione del Nuovo Mondo una cosa naturale e inevitabile, addirittura desiderabile” e “le relazioni di potere del colonizzatore verso il colonizzato un modello per un matrimonio di successo” (1993, 312-313).

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Alle radici dell’ecofemminismo vi è il riconoscimento che vari sistemi di oppres- sione si rinforzano a vicenda. Prendendo spunto dall’analisi femminista socialista che vedeva razzismo, discriminazione di classe e sessismo come connessi, le ecofemministe hanno riconosciuto ulteriori somiglianze tra queste forme di oppressione umana e le strutture oppressive dello specismo e del dominio sulla natura. Uno degli impeti inizia- li per il movimento ecofemminista fu la presa di coscienza del fatto che la liberazione delle donne – lo scopo di tutte le correnti del femminismo – non poteva essere comple- tamente raggiunta senza la liberazione della natura; e allo stesso modo, la liberazione della natura così ardentemente desiderata dagli ecologisti non si realizzerà senza la liberazione delle donne.

Le attiviste ecofemministe hanno lavorato nei movimenti ecologisti, contro le no- cività, nel movimento delle donne, in quello di liberazione animale, e nel movimento contro il capitalismo. Ma nonostante molte ecofemministe riconoscano l’eterosessismo come un problema, manca ancora un’esplorazione sistematica delle potenziali con- nessioni tra le teorie ecofemministe e quelle queer. Analizzando le costruzioni sociali di ciò che viene descritto come “naturale”, i vari utilizzi del cristianesimo per logiche di dominio, e la retorica del colonialismo, questo saggio cerca quelle interconnessioni teoriche e spinge sull’importanza di sviluppare un ecofemminismo queer.

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