Il 4 luglio del 2011, Paulina de Pablo Pérez, studentessa di arti Visuali della Universidad de Concepción, in Cile, mise in atto una azione politica spogliandosi e dirigendosi di fronte al palazzo di giustizia nel centro della città, per protestare contro il “credito” universitario, rivendicando il diritto all’istruzione gratuita per tutt* e di qualità. Una azione che assume un significato particolare nel contesto di repressione sessuale che vivono le manifestanti cilene, alla luce di quanto descritto nella intervista che pubblichiamo
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Grazie alla traduzione di laprimularossa pubblichiamo l’articolo di Ana María Baeza Carvallo e Gonzalo Salazar Vergara riguardo la violenza sessuale poliziesca operata in Cile contro le studentesse in mobilitazione, pubblicato sulla rivista «Revista Nomadìas», novembre 2011, n.14, pp. 229-236, scaricabile qui nella versione originale in lingua spagnola.
Buona lettura!!!
Il 28 novembre, un gruppo di studenti scese al fiume Mapocho per manifestare le rivendicazioni del movimento studentesco. Il comunicato della ACESi espresse che, dopo sei mesi in cui le grandi marce non erano ascoltate dal governo, era stato deciso di accamparsi ad oltranza sulle rive del fiume.
Dopo un paio di ore, durante le quali i giovani non avevano nemmeno bloccato il traffico, arrivò un contingente delle Forze Speciali dei Carabinieri che agì con brutale violenza.
Javiera Sepúlveda, di 14 anni, fu vittima di forti percosse da parte del personale delle Forze Speciali, in particolare uno sulla vagina, che le procurò una emorragia. Fu ricoverata all’ospedale Calvo Mackenna per tre giorni. Questo fatto, unito agli abusi polizieschi e all’obbligo di denudarsi di un gruppo di liceali a Puente Alto e alla denuncia in rete che, durante le manifestazioni, i carabinieri ricevessero ordine via radio di “sollevare le gonne alle donne”ii, apre il dibattito riguardo la violenza di genere della polizia, che l’avvocata della Corporación Humanas Catalina Lagos propone di denominare come ‘violenza sessuale poliziesca’. A questo si sommano le discriminazioni subite da Camila Vallejo da parte dei mezzi di stampa nazionale e delle autorità del governo. Ad esempio quando Las Últimas Noticias titolava: “Camila no quiso mover la colita” (‘Camila non ha voluto muovere il culetto’ ), i modi di dire opinabili della funzionaria del Consiglio di Cultura, Tatiana Acuña Sallés: “Cuando se mata la perra se acaba la leva” (“quando si ammazza la cagna si leva il problema alla radice”) o la misera prospettiva politica di Jovino Novoa, che dichiarò, riferendosi al rifiuto del polo oppositore ad approvare la finanziaria, che “non possono eludere i loro obblighi nascondendosi dietro le sottane di una dirigente scolasticaiii.
La morte del giovane Manuel Gutiérrez, i 117 casi di abusi polizieschi presentati dalla ONG Asesoría Ciudadana di fronte alla Commissione Interamericana dei Diritti Umani, così come i casi di violenza contro bambini mapuche presentati dal Centro de Derechos Umanos della UDP (Universidad Diego Portales) ci pongono interrogativi importanti su questa materia in Cile. In questo contesto, intervistiamo l’avvocata Catalina Lagos, di Corporación Humanas, per approfondire gli aspetti di genere contenuti nella nuova ondata di violenza a cui assistiamo in questo periodo di postdittatura.
AMB: Che ci puoi dire sul caso della studentessa colpita alla vagina?
CL: Ci siamo riuniti con lei e i suoi genitori per intraprendere azioni legali.
GS: Contro i Carabinieri?
CL: Quello che è accaduto è un atto di violenza sessuale, e cioè un calcio che un Funzionario dei carabinieri le ha dato sulla vagina, molto violentemente. A causa di ciò la ragazza rimane in uno stato di vulnerabilità che la espone a un altro tipo di situazioni, del tutto irregolari. Purtroppo, per portare avanti il caso in maniera adeguata, non posso dare molti dettagli.
GS: Assistiamo a un tipo di violenza difficile da classificare, la violenza sessuale. Potresti spiegarci questo concetto?
CL: Se analizziamo i trattamenti speciali che vengono riservati alle ragazze nelle mobilitazioni, come per esempio quello che abbiamo letto nei media: palpeggiamenti indesiderati al seno o alla vagina, l’obbligo di togliersi i vestiti o la maglietta nei commissariati o nei veicoli della polizia, ci rendiamo conto che si è andato consolidando un modello di violenza sessuale contro le studentesse, per la loro condizione di genere. Succede spesso che venga loro ordinato di spogliarsi, con carabinieri uomini che guardano. Altro esempio sono le offese: cagna, troia, puttana. Queste sono aggressioni di carattere verbale con connotazione sessuale, e che vengono proferite contro le donne. Perciò noi vediamo una specificità di genere nella violenza poliziesca. Noi e altre ONG stiamo documentando che c’è un trattamento differenziato nella violenza che subiscono le donne nelle manifestazioni. Forse questo prima non si percepiva, ma attualmente la frequenza e l’intensità delle mobilitazioni lo rende più evidente.
AMB: Tendiamo a pensare che la violenza di genere e la violenza sessuale siano per lo più limitate all’ambito privato e che nella sfera pubblica siano meno visibili.
CL: Sì, da questo punto di vista c’è un lavoro notevole da fare. Per quanto riguarda le mobilitazioni studentesche l’importante è rilevare che si sta esercitando una violenza contro le studentesse per il fatto di essere donne.
GS: La nozione di violenza di genere di cui voi vi occupate include la violenza contro le minoranze sessuali?
CS: Sì, noi portiamo il caso di Karen Atala, perché lo consideriamo un caso di violenza sessuale.
GS: Quali altri casi di abuso poliziesco contro le donne potrebbero rientrare nella categoria di violenza sessuale?
CL: Io credo che la violenza sessuale sia un continuum, che si aggrava nei momenti di conflitto sociale. Per cui l’abbiamo sperimentata con un’intensità molto superiore durante la dittatura, quando venne utilizzata come metodo di tortura contro le donne.
GS: Qual è l’atteggiamento del governo sul tema della violenza poliziesca, rispetto ai governi della Concertazione?
CL: È difficile esprimere una valutazione obiettiva al riguardo. La Legge di Sicurezza dello Stato è stata applicata anche durante i governi della Concertazione.
AMB: Si potrebbe fare un paragone della violenza poliziesca di genere rispetto alle mobilitazioni del 2006?
CL: Non c’è un termine di paragone, non si può misurare se c’è una quantità maggiore, perché ora le mobilitazioni sono di più. Non vorrei fare una valutazione senza i dati corrispondenti.
AMB: Durante i governi della Concertazione, il Sernam (Servicio Nacional de la Mujer) ha portato avanti un lavoro trasversale in tutti i suoi ministeri per educare lo Stato sui temi di genere. Ad esempio, adesso è stato stabilito un qualche protocollo speciale per la polizia rispetto alle detenzioni, da una prospettiva di genere?
CL: Non mi risulta alcun protocollo di questo tipo.
GS: Le istanze per l’educazione, in quanto istanze sociali, si uniscono anche ad aspirazioni femministe come il diritto al corpo, che comprende il diritto al’aborto, tra le altre cose. Come vedi questa tensione tra la violenza sessuale poliziesca da un lato e la rivendicazione da parte delle donne del diritto al corpo, che non solo non viene soddisfatta, ma al contrario viene contrastata attraverso l’invasione del corpo delle donne?
CL: Nei momenti di mobilitazione sociale, le domande delle donne hanno sempre teso a rimanere indietro. Ad esempio, oggi c’è una domanda comune per l’educazione gratuita e pubblica per tutti, che si antepone al fatto che i collettivi di donne alzino le proprie bandiere. Insomma, è necessario che in movimenti come questo… focalizziamoci sul fatto che le manifestazioni di violenza statale hanno come obiettivo reprimere le donne attraverso la violenza sessuale, come per inviare il messaggio: “a te donna questo spazio pubblico non ti appartiene, ti punisco, punisco il tuo corpo per punire tutte le donne e mandare il messaggio che l’incursione nel mondo politico non ti appartiene”, ristabilendo l’ordine di genere che sempre ha dominato e che come femministe vogliamo sradicare. La repressione si produce sul corpo della donna.
AMB: È interessante l’idea che proponi della violenza sessuale come un continuum. Lo intendo come un continuum culturale, è per questo che possiamo dire che diventa invisibile e le giovani fanno tanta fatica a riconoscerla?
CL: Una prova di questo continuum è la violenza sessuale durante la dittatura, come metodo di tortura. Non ci furono sanzioni contro membri dello Stato per questi precisi atti, sono passati quasi inosservati. Per noi è importante rilevare questo fatto, e all’interno di Corporación Humanas lavoriamo su questo tema da tempo. Perciò abbiamo presentato cinque cause con l’obiettivo di dare visibilità a questa situazione e assegnarle il nome di “violenza sessuale”, posto che non è tipizzata legalmente come tale. Le sentenze esistenti la rendono invisibile, i fatti sono presentati come tortura, senza specificare questa particolare forma di violenza contro le donne. Nei processi già celebrati, come nel caso dell’Accademia di Guerra Antiaerea, nelle carte viene accertato che le donne furono vittime di stupro, scosse elettriche nei genitali, nudità forzata, aggressioni verbali, minacce di stupro, atti che costituiscono tutti violenza sessuale, e tuttavia la sentenza è per tortura, senza fare alcuna specificazione. Nel Rapporto Valech c’è un capitolo speciale sulle donne, ma non si affrontano le cause della violenza sessuale né le sue conseguenze, né si risarciscono in maniera differenziata le donne che ne furono vittime, mentre è evidente che le conseguenze della violenza sessuale sono ben diverse da quelle di qualsiasi altro tipo di tortura. In conclusione, possiamo dire che la violenza sessuale contro le donne al tempo della dittatura è stata resa invisibile ed è rimasta impunita; e anche questo fa parte del continuum, perché lo Stato non è stato capace di frenare l’impunità che ha imperato intorno a questo tipo di reati.
D’altra parte è importante mettere in chiaro che la violenza poliziesca è una manifestazione della violenza di genere e ha le sue fondamenta nella condizione di subordinazione delle donne nella società. In questo contesto, si tende a considerare naturale ogni comportamento violento contro di esse. A causa di questa naturalizzazione le donne stesse non riconoscono il carattere di “violenza sessuale” quando sono vittime di un’aggressione. Le donne normalmente non si sentono padrone del proprio corpo, spesso cercano di minimizzare o negare il danno che produce questo tipo di violenza. E ciò ha a che vedere con l’autopercezione di se stesse. Per cui le donne si chiedono: “Mi hanno spogliata; davvero questo è violenza? Quello che mi è successo, che mi abbiano spogliata, è violenza?” Da un lato influisce una disinformazione, ma dall’altro lato c’è anche una negazione. Le studentesse dicono: “Questa non è violenza. Violenza è quella che ha subito il ragazzo che stava accanto a me, che è stato colpito col manganello sulla testa”.
Ci sono molti fattori che incidono sull’invisibilizzazione e la mancanza di riconoscimento della violenza sessuale poliziesca e mi sembra importante includere in questo discorso lo Stato, che ha sottoscritto in questa materia trattati internazionali speciali per la protezione delle donne. La Convenzione di Belem Do Pará, la CEDAW (Convention on the Elimination of Discrimination against Women). Lo Stato con questi trattati dice: “Mi obbligo a prevenire, sanzionare e sradicare la violenza contro le donne”. Quindi con la sua inerzia di fronte a quello che succede oggigiorno viene meno ai suoi obblighi internazionali, da una parte. Dall’altra questo ciclo, questo continuum di violenza permette che prevalga l’impunità e non la renda visibile, in circostanze in cui lo Stato si trova obbligato ad attuare questi trattati.
AMB: La relazione del 2006 del Segretario Generale dell’Onu contiene un paragrafo in proposito: “L’inerzia dello Stato permette che sussistano leggi e politiche discriminatorie contro le donne, che indeboliscono i loro diritti umani e le privano di potere”iv. Potremmo dire che questo è ciò che sta accadendo nel nostro paese?
CL: Io penso che le denunce che stiamo leggendo per ora nei media – perché sono pochissime le denunce formali – dovrebbero far sì che lo Stato prenda in considerazione quello che sta succedendo. Lo Stato deve prevenire e adottare misure efficaci e adeguate affinché questo tipo di violenza non continui ad accadere, o per lo meno fare un richiamo ai Carabinieri. Insomma, dipendono dal Ministero dell’Interno! È evidente, in questo caso, la mancata esecuzione degli obblighi dello Stato.
AMB: Si rende invisibile la violenza sessuale poliziesca nei media?
CL: Secondo me il problema dei media è che, anche quando danno risalto ad atti di violenza sessuale, non li chiamano col loro nome. Un giornale di Antofagasta titola: “Gli hanno tolto perfino le mutandine nel commissariato”v e descrive le vessazioni che ha subito un gruppo di studentesse dell’Universidad Católica del Norte nel corso di uno sgombero. “Ragazzina colpita a calci nella vagina”, questo si è sentito in vari canali televisivi.
GS: Sì, ma per quello che ho visto io in tv non dicevano “vagina” ma “dolori addominali”. Addirittura un medico del Calvo Mackenna se n’è uscito con questo tipo di dichiarazioni.
CL: Comunque, anche se la copertura mediatica è evidentemente minore, e le donne per prime non riescono a riconoscere questo specifico tipo di violenza, a me sembra che il tema è stato toccato. Sono stati resi pubblici alcuni comunicati di osservatori dei diritti umani, che richiamavano l’attenzione sulla violenza sessuale, i nostri stessi comunicati che richiamavano l’attenzione… Quindi sì, a me sembra che stia cominciando a diventare un tema di discussione. Lentamente, poco a poco. L’importante, in fondo, è dargli un nome. Noi [di Corporación Humanas] cerchiamo di dargli un nome. E vogliamo potenziarlo come violenza sessuale poliziesca. Questo è il concetto, il nome che vogliamo dargli.
AMB: Quali testimonianze delle ragazze puoi condividere con noi? Quali sono le espressioni che utilizzano? Perché, come dicevi prima, è difficile per loro riconoscere che questa violenza le colpisce nella loro dignità.
CL: Abbiamo avuto casi di maggiore lucidità e autocoscienza, dove le ragazze capivano subito di aver subito un atto molto violento che le colpiva nella loro dignità sessuale, come dicevi tu. E non sanno bene perché, ma hanno questa sensazione che ci sia stato effettivamente un atto indebito che ha colpito loro in maniera particolare. Invece in altri casi non lo riconoscono, soprattutto è il caso delle aggressioni verbali: fanno più fatica a percepirle come violenza. Quando si sentono dire “cagna” o “troia” evidentemente le aggredisce, o capiscono che è un tipo di violenza ma non sono in grado di inquadrarla come una violenza specifica contro di loro.
AMB: Ciò del resto è legittimato dal mezzo di comunicazione, quando dice: “Camila non ha voluto muovere il culetto”.
CL: Esatto. Persino quando la violenza è stata perpetrata da una persona del governo, appena tre settimane dopo è caduto il capo d’imputazione. Non c’è una reazione immediata dello Stato nel sanzionare questo tipo di violenza contro Camila, per essere donna.
AMB: Potremmo porre le basi per una riflessione su violenza e diritti umani, incrociandola con quella su identità di genere e identità giovanili? Rispetto all’aggressione subita, Javiera Sepúlveda dice: “Sono gli inconvenienti del mestiere”. Questo si presta a una doppia lettura: queste donne sono super agguerrite, o c’è forse una negazione.
CL: La riflessione che mi sorge spontanea quando nomini identità di genere e identità giovanili è che, nei confronti di bambini/e e adolescenti, esistono obblighi specifici di protezione da parte dello Stato, lo stabilisce la Convenzione sui Diritti del Fanciullo e l’articolo 19 della Convenzione Americana sui Diritti Umani. Dovrebbero essere oggetto di una protezione speciale da parte dello Stato. Poi abbiamo queste studentesse, che sono donne mobilitate. E anche qui, ci sono obblighi rafforzati e specifici di protezione da parte dello Stato, in quanto a prevenire, eliminare e sanzionare la violenza contro la donna. Perciò ci sono soggetti femminili che sono oggetto di una doppia vulnerabilità. E di una doppia necessità di tutela.
Nazioni Unite. Assemblea Generale. Studio approfondito su tutte le forme di violenza contro la donna. Relazione del Segretario Generale 06 luglio 2006. Fonte: http://www.eclac.org/mujer/noticias/paginas/1/27401/InformeSecreGeneral.pdf
In un articolo su The Clinic Catarina Lagos cita questo titolo e riporta la testimonianza delle studentesse: “Le poliziotte ci portarono in una cella e ci obbligarono a spogliarci. Una compagna non voleva e cominciarono a strapparle i vestiti. Un’altra compagna aveva le mestruazioni e a lei in particolare la fecero spogliare completamente per umiliarla”.
Cf. http://www.theclinic.cl/2011/11/03/hasta-los-calzones-les-sacaron-a-universitarias-dentro-de-una-comisaria/
scusate l’intromissione, saluto FS che ho conosciuto virtualmente sui forum del MoMas, è la prima volta che scrivo qui.
Mi riferisco al concetto di violenza sessuale e chiedo: c’entra il calcio sulla vagina? Voglio dire, è un atto violento sicuramente. Ma uno dei “colpi” proibiti in ambito difensivo e repressivo usati per colpire un maschio da parte di un altro maschio è il calcio sui testicoli. O comunque nelle parti basse. Credo sia abbastanza frequente. Nè mai si è pensato di teorizzare una violenza di genere o violenza sessuale di genere, così come invece mi pare di capire dal’articolo.
Non crea ulteriore confusione?Voglio dire, perchè si pensa che il poliziotto prendendo a calci la ragazza nelle parti basse abbia inteso compiere qualcosa di “più” rispetto alla violenza repressiva, in spregio al corpo femminile? Non ne capisco la “ratio”. Nè capisco l’associazione di questo atto (sicuramente con intenzioni lesive, ma non sessuali a mio avviso) alle molestie sessuali della polizia